A volte lo aveva sentito piangere.
Disperatamente.
Aveva sussultato sulla sedia, a volte se aveva tenuto  un oggetto in mano le era caduto. Si era irrigidita, altre volte si era sciolta in lacrime. Alcune di queste si era messa a tremare, febbrilmente, col solo bisogno di sedersi su una poltrona e sorseggiare un tè caldo anche in piena estate.
La casa rimaneva comunque vuota, in quegli istanti: nulla si muoveva, o si agitava, o produceva rumore. Silenzio. Forse era proprio il silenzio ad aver creato quel pianto disperato dal nulla, era proprio il silenzio ad averla ridotta in quello stato di pura immobilità che a volte si ritrovava a cercare, per rimanere tranquilla, per rilassarsi.
Quella volta si era sciolta in sangue.
Così, l'aveva fatto, senza una ragione.
Il pianto l'aveva raggiunta di prima mattina, quando Endou se n'era già andato. L'aveva colpita con forza, senza darle il tempo di alzarsi dal letto, l'aveva dilaniata con le sue ombre voraci, le dita pallide di bambino si erano aggrappate al suo ventre. E lei era rimasta distesa, a guardare inorridita quell'essere maligno, senza fare o dire nulla. Il pianto era degenerato, si era trasformato in urla roche e stridule, aveva coinvolto con sé altri rumori sinistri: le porte avevano iniziato a sbattere violentemente, rumori di vetri infranti dal piano di sotto, sospiri accellerati e altri pianti, un po' diversi, un po' diffusi.
E il su e giù di una lametta. Quello era forte, e vivido: odore di sangue. Carta stropicciata. Risate sguaiate.
Natsumi era rimasta distesa sul letto, senza aver la forza di reagire. Su e giù, su e giù, il polso iniziava a far male e il sangue aveva iniziato a zampillare sulle lenzuola bianche. Su e giù, la mano che non si fermava e i suoi occhi fissi all'altezza del suo ventre, dove la mano d'ombra aveva iniziato a strattonarla e si arrampicava sul suo stomaco.
La testa pulsava. Faceva male. Il baccano continuava: grida di una donna, pianti, urla e gocce di sangue. Natsumi in quei momenti di solito non capiva nemmeno da che parte provenivano, ma quella volta lo scoprì: era lei ad urlare. Era lei a bruciare tra quelle fiamme livide e rabbiose, a piangere e dimenarsi, ad urlare: "Basta!" mentre la lametta continuava a fare su e giù. Su e giù.
Si sentì male, vomitò. La mano continuava a salire, e Natsumi pensava che se avesse raggiunto il cuore glielo avrebbe strappato dal petto, così, silenziosamente.
Affondò il viso nel cuscino e chiuse gli occhi, il bambino continuava  a strillargli nelle orecchie, le porte sbattevano, carta frusciante, campanelle di sonaglietti abbandonati nella culla per sempre.
E poi il silenzio.
Un silenzio cattivo, che faceva male.
Lo stesso silenzio che l'aveva resa in quello stato.
 
Erano state altre urla quelle che l'avevano finalmente svegliata. Natsumi aprì gli occhi impastati, uno sguardo nocciola alla sveglia sul comodino: era ora di cena, doveva aver già preparato da mangiare da un pezzo.
Endou gridava e bussava forte. Natsumi non capiva cosa dicesse. Si ritrovò a fissarsi il polso dolorante ancora lucido di sangue, il vomito e le lenzuola macchiate. Avrebbe dovuto fare il bucato.
- Natsumi! Natsumi non piangere, ti giuro che questa volta andrà bene! Te lo prometto! Natsumi apri la porta… Nats…
Non ascoltò oltre. Prese pigramente una delle pastiglie che nascondeva sotto il letto e ne ingoiò una. Due.
Sei.
- Natsumi… Natsumi, potremmo adottarlo. Sarebbe comunque nos…
Natsumi deglutì e fissò piano fuori dalla finestra.
Sarebbe andato tutto bene.