Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice
of live
Personaggi Principali:Seiya; Kiki
Altri Personaggi: Saori; Mur; altri solo nominati
Rating: verde
In proposito: “Seiya di Sagitter non è tenuto a scendere in campo senza Anissa” tentò
ancora Kiki.
“Ma Seiya di Pegasus lo avrebbe fatto” gli ricordò Seiya, con il cosmo
a irradiare, calmo ma potente. “Non sei d’accordo, Kiki?”
Disclaimer: i personaggi sono di Masami
Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: one shot; missing moments
Cose: e
sono cinque. Era partita come una one-shot con il primi Crescendo, ma ormai è
diventata una vera e propria storia a sé, con i suoi capitoli intercalati alla
narrazione dell’anime. Mi piace questo Seiya, così vicino alla serie classica
eppure più maturo, più consapevole. C’è una vena di malinconia in lui, e amo
scavare in quei sottintesi che si potrebbero intrecciare con altri personaggi,
nuovi e non.
Qui con Kiki, con il bambino che per anni li ha seguiti in battaglia; con
il bambino che è cresciuto con Seiya e i suoi amici e adesso è cavaliere d’oro
al posto del fratello. Penso che Seiya e Kiki rappresentino bene la nuova
situazione: proiettata al futuro, ma ancora legata al passato. Seiya ha
raccolto l’eredità dei Gold morti al muro del pianto; e inizia lentamente a
comprendere il peso e la solitudine.
Come sottotitolo ho scelto una
parola greca, kairòs, che indica la “volontà divina, incrollabile”. Diciamo
che la determinazione di Seiya, per non essendo eterea, è di certo molto forte.
Crescendo V
Kairos
Kiki sospirò, alzando lo sguardo
alla statua di Atena appena rischiarata dalla luce dell’alba. Era sempre una
sensazione strana osservarla: studiarne il profilo fermo e altero, gli occhi
ieratici che dominavano il Tempio e la dolcezza impalpabile di un sorriso
sottile. Quel sorriso che era appena una falce di luna, sospeso fra umano e
divino. Sembrava sorridere, la grande statua di Atena: di quel sorriso distante
e inafferrabile che è solo degli dei; di quel sorriso che spesso sfiorava Anissa
quando li guardava seduta in trono.
Non era più Saori-san.
Non lo era più da tempo ormai,
Kiki lo sapeva.
Dalla vittoria su Ade, Saori era
diventata Atena.
Ma forse anche prima; forse negli
Inferi aveva solo gettato l’ultimo velo di donna che l’avvolgeva.
Quando era tornata; quando
nell’oscurità dell’eclisse che andava diradandosi era apparsa, fulgida di cosmo
e dei bagliori della sua armatura, Kiki aveva sentito qualcosa spezzarsi. Aveva
avvertito la grandezza e l’abisso concretizzarsi, profondo e palpabile, fra
Saori e lui. E al posto della donna scesa nell’Ade era ritornata la dea,
conscia, determinata. Spietata.
Spietata come solo Atena sapeva
essere, per quell’amore incondizionato che la muoveva; per quell’abnegazione
viscerale che da sempre la portava a privarsi di affetti e sentimenti per non
cedere sotto i ricordi di mille vite ripetute uguali, per non soffermarsi suoi
visi, suoi nomi di chi nei secoli era caduto per lei.
È crudele Anissa; di quella
crudeltà così profonda e umana che la divorava vita dopo vita; minuto dopo
minuto. Ed era stata quella dolce, atavica profonda crudeltà ciò che Kiki aveva
scelto di servire.
Perché Anissa aveva pianto per suo
fratello e gli altri Cavalieri d’Oro; perché Anissa era stata pronta a
combattere senza armi pur di concedere loro l’occasione di una vittoria. Perché
era così da Saori imporre la propria
volontà con quel sorriso disarmante che ti lascia senza parole per ribattere.
E puoi solo accettare quello
sguardo, quella parola, quel gesto che sai che farà più male a lei che a te,
mentre te ne resti a guardarla proseguire caparbia per quella strada che si è
scelta, senza vacillare e senza pentimenti.
Anche in quel momento Kiki sapeva
di poter solo chinare la testa e accettare.
Accettare il cosmo di Anissa che
riecheggiava, risoluto e affaticato; accettare quel fastidioso senso di
abbandono che gli scorreva nel corpo, assieme alla consapevolezza di una
mancanza che si andava via via facendo più pressante, ossessiva. Perché il
cosmo di Anissa si stava affievolendo sempre di più, e l’eco che Kiki avvertiva
per il tempio, calmo e risoluto, era il lucore che nascondeva la sofferenza e
la fatica; era la pace infusa a discapito della propria sicurezza.
Aveva passato troppi anni al
fianco di Saori-san per non averne imparato le piccole bugie e gli stratagemmi.
L’aveva imparato presto quel cosmo Kiki, luce liquida che irradiava da una
bambina che aveva vegliato per ore ai piedi di Ariete e fra i ghiacci di
Asgard. L’aveva imparato presto, Kiki, l’amore che Saori-san portava a lui, ai
Cavalieri che l’avevano tradita e le avevano giurato fedeltà, a quel mondo
indifferente e ostinato, incapace di imparare dai propri errori eppure così
sfaccettato e complesso da non poter essere odiato.
E con il tempo, crescendo, aveva
imparato anche il legame che univa Anissa a Seiya.
Quel complesso, pericoloso,
viscerale amore al confine fra devozione e blasfemia; il desiderio di possesso
nelle mani di Seiya quando la sorreggevano; la consapevolezza del proibito nei
suoi occhi sempre più malinconici.
Seiya era così cambiato, in quegli
anni.
Aveva imparto a fingere; aveva
appreso come mascherare le emozioni troppo violente e le delusioni profonde.
Aveva imparato il sorriso per tranquillizzare e aveva imparato la dignità per
calmare. Seiya era cambiato, e all’ardore del bambino, all’avventatezza di
Pegasus si era sostituita la maturità di Sagitter.
Eppure, c’erano dei momenti in cui
Kiki vedeva riemergere il Seiya che aveva conosciuto a sette anni. Il ragazzino
di giochi infantili in pace e battute sagaci sul campo di battaglia; il
cavalieri che sapeva trascinare, che spronava i compagni e rivaleggiava con gli
dei.
C’erano momenti in cui Kiki
rivedeva l’uomo che avrebbe voluto diventare: la sua tenacia e la cocciutaggine
che Seiya gli aveva sempre mostrato; così profonda de sembrare una cicatrice
nel cosmo.
E c’erano momenti come quello,
come quando Seiya era tornato al Tempio con Saori-san fra le braccia. C’erano
momenti come quell’istante, sotto l’alba di Grecia, sulla grande terrazza ai
piedi della statua di Atena. C’erano momenti in cui Kiki non riusciva più a
distinguere in Seiya il confine fra l’uomo e il cavaliere.
Perché era di uomo lo sguardo di
Seiya verso il mare che andava riverberando; era di uomo innamorato la piega
amara che gli aveva visto sulle labbra quando aveva loro comunicato cosa Anissa avesse deciso di fare.
Perché era così da Seiya la decisione
di abbandonare il suo posta alla Nona per scendere di persona sul campo di
battaglia che aveva fatto tremare qualcosa dentro a Kiki, giù nel profondo,
oltre il cosmo e oltre l’anima.
Era stato come precipitare.
Vedere gli occhi di Seiya mentre
stringeva la daga di Saga; vedere la risolutezza nel suo viso e le mani fremere
di rabbia trattenuta con le sue parole.
E ritrovarsi fra le montagne di
quel loro primo incontro; ritrovarsi di fronte il sogghigno feroce di Seiya e
la volontà della lotta mescolarsi con la sicurezza. Era stato come ritrovare la
traccia di un ricordo.
Di fronte alle stanze di Atena; di
fronte a Cavalieri che Seiya non aveva ancora chiamato compagni; di fronte al ricordo vivido di Anissa stretta fra le sue
braccia, Kiki aveva visto il cavaliere di Sagitter deciso alla battaglia, aveva
visto Seiya di Pegasus come lo aveva visto per anni sui campi di battaglia
sfidare uomini e dei.
Ma il Seiya che gli dava le spalle
in quel momento, le ali di Sagitter abbandonate al vento; il Seiya immobile, la
lunga striscia di bisso a fluttuargli attorno; il Seiya di quella ventosa
mattinata greca era solo un uomo.
Un uomo che per la prima volta dopo
anni scendeva in campo a capo di un esercito agguerrito e fedele; un uomo
avvezzo più all’improvvisazione che all’accorta strategia; un ragazzo che aveva
scelto di perdere la vita e forse i sogni pur di proteggere la dea cui si era
votato, la donna che avrebbe sempre amato.
Ci vorrebbe Shiryu.
E il pensiero gli piegò le labbra
in sorriso rassegnato. Perché Shiryu avrebbe saputo cosa fare; avrebbe saputo
cosa dirgli. Shiryu avrebbe toccato una spalla di Seiya, in quel modo; e lo
avrebbe costretto a guardalo, proprio come Seiya lo stava guardando ora, gli
occhi sottili smarriti in domande e timori a fatica trattenuti.
Ci sarebbe voluto Shiryu.
La sua testa piegata per
disapprovazione e le parole sussurrate con un sorriso caldo; il modo che aveva
di riportarlo alla realtà, di spronarlo nei tentennamenti e di contenerlo
nell’euforia.
Ci sarebbe voluto Shiryu, per
restituire a Seiya la sicurezza della battaglia e per placarne il profondo
rabbioso senso di colpevolezza che Kiki avvertiva aggrovigliato al suo cosmo.
Rabbia verso se stesso, per non
aver fermato Saori-san.
Rabbia per Pallas, che stava
lentamente prosciugandone il cosmo e la vita.
Rabbia per la forza non ancora
recuperata dopo quindici anni di prigionia di Mars.
Rabbia per quel soffocate senso di
solitudine che provava.
Ci vorrebbe Shiryu.
Ma Shiryu non c’era. Non c’erano
le sue parole incoraggianti; né le battute taglienti di Hyoga o la fermezza di
Shun; mancava anche la feroce presenza di Ikki. Mancavano tutti loro e Kiki
sapeva che, per quando Seiya si sforzasse, non riusciva a riceve dei cavalieri
d’oro suoi compagni nulla di simile a quel senso di appartenenza e condivisione
che per anni lo aveva sostenuto.
“Ti stanno aspettando” sussurrò,
sentendosi stranamente a disagio nell’espressione di Seiya. “I cavalieri
d’argento verranno con te. E gli steel hanno già iniziato a muoversi. Come hai
ordinato” si affrettò ad aggiungere, spostando appena il peso del corpo da un
piede all’altro.
Era strano rivolgersi a Seiya in
quel modo, aspettare da lui le decisioni e le strategie da seguire. Kiki lo
conosceva: l’improvvisazione e l’avventatezza erano da sempre state le linee
guida di Seiya in battaglia. Ma Anissa aveva deciso così; e in fondo Kiki si
ritrovò a considerare che per lui era normale rimettersi a Seiya e alle sue
decisioni. Lo era stato negli anni in cui era ancora un bambino e si
intestardiva nel seguirli ovunque andasse; lo sarebbe stato anche adesso che
era cavaliere d’oro.
Questo almeno non è cambiato ricordò a se stesso, e il senso di rassicurazione e
tranquillità che ne percepì fu come un respiro a lungo trattenuto che si
rilassava.
Seiya però si era limitato ad un
accenno distratto della testa, mentre continuava a osservarlo con
un’espressione che Kiki non riusciva a decifrare. E così poco da Seiya che Kiki si chiese se davvero
fosse in grado di scendere di nuovo in campo. Quindici anni di prigionia e
lento costante logoramento del cosmo lo avevano provato più di quanto Seiya
ammettesse. Forse solo Anissa conosceva le sue reali condizioni, o forse
nemmeno lei. Perché Seiya era fatto così: con Anissa minimizzava e scherzava;
qualsiasi cosa pur di non farla preoccupare.
Sì
considerò ancora Kiki. Decisamente ci
vorrebbe Shiryu.
E si ritrovò irrazionalmente a
sperare di vederlo salire dalle scale della Tredicesima, rivestito dell’oro di
Libra. Immaginò il freddo del cosmo di Hyoga appena mitigato dalla fresca
potenza di Shun. Ikki invece sarebbe arrivato con calma, giusto per tirarci fuori dai guai come Seiya stesso amava spesso
dire.
Ma le scalinate rimasero
silenziose, vuote di cosmi e parole; e Kiki dovette ricordare a se stesso che
gli anni era trascorsi e nuovi cavalieri aspettavano il loro comandante ai
piedi dell’arena. Nuovi cavalieri per nuove battaglie; e il cosmo di Anissa crepitare
nella tacita lotta contro l’energia che la stava prosciugando.
“Non riesco ad abituarmici”
sorrise alla fine Seiya, una piega sottile che sapeva di incredulità e
rassegnazione assieme.
“A cosa?”
“A te. Cavaliere di Ariete” soffiò
dopo un breve silenzio, e la mente corse agli occhi impertinenti di un bambino
di sette anni. Ai suoi capricci infantili e al coraggio velato di incoscienza;
ai giorni cresciuti assieme, loro ragazzini che insegnavano a un bambino cosa
significasse essere cavalieri.
“Sei cresciuto, Kiki.”
E quell’ovvietà sospirata
all’alba, quelle semplici parole più simili ad un pensiero sfuggito che ad una
conversazione ponderata, svelavano la difficoltà di Seiya di comprendere,
ancora, il tempo trascorso. E di accettare di aver perso, di quei quindici
anni, qualcosa di inafferrabile ma importante. Qualcosa che avrebbe rimpianto
per sempre, nonostante tutto.
“Sono passati quindici anni,
Seiya” gli ricordò in un sussurro, tremando. Perché con Seiya non aveva ancora
deciso come comportarsi. Perché con Seiya nessuno aveva mai parlato degli anni
della sua prigionia, di cosa avesse provato, di cosa fosse cambiato. Troppa la
diffidenza di lui verso i nuovi compagni; troppa la distanza che, di nuovo,
separava cavaliere da cavaliere; troppo, soprattutto, l’alone di leggenda che
avvolgeva Seiya.
Era stato un ragazzo che aveva
rischiato la vita per Anissa; ed era diventato un nome sussurrato con rispetto,
quasi con timore. Era stato il fulgore di un cosmo che si incendia per dare
alla dea tutto se stesso. Ed era diventato l’esempio, come Arioso prima di lui.
Lo era stato per tutti; lo era
stato anche per lui, Kiki se ne accorse in quel momento.
“Quindici anni” ricordò a se
stesso. “Sono tanti. Davvero tanti.”
Kiki annuì distratto e di quelle
parole non riuscì a capire se fossero di rimpianto o di preoccupazione. Non
riuscì a distinguere la nostalgia da qualsiasi altra cosa Seiya potesse provare
in quel momento. O che si trascinasse dentro da chissà quando.
“Mi ricordi Mur” lo sorprese
Seiya.
Kiki sentì il respiro strozzarsi
nella gola. Perché faceva male; faceva ancora male il ricordo di suo fratello.
Avrebbe sempre fatto male. Con il tempo
gli avevano detto. Con il tempo. Ma gli anni erano trascorsi, le lacrime si
erano asciugate e quel senso di privazione se ne restava lì, incastrato nello
stomaco. E ogni tanto tornava a premere, chiudendogli la gola e facendogli
nascere un insano desiderio di poterlo ancora rivedere.
Non lo aveva nemmeno salutato
un’ultima volta.
Forse era quello il suo più grande
rimpianto. Quando era arrivato al tempio, Mur era ormai disceso in Ade. Aveva
sperato; fino all’ultimo Kiki aveva sperato e pregato che suo fratello
tornasse, che l’ultimo ricordo di lui non fosse la sua schiena che si
allontanava nell’alba del Jamir.
Aveva continuato a sperare anche
quando ne aveva sentito il cosmo esplodere; e ancora quando Anissa era tornata,
fulgida di luce, e Seiya, Shiryu, Hyoga, Shun e Ikki con lei. Aveva sperato;
tanto. Ma Mur non era tornato. Non sarebbe più tornato.
“Mi manca” sussurrò in un
singhiozzo. “Tanto.”
E si risentì bambino mentre
cercava l’appoggio di un amico; si risentì il bambino di quel giorno, gli occhi
senza lacrime a implorare una verità diversa da quella che conosceva. Aveva
odiato Anissa, quel giorno. Aveva odiato Anissa e il dolore nei suoi occhi.
Aveva odiato le braccia di donna che lo stringevano e il cosmo di dea che lo
avvolgeva a cullarlo. E più di tutto aveva odiato il dolore che aveva percepito
irradiare da Anissa.
Perché se lei aveva perso dei
cavalieri, lui aveva perso un fratello. Perché se a lei Mur aveva sacrificato
la vita, a lui non aveva lasciato nemmeno una tomba su cui piangere.
“Lo so” lo rassicurò Seiya. “Manca
anche a me. Mi mancano tutti loro.”
Seiya respirò piano l’aria fresca
dell’alba.
Aveva il sapore di un’altra alba,
di tanti anni prima. Di quella prima luce intuita dietro gli occhi stanchi
dalla lunga battaglia. Della prima alba dopo la morte di Saga, quando si era
risvegliato per un istante fra le braccia di Anissa. E i cavalieri d’oro erano
alle sue spalle, fulgidi d’oro e di cosmo.
Gli mancavano. Tutti loro.
Mur dallo sguardo tranquillo; il
sorriso aperto di Aldebaran; la complicità con Aioria e le provocazioni con
Milo. Perfino l’imperturbabilità di Shaka.
Strinse le mani socchiudendo gli
occhi. Adesso altri cavalieri vestivano le armature troppo conosciute; adesso
era lui stesso cavaliere d’oro. Eppure Seiya non ce la faceva. Non riusciva a
chiamare compagni uomini con cui non
aveva condiviso nulla, se non la dedizione ad Anissa.
Era infantile, e sciocco. Eppure
non ci riusciva.
Per lui, i cavalieri d’oro sarebbe
sempre stati quelli della sua generazione: gli uomini contro cui si erano
battuti in quella folle insensata corsa fino alle stanze di Arles. Fino a Saga.
Gli uomini che anche dalla morte erano stati capaci di combattere al loro
fianco.
“Non saremo mai compagni. Vero Seiya?” gli chiese Kiki,
una punta di disillusione nella voce. Perché conosceva già la risposta; perché
lui per primo non riusciva ancora a razionalizzare di vestire Ariete, di essere
Ariete al posto di Mur. E che altri occupavano le Case, così diversi dai visi
della sua infanzia.
“Non lo so” scosse piano la testa.
“Con il tempo. Forse.”
Kiki sorrise.
“Da quando hai imparato a
mentire?”
Seiya accennò appena una smorfia,
sollevando con leggerezza le spalle. Seiya di solito non giocava con le parole.
Seiya era quel tipo di persona che alle mezze verità preferiva la realtà
sbattuta in faccia anche con ferocia e dolore.
“Chissà” ridacchiò. “Forse da
quando certi bambini hanno iniziato a fare domande impertinenti.”
“Non sono più un bambino, Seiya”
protestò debolmente Kiki, le guance in uno sbuffò.
E desiderò che il tempo tornasse
indietro; desiderò essere ancora un bambino che aspettava, le lunghe ore
trascorse nelle solitudini dello Jamir. Desiderò non conoscere i segreti della
forgiatura e la meticolosa, attenta, raffinata potenza dell’oricalco. Desiderò
trovare anche solo una parola per vedere di nuovo il sorriso di Seiya.
Non la linea sottile che ogni
tanto gli piegava le labbra; Kiki avrebbe voluto rivedere quel sorriso aperto,
quasi ferino, con cui Seiya aveva sempre affrontato la vita.
“Lo so, lo so” cantilenò, e la
mano si mosse in un gesto conosciuto ad accarezzare una testolina arruffata.
Quante volte lo aveva fatto? Quando Kiki era preoccupato, o quando la voglia di
scherzare era tanta, nei rari momenti di quiete. Kiki era spesso con loro, in
quelle occasioni e Seiya si sentiva ritornare bambino.
Adesso la mano rimase sospesa
nell’aria.
Cos’è la consapevolezza?
Kiki pensò che fosse l’espressione
amara sul viso di Seiya. Il respiro appena trattenuto e come il lampo di
consapevolezza che lo aveva attraversato. Perché adesso la mano che gli
scompigliava i capelli doveva alzarsi oltre l’altezza di un bambino; perché
adesso era Kiki a superare Seiya in altezza; perché c’erano momento, come
quello, in cui Seiya afferrava appieno il tempo trascorso e i cambiamenti
occorsi. Ed era come se qualcosa si frantumasse.
Non era la sicurezza e nemmeno la
razionalità. Era un qualcosa di inafferrabile e labile, ma così fisico da farlo
quasi vacillare.
L’ho voluto io si disse, stringendo il pungo nell’aria.
Perché era stato pronto a morire
contro Mars; perché il pensiero di distruggersi era nulla al confronto del
dolore all’idea di perdere Anissa e i suoi amici. Perché era stato così
naturale, per lui, ardere di stelle e scegliere l’attacco che non aveva
realmente pensato alle conseguenze. E nei quindici anni di oblio; nei quindici
anni trascinati fra lenta sfiancante lotta contro le tenebre e brevi istanti di
evasione il tempo era stato un eterno presente, una marea nera troppo simile
allo stillicidio per permettergli di afferrare veramente quello che
significava.
E adesso, di tutta la sua vita,
Seiya avvertiva solo prima e dopo.
Adesso era dopo.
Dopo la lunga prigionia, tutto
quello che gli era rimasto era raccogliere l’eredità di Arioso e continuare ad
andare avanti, cercando nel suo cosmo ancora ferito e negli occhi azzurri di
Anissa l’antica volontà, l’infantile determinazione.
Seiya sospirò, sfiorando con lo
sguardo la daga nella sua mano.
Aveva scelto di combattere; aveva
scelto di vestire Sagitter e di usarne il pieno completo caldo potere. Aveva
scelto di guidare l’esercito di Anissa e di scendere in campo in prima persona,
abbandonando il suo posto alla Nona.
Abbandonando Anissa. Di nuovo.
“Seiya” lo chiamò Kiki, sul viso
la maturità della sua età, negli occhi la serietà dell’uomo che era diventato.
“Non sei costretto a farlo, Seiya” gli ricordò.
“Forse.”
Seiya socchiuse gli occhi.
Avrebbe potuto restare; avrebbe
potuto sederle accanto e attendere con lei il trascorrere delle ore. Avrebbe
potuto aver fiducia in Koga e nei suoi compagni, nella loro giovane volontà.
Avrebbe potuto.
Ma c’era ancora la sensazione del
corpo di Anissa contro il suo; l’abbandono esausto e il respiro lieve che lo
sfiorava. C’era lo sguardo velato di dolore che gli aveva rivolto quando
l’aveva distesa sul letto.
Seiya aveva visto il terrore negli
occhi di Anissa in quel momento. La folle razionale conosciuta consapevolezza
che lui stava per disattendere a un suo volere e rischiare in prima linea. Che
Seiya avrebbe fatto quello che si sentiva in dovere di fare, disattendendo
Sagitter e infrangendo le regole che lo volevano accanto ad Anissa, accanto alla
sua dea.
Seiya lo aveva visto, quello
sguardo, e insieme aveva avvertito il cosmo fluire da Anissa simile ad un
rivolo sottile.
Non c’è tempo si era ritrovato a razionalizzare, mentre le voltava le spalle e
recuperava la daga di Saga. Non c’è tempo
si ripetè ancora
“Seiya di Sagitter non è tenuto a
scendere in campo senza Anissa” tentò ancora Kiki.
“Ma Seiya di Pegasus lo avrebbe
fatto” gli ricordò Seiya, con il cosmo a irradiare, calmo ma potente. “Non sei
d’accordo, Kiki?”
Kiki annuì, mentre qualcosa simile
al sollievo o forse alla sicurezza gli fece increspare un sorriso. Perché era
Seiya quello che lo stava guardando, in quel momento. Era il Seiya dei tredici
anni, era il cavaliere che Kiki aveva sempre conosciuto, con la sua feroce
determinazione e la sua ferma devozione.
“Anissa si arrabbierà” aggiunse in
uno sbuffo divertito.
“Fa niente” gli ricordò Seiya,
scrollando le spalle. “Non sarebbe la prima volta.”
L’aria fischiò fra le ali di
Sagitter e la lunga striscia di bissò schioccò secca. Dalle pendici del colle
risaliva l’odore intenso delle olive e della menta. Seiya si affacciò al
parapetto. Nella zona in penombra che si indovinava appena dietro il costone
delle Case, l’arena brulicava di uomini e cavalieri pronti a seguirlo. Anche
nella morte.
Non c’è più tempo ripetè ancora, e una sensazione di conosciuto lo sfiorò, assieme alla
consapevolezza della mancanza degli amici di sempre al proprio fianco.
“Sei pronto a tutto?” gli chiese
Kiki alla fine, liberando quella domanda che si era trascinato silenzioso per
tutto il tempo.
“Stai tranquillo” sorrise Seiya, mentre
recuperava l’elmo abbandonato su un capitello. “Non ho intenzione di
suicidarmi. Un po’ di giudizio ce l’ho anch’io. Sai?”
“Ne dubito” bofonchiò Kiki, mentre
gli si avvicinava accanto al parapetto della terrazza.
“Ti affido Anissa, Kiki” gli
disse, infilandosi l’elmo. “Posso fidarmi. Vero?”
Kiki annuì, gonfiando il petto. E
si rivide ragazzino accanto a Saori-san ai piedi della scalinata; si rivide
ragazzino fra i ghiacciai di Asgard, e vegliare sulla volontà della dea cui
aveva giurato fedeltà. E seppe che per Seiya nulla era cambiato da quei giorni;
seppe che per Seiya Kiki era ancora il ragazzino cui affidare la sicurezza di
Anissa mentre la battaglia infuriava.
Le ali di Sagitter rifulsero d’oro
e di cosmo nell’alba di Grecia quando Seiya le spiegò nel vento. Aveva la daga
ben salda in mano e sul viso la determinazione e la volontà di un tempo, velata
da quella matura malinconia che gli addolciva lo sguardo.
“Vedrai” gli disse, mentre il
cosmo bruciava fulgido e immenso. “Ci penserà Shiryu a tenermi lontano dai
guai.”
“Speri che ti raggiunga?”
Seiya rise. Di un riso aperto e
sottile che, per un istante, a Kiki ricordò l’incoscienza.
“Ci sarà, ci sarà” gli assicurò,
muovendo distrattamente una mano nell’aria. “E con lui anche Hyoga e Shun.
Perfino Ikki, prima o dopo.”
“Lo speri e basta” tentennò Kiki.
“Shiryu è ancora debole.” E lo sei anche
tu avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne. Qualcosa negli occhi di
Seiya urlava la sicurezza che non tutto fosse cambiato, che il tempo avesse
concesso di conservare qualcosa di prezioso, di bello ma indefinito. Forse
l’illusione forse la sicurezza delle parole.
Di quelle parole che Seiya lasciò
nel vento come saluto, mentre Sagitter attraversava i templi simile alla fiamma
che divampa.
“Ci saranno. Lo so. Ci saranno.”