Seduta nell’umida caverna,
con la testa appoggiata alla pietra, attendeva che la pioggia smettesse di
flagellare la strada. Il vento ululava, freddo e impietoso, spingendo le gocce
fin sul bordo del suo riparo di fortuna mentre qualche fulmine solitario caricava
l’aria di elettricità. Si strinse le
braccia magre intorno alla vita, nel vano tentativo di scaldarsi e porre fine
ai brividi che la scuotevano impietosamente. Mise il viso in fiamme, l’unica cosa calda del suo altrimenti
corpo gelido, sulle ginocchia e si sforzò di dare sfogo alla sua
sofferenza. Perché, per gli Dei, non era in grado di piangere come un
qualsiasi essere umano? Aveva tutti i motivi per farlo, per lasciarsi andare.
Voleva disperatamente farlo, sentirsi prosciugata e purificata, invece di
portare quel peso che la soffocava, stringendole il petto in una morsa.
Desiderava urlare e battere i pugni, invece tutto quello che le usciva dalla bocca erano dei sospiri tremuli, preludio di tutto quello
che non riusciva ad esternare.
Furiosa con sé stessa, si alzò di
scatto, picchiando la mano di piatto sulla pietra. Tolse il guanto e stringendo la mano a pugno, colpì di nuovo.
Sentì il dolore delle nocche scorticate e vide il sangue iniziare
lentamente ad affiorare. Emise un basso grugnito e colpì ancora, con
più forza. Ora il sangue scendeva copioso dalla mano, in rivoli sottili
fino al gomito. Soffriva tanto, la mano faceva male ma il blocco che le
impediva di crollare completamente non cedeva. “Basta...”
si trovò a sussurrare. “Basta! Basta! Basta!” Adesso stava urlando. Si prese la testa tra le
mani e scivolò in ginocchio. “Basta...”
Questa volta era una supplica.
Era da quando l’incubo di Phibrizo era finito
che stentava ad addormentarsi, il suo sonno era frammentario mai ristoratore.
La sua mente era sconvolta da ricordi terribili, che la tormentavano in
continuazione, con una smaccata preferenza per le ore notturne, quando la sua
mente invece di riposare correva a briglia sciolta tra le lande desolate delle
sue esperienze più recenti. Non era sufficiente vedere, sentire che Gourry e anche gli altri erano vivi e stavano bene. Era
nervosa, sempre pronta a scattare, però era lenta come se si muovesse
sott’acqua, era euforica fino all’isteria, a tratti era depressa.
Stava male, in parole povere. Mascherava meglio che poteva quello che le
accadeva ma gli occhi dei suoi amici erano acuti, e lei era stanca.
La situazione era degenerata quella sera, alla locanda dove
stavano cenando. Si stava abbuffando, anche se non aveva fame. Amelia le aveva
messo una mano sulla spalla, rischiando di vedersela trapassare dal coltello.
“Lina-san,”
aveva esordito con fare serio, lanciando un’occhiata a Sylpheel. Lina l’aveva guardata, smettendo di
masticare. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei. Solo Gourry
continuava allegramente ad arraffare cibo. Zelgadiss
aveva tossicchiato e a quel punto Amelia aveva avuto una specie di spasmo,
probabilmente aveva tirato un calcio sotto il tavolo
allo spadaccino, che aveva posato il piatto e si era girato verso di lei. La
principessa aveva preso fiato. Zelgadiss aveva
abbassato lo sguardo, imbarazzato. Lina non aveva capito ancora, o non aveva
voluto capire. Aveva creduto che Amelia avesse in
mente di farle uno dei suoi predicozzi riguardo al cibo invece...
“Lina-san,”
aveva ripetuto la principessa. “Noi abbiamo parlato e...”
E lì Lina aveva capito. Abbiamo parlato. Loro avevano parlato. Di lei.
Alle sue spalle. Loro. Avevano. Parlato. “Lina-san,” si era intromessa Sylpheel.
“Siamo preoccupati.” Lina aveva girato il viso verso Zelgadiss. Zelgadiss non poteva
far parte di quella messinscena, non anche lui. E invece in quel momento anche
lui la guardava, sebbene di sottecchi. E così faceva Gourry,
che la fissava apertamente. Dopo aver tirato un grosso respiro, Amelia aveva
ripreso, cercando per un attimo gli occhi di Sylpheel.
“Noi non sappiamo esattamente cosa sia successo con L.o.N.
quando...” La maga aveva sentito la rabbia
salire. “Sto bene.” Aveva detto con voce bassa e pericolosa. Zel aveva sospirato ma Amelia aveva ricominciato.
“Noi siamo tuoi amici, Lina-san, per favore...” Forse non erano state le parole. Forse erano
stati gli sguardi. Compassione? Condiscendenza? La furia che tratteneva a sento era esplosa.
Si era alzata, facendo cadere la sedia con gran fracasso. Amelia si era zittita. La guardavano
tutti come se fosse impazzita. E forse lo era. Sorrise amaramente. Forse una
delle controindicazioni all’essere posseduta da L.o.N. era la pazzia. Forse aver cercato di uccidere
l’uomo che amava portava a perdere sé
stessi per sempre. FORSE vederli morire tutti e morire ti corrompeva
irrimediabilmente il cervello. Sapeva che razionalmente non avrebbe dovuto, che
reagire così avrebbe confermato i loro sospetti ma non ce la faceva
più. “Andate al diavolo.” Non aveva urlato,
il suo tono era rimasto basso e calmo. Gourry si era
alzato, allungando il braccio verso di lei. Lei si era semplicemente voltata e
aveva preso la via per la porta. Sul momento nessuno aveva fatto nulla, come se
la vista della sua schiena che si allontanava li avesse ipnotizzati. Poi era partito il coro di “Lina! Lina-san!”
Prima di sbattere la porta e partire via Raywing
aveva fatto in tempo a sentire un’altra sedia che cadeva.
Aveva volato controvento, con la pioggia negli occhi che la rendeva mezza cieca
nell’oscurità. Aveva schivato per miracolo alcuni alberi, sagome
nere che si stagliavano improvvisamente nel buio. Era atterrata malamente nel
fango e si era guardata intorno, senza capire minimamente dove fosse finita. La
natura sembrava furiosa come lei, solo con l’abilità di piangere
le lacrime che lei non riusciva a versare. Disorientata, mentre veniva inzuppata dal temporale, si era guardata attorno e
aveva visto, per miracolo dato il tempo, la caverna nella quale si trovava ora.
Si succhiò le nocche ferite, storcendo la bocca
al sapore ferroso del sangue. Perché una che sa usare il Recovery dovrebbe leccarsi le ferite come un gatto? Lina
piegò le labbra nell’ennesima espressione amara. Quel dolore e il
freddo della caverna la facevano sentire in una qualche maniera viva. Era come
se nei giorni, nelle settimane precedenti avesse vissuto in un mondo di gomma,
rimbalzando tra incubi e paure, anestetizzata dal dolore, sebbene soffrisse
molto. Come succedeva spesso, davanti ai suoi occhi vide quelli spalancati e
vitrei di Amelia, risentì le urla di Martina, il dolore di Zelgadiss, le grida di Zangulus,
il suono del corpo di Sylpheel che cadeva senza vita.
Vide le crepe fiorire sul cristallo di Gourry mentre
la sua vita scivolava via, come granelli di sabbia in una mano troppo aperta.
Strinse i denti ancora una volta, fino a farli scricchiolare. Serrò gli
occhi e mugulò, lasciandosi cadere
all’indietro, a peso morto. Battè la
testa contro il pavimento di roccia. Raccolse le ginocchia al petto e si mise
in posizione fetale, tenendosi stretta. Finalmente arrivò il primo
singhiozzo, seguito da un secondo e da un terzo. Lina Inverse scoppiò a
piangere con una forza inaspettata. Pianse fino ad avere il naso colante e la
voce roca, pianse fino a che non ebbe più lacrime e i suoi occhi
divennero asciutti e rossi. Pianse per la sua innocenza perduta, tutte le
persone che avevano perso la vita, pianse per la paura
che aveva provato, per quello che era stata costretta a fare. Pianse
perché era esaurita, perché la sua vita era andata a rotoli,
pianse per tutta la colpa che portava sulle spalle.