“ I've always been about pain. In
fact, I'm quite incapable of writing
anything else, nor would I want to. Where does it come from? Probably
the life
I've lived…”
*
“ Ho sempre scritto sul
dolore. Infatti, sono abbastanza incapace di scrivere su qualsiasi
altra cosa,
non perché io non voglia. Da dove viene questo?
Probabilmente dalla vita che ho
vissuto…”
Kyo, Dir en grey [from an interview about Vulgar,
in 2005]
Suicide
is the proof of life.
Capitolo Uno: “My place”.
Mi sono
sempre
chiesto quale fosse il mio posto,
in questo mondo.
Dalla
minuscola
finestra della mia stanza, che di mio forse non ha mai avuto
nulla,
guardavo di sottecchi i piccoli sprazzi dello scorrere della vita delle
persone
che si soffermavano nella mia visuale. Tutti i giorni mi appostavo in
quel mio angolo
segreto, tra la scrivania di legno di quercia e l’armadio
d’acero, rubando
qualche pezzo di esistenza alla gente che aveva la piccola sfortuna di
passare
davanti ai miei attenti occhi.
Potevo
scorgere
il gruppetto di bambini dell’asilo vicino che giocavano ai
giardini pubblici di
fianco. Correvano, goffi, nei loro enormi grembiulini rosa o blu.
Inventavano
insieme alle loro maestre stupidi giochi senza né capo,
né coda e spesso
scoppiavano in liberatori pianti, privi di un preciso
perché, cantilenando
frasi senza senso. Infine ridevano. Ridevano tanto, insieme.
In quei
ripetuti istanti, pensavo che loro ce l’avevano, il loro posto:
erano
dei bambini; dei piccoli bambini che dovevano
giocare, piangere e
ridere. Tutto qui. Null’altro.
Il loro
mondo,
la loro esistenza, si fermava a quello.Perché erano nati per
quello.
Esistevano, per quel preciso obbiettivo: per essere degli stupidi
bambini.
Io
cosa
dovevo essere? Io chi dovevo essere?
Non ero
un
stupido bambino, ma non ero nemmeno qualsiasi altra cosa.
Esistevo forse
con il semplice e futile obbiettivo di sopravvivere?
Riuscivo a vedere
ed a capire che spesso gli esseri viventi che mi circondavano erano ciò
che dovevano
essere. Erano stimati, erano amati, per il semplice fatto di
essere se
stessi. C’era qualcosa che mi
differiva
dagli altri?
Quegli
stupidi
bambini a casa loro avevano una madre e un padre che li aspettavano con
impazienza, con un grande sorriso
sciocco stampato in volto,
pronti a soffocarli d’amore con un abbraccio. Quando io ero
piccolo e d’Inverno
tornavo da scuola, me ne stavo quarantacinque minuti ad aspettare nel
giardino
di casa che mia madre finisse di scoparsi il giardiniere.
Se
fossi stato un bambino stupido, sarei
stato sicuramente il
più stupido.
Passavano
i giorni. Le settimane. I mesi. O
forse gli anni?
Continuavo
ad osservare dalla finestra, cercando in qualcuno dei vari
passanti qualcosa che potesse darmi un aiuto per capire me stesso. Ero strano?
Per
un certo periodo della mia apatica esistenza cercai
d’ignorare il
dubbio.
Forse
un fondo di verità c’era, visto che mia madre e
mio padre me lo
urlavano sempre.
“Sei
strano!
Non sei normale!”
Cosa
significavano, quelle esclamazioni? Non riuscivo a capacitarmene.
Tutto
quel che sapevo si limitava al fatto che non erano né
complimenti, né cose buone.
Mia
madre sospirava, quando mi guardava. Mio padre digrignava i denti,
se cercavo di parlare con lui. Perché?
La
mia anima piangeva al posto dei miei occhi.
Come
si faceva a piangere? Non mi piaceva
studiare. Non avevo amici. Passavo le mie giornate, la mia intera vita,
guardando fuori da una finestra.
Ero
strano?
“Diversità: contrasto
parziale o totale
sussistente tra i caratteri distintivi di due o più cose o
persone; motivo di
opposizione o di conflitto; differenza.”
“Diverso: totalmente o parzialmente opposto, per quanto riguarda i
caratteri distintivi oggettivamente rilevabili; estraneo alla comune
esperienza, non mai visto o udito, sconcertante;
ripugnante; mostruoso.”
“Normale:
riferibile alla
consuetudine o alla generalità; regolare.”
“Stranezza: insolita
difformità dal
consueto o dal normale,
motivo
di perplessità, di
sorpresa o
anche di singolare interesse e curiosità.”
Il
vocabolario
diceva così. Le mie piccole e candide mani lo avevano
sfogliato diligentemente,
pagina dopo pagina. Differente, opposto,
sconcertante, ripugnante, mostruoso.
La
mia mente era piena di parole e concetti.
Era quella, la mia etichetta. I miei genitori pensavo quello, di me.
Il
mio posto era forse quello? La
mia ricerca era finalmente terminata?
Dubbi. Ma non più di tanti.
Il
mio ghigno di dodicenne si aprì verso quel
nuovo me stesso, che forse ero sempre stato.