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Autore: Francine    05/09/2013    1 recensioni
[[Superman Returns]]
“Capisco…” aveva commentato Lois segnandosi le sue esatte parole sul fido taccuino. “Miri ad essere un esempio, allora.”
“Esattamente” aveva risposto lui, tornando a sorridere. “Un esempio.”
Prima pubblicazione: 28.11.2006
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Perché il mondo non ha bisogno di Superman

  «E ricordate, ragazzi: voglio notizie! Politica: come cambierà il mondo, ora che lui non c’è più? Gossip: perché è andato via? Un amore? La fidanzata di un altro pianeta? Attualità: il mondo ha ancora bisogno di lui?»

La sala riunioni del Daily Planet piombò nel silenzio più assoluto, fatta eccezione per le biro e le matite che correvano veloci sul bianco dei taccuini. Gli occhi di Perry White rimasero incollati sulle belle mani di Lois Lane. Erano ferme, immobili e questo da quando aveva pronunciato quelle parole. 

Gossip: perché è andato via? Un amore? La fidanzata di un altro pianeta?

Sospirò. Che c’è, Lois? Non credi che il nostro campione possa essersene andato dietro ad una gonnella di Marte, vero?, pensò Perry prima di dire «Avanti, andate! C’è un giornale da mandare avanti, cribbio! Muoversi, muoversi, muoversi!».

L’intera redazione obbedì come un sol uomo, andando ognuno ad occupare la propria scrivania, o scendendo in strada in cerca di notizie. Era così che Perry White aveva iniziato: dalla strada. La strada era il miglior mare in cui pescare delle notizie degne di questo nome. Lo aveva imparato anche lui, a suo tempo, e i suoi pezzi migliori, i suoi assi, li aveva scritti proprio inseguendo le ambulanze.

Lois era della sua stessa pasta. L’aveva capito non appena aveva messo piede in redazione, una mattina di Maggio di sette anni prima; stavano cercando una persona che si occupasse di aiutare i ragazzi alle bozze. E lei aveva accettato. 
Poi, dopo appena un mese dalla sua assunzione, capitò un’occasione che quella ragazza non si lasciò sfuggire. Bruce, un corrispondente dalle Hawaii, aveva inviato via fax un articolo che era giunto incompleto in redazione. Mancava tutta la parte relativa alla descrizione delle Hawaii, qualcosa che facesse venir voglia di mettere un paio di costumi da bagno in valigia e prendere il primo volo per Honolulu. Considerato che la rubrica di Bruce era quella dei viaggi, era una catastrofe.

«Se me lo permette, posso pensarci io», si era proposta Lois. «Ho seguito mio padre per metà degli Stati Uniti, signor White. Conosco le Hawaii, l’Arizona, e un’altra dozzina di Stati come le mie tasche. Mi lasci provare.»

Perry aveva visto qualcosa nei suoi occhi, neri come le ali di un corvo sporco di catrame, che l’aveva convinto a darle una chance.

«E va bene, vediamo quello che sai fare, ragazzina…», le aveva risposto per sfida, convinto che una novellina appena uscita dal College non potesse mettere insieme un pezzo sullo stesso stile di quelli di Bruce Chattelyn.

E invece Lois ci riuscì. Scrisse un articolo che odorava di mare e lasciava in bocca il gusto del sale dell’Oceano. Perry la tolse dall’Ufficio Bozze e la spedì a farsi le ossa assieme a Dick Giordano, per la strada. E Lois, in tutti quegli anni, non l’aveva deluso una sola volta.

Sgomitava per le interviste più impossibili. Teneva testa a Lex Luthor, cosa non facile per una bella donna in una città come Metropolis, interamente asservita ai suoi dollari.

Riusciva ad ottenere delle esclusive che i ragazzi del telegiornale si sognavano, nonostante Perry mantenesse il punto per spronare i suoi ragazzi a dare sempre di più.

Lei aveva coniato il nome di Superman. Lei era riuscita a strappargli delle interviste esclusive, frutto non solo del suo bel paio di gambe o della sua tenacia che la rendeva simile ad un mastino. E lei, adesso, ciondolava tra la Sala Riunioni e la sua scrivania.

«Lane, nel mio ufficio!»

Lois si voltò solo quando Olsen, il giovane fotografo con quell’assurda mania d’indossare dei cravattini, le toccò la spalla. Si diresse verso di lui in catalessi, e Perry cercò di non farle vedere la sua preoccupazione. Come si chiuse la porta a vetri alle spalle, Perry vide un’estranea. Sembrava in arretrato con Morfeo, e che non frequentasse parrucchiere e manicure da almeno due settimane. Probabilmente, aveva passato anche quel week-end in vestaglia, incollata ad un telefono muto e affacciata ad un balcone che aveva ricevuto la visita di colombi e piccioni, ma non quella che Lois aspettava da un mese. La sua. 
E meno male che non è venuto, Lois. Sono sicuro che se t’avesse visto in queste condizioni, sarebbe scappato a gambe levate, pensò Perry portandosi le mani dietro la schiena. Lois Lane era spettinata, aveva le unghie morse a pelle e una calza smagliata; se tutto questo poteva passare inosservato in una donna comune, era come se su di lei qualcuno avesse scritto a grandi lettere «sono uno straccio!».
«Siediti, Lois.» le disse indicandole la comoda poltrona davanti la sua scrivania. Lois ubbidì, movendosi con quell’aria un po’ svagata che la contraddistingueva da un bel pezzo.

«Dimmi, Perry…»

«Vedi, Lois», prese a dire il vecchio cronista d’assalto guardando Metropolis al di là dell’ampia vetrata del suo ufficio , «vorrei avere la tua opinione sulla questione.»

«Quale questione?», chiese Lois alzando il viso pallido.

«Lois, sarò onesto: io non credo che il nostro eroe tornerà tanto presto. Oramai manca da quanto? Un mese?»

«Tre settimane… dopodomani», lo corresse e lui si preoccupò. 

Probabilmente tiene il conto dei giorni facendo le crocette sul muro, o roba simile, si disse Perry provando un misto di pena e rabbia.

«Tu dici che tornerà?»

Nessuna risposta. La giovane giornalista rampante, ridotta all’ombra di se stessa, abbassò la testa verso le sue Ferragamo ciliegia, sporche di fango in punta. 

«Io ho smesso di sperarlo. Ho smesso quando sono crollate le Torri, due settimane fa», ammise Perry, tradendo una certa angoscia.

«È per questo che hai deciso di dare quest’impronta da memoriale al giornale?»

Centro. In effetti, visto l’andazzo dei pezzi che sfornava il Daily Planet, anche un cieco avrebbe capito che per Perry White e il suo giornale, Superman e il suo mantello svolazzante erano solo un bel ricordo, qualcosa con cui allietare le serate tra amici, o con cui condire le favole da raccontare ai nipotini per metterli a letto. Una bella favola, in cui il Principe azzurro risolveva i pasticci degli uomini, salvava giovani donzelle in pericolo e vegliava sulle sorti della Terra. La sera potevi andare a letto, sicuro e tranquillo che qualcuno avrebbe vegliato sul tuo sonno e sui tuoi passi. 

Qualcuno con un fisico come quello degli dei greci ed un mantello rosso come il fuoco.

«Il mondo si è crogiolato in una favola, Lois. Solo che il sogno è finito e non abbiamo voluto aprire gli occhi. E questo è il risultato», concluse Perry indicando uno scatto di Ground Zero.

Lois seguì il suo sguardo, poi gli domandò cosa mai volesse intendere con quelle sue parole così dure.

«Non capisci, vero? Fino a tre settimane fa l’umanità si svegliava sapendo che c’era qualcuno a vegliare sui suoi passi. Oh, era tutto molto bello e facile, vero? Posso sbagliare quanto voglio, tanto so che comunque arriverà Superman a salvarmi, no? Ma un bel giorno, il nostro eroe se ne è andato, e noi ci abbiamo messo un po’ troppo tempo a capire che avremmo dovuto camminare sulle nostre gambe. Vale a dire, che ci saremmo dovuti guardare da noi le spalle, perché non avremmo avuto più nessun angelo custode.Solo che noi non l’abbiamo capito, mentre loro… sì.»

«Vuoi dire che è colpa di Superman se…»

«No, Lois. Non è colpa sua. Lui non ha agito, ma nemmeno noi abbiamo mosso un dito per prevenire, tutti presi e convinti com’eravamo che ci sarebbe stato qualcuno che l'avrebbe fatto al posto nostro.»

Lois rimase a fissare Perry, una ciocca castana che sfuggiva allo chignon arroccato in malo modo sulla sua nuca. Quel discorso le faceva male, perché sapeva che aveva ragione. Abbassò la testa sul suo grembo, concentrandosi sulle dita magre. 

«Per questo, voglio che sia tu a scrivere l’editoriale del numero speciale di dopodomani, Lois. Voglio un’analisi lucida della sua scomparsa. Voglio che tu illustri ai nostri lettori un punto di vista razionale sulla situazione. Non m’importa se non sei d’accordo con me, ragazza. Voglio, però, che tu scriva un signor pezzo per farne un editoriale da quattro colonne per la terza pagina.»

«Ma perché io?», domandò genuinamente stupita. «Perché non Kent? Perché non tu? Dopotutto, gli editoriali portano sempre la tua firma, Perry.»

«Perché Kent si è licenziato, Lois. E perché tu sei quella che lo conosceva meglio di tutti quanti noi», replicò lui tornando a guardare fuori. E perché voglio che tu per prima inizi a svegliarti dal tuo bel sogno.

«Perry, veramente io…»

«Non accetto risposte negative, lo sai», le disse frenando i suoi tentativi di ribellione.

«Ma ho in mente un pezzo unico. Tutti che parlano di Superman; Superman di qua, Superman di là… alla fine dicono tutti la stessa cosa, e uno non legge il pezzo. Io, invece, ho deciso di scrivere su una scoperta fatta da alcuni astronomi…»

«Toglietelo dalla testa», le disse Perry tornando a guardarla in viso. «La notizia, adesso, è Superman. E io voglio quel pezzo, Lois.»

«Ma…»

«Niente ma. Lo voglio sulla mia scrivania per le sedici di domani pomeriggio. Sono stato chiaro?»





Aprì e richiuse quel file dozzine di volte. Le parole non le venivano, e quand’era così, era meglio spegnere tutto e andare a casa. Glielo suggeriva l’Esperienza, quella che Wilde definiva essere la somma degli errori dell’uomo.

Lois spense il suo prezioso portatile argento, infilò le sue cose nella capiente sporta di Prada che aveva pagato un quinto dello stipendio, ed imboccò la via per gli ascensori ticchettando sul pavimento tirato a lucido della redazione. Dopo aver sbagliato a scrivere un aggettivo per tre volte di seguito, Lois aveva deciso di tornarsene a casa, e di mettere insieme lì un pezzo per Perry. Ci avrebbe lavorato su tutta la notte, se necessario, e avrebbe accontentato il suo capo. Perché, se c’era una cosa che aveva capito di Perry Withe in tutti quegli anni passati fianco a fianco, era che non assegnava quasi mai i pezzi giusti alle persone sbagliate. 

Qualsiasi direttore sano di mente avrebbe affidato ad occhi chiusi un articolo su Superman a Lois Lane; negli ultimi due anni era stata la donna più vicina a lui, tanto che molti giornali scandalistici avevano malignato circa la sua professionalità.

Lois Lane? Oh, un brava giornalista, certo… Bella e brava; chissà come farà ad ottenere le interviste a Superman, dicevano tra le righe molte penne del giornalismo nazionale, invidiose del fatto che lei fosse una dei referenti principali dell’Uomo d’Acciaio. Lois le odiava. Non riusciva a capire come la concorrenza potesse essere così meschina nei suoi confronti. Avrebbe scommesso volentieri la sua bella testolina pensante che non sarebbe mai e poi mai diventata la pietra dello scandalo se, al posto di un fusto di un metro e novanta dagli occhi blu e la voce profonda, ci fosse stato un supereroe più bizzarro, come quelli che popolavano i fumetti che leggeva da bambina.

Arrivata a casa, sotto il getto bollente della doccia ed un mare di schiuma al bergamotto, Lois aveva continuato a domandarsi come si potesse essere tanto grette, a cominciare da quella sua collega, quella Cat Grant che tanto si era prodigata nello spargere veleno su di lei e sulla sua presunta relazione con Superman. 

Probabilmente, anzi, certamente, Cat Grant avrebbe voluto avere la sua prontezza di spirito quando, su quel volo sperimentale, lei era uscita dal velivolo, miracolosamente atterrato tutto intero su di un campo da baseball, ed era corsa a parlare con il fenomeno che li aveva salvati.

Devi mangiarne di pagnotte, ragazza, pensò Lois avvolgendosi in un accappatoio di spugna morbida. Si passò un asciugamano sui capelli e si fermò al centro del salotto, lo sguardo fisso sul divano bianco dove lui sedeva sempre quando l’intervistava. Poteva ancora percepire la sua figura e il segno del suo passaggio sui cuscini. Se ne stava immobile, come una statua di sale, lì accanto al bracciolo di sinistra, una mano posata con noncuranza su un ginocchio a simulare una certa sicurezza che, in realtà, non provava affatto. 

Lois si era sempre chiesta come fosse possibile che un uomo grande e grosso come lui potesse essere messo in soggezione da uno scricciolo come lei. Non sputava fuoco, non minacciava di distruggere il mondo, non era dotata di superpoteri potenzialmente dannosi. Perché mai, allora, l’Uomo d’Acciaio si comportava come uno scolaretto timido davanti alla maestrina? 

Le faceva tenerezza, e per un certo periodo – vale a dire un paio di mesi buoni – si era chiesta come mai quel ragazzone così aitante si mostrasse così a disagio con lei. Questo, almeno, fino a quando lui non l’aveva salvata, sollevandola in aria come se nulla fosse.

Stia tranquilla, la tengo io, le aveva detto stringendola forte, mentre quell’elicottero si abbatteva al suolo.

«E chi tiene lei?», ripeté adesso Lois mentre la vista le si andava appannando. 

Si passò la manica dell’accappatoio sugli occhi. Piangere non avrebbe risolto nulla. E poi, aveva pianto sin troppo nelle ultime tre settimane. E che cosa aveva ricavato? Nulla, se non un paio di occhiaie livide nascoste sotto spessi strati di correttore, e una frustrazione che montava sempre di più.

Lui non sarebbe tornato.

Era ora che anche lei accettasse la brutale realtà dei fatti.

Aprì un cassetto, rovistò al suo interno e tirò fuori un vecchio portasigarette dorato che si era regalata anni addietro. L’aveva visto in uno di quei vecchi film con Cary Grant, Susanna forse?, e aveva deciso che sarebbe stato perfetto sul portariviste di vetro del suo appartamento con vista panoramica. Fece scattare l’apertura e tirò fuori una sigaretta e l’accendino. Uscì sulla terrazza e si appoggiò al parapetto, guardando il mare di luci colorate e frenetiche che era Metropolis a quell’ora della sera.
Certe volte le arrivava anche la brezza del mare, quando il vento spirava da est. Accostò la sigaretta alle labbra e l’accese. La fiamma baluginò vivace nell’aria frizzante di fine Settembre, ma nulla. Inspirò. Tossì: non era più abituata all’acre sapore della nicotina. Lois si guardò attorno. Nessuno aveva soffiato per spegnere la fiammella che ancora guizzava davanti a lei.
Istintivamente, si volse verso i grandi vasi di rose bianche che arredavano l’angolo est della sua terrazza, lì dove appariva lui. Lì dove era comparso per la prima volta due anni prima, in una calda serata d’inizio Ottobre.




Anche quella era stata una giornata faticosa. L’Estate stava svanendo lenta, tra belle giornate ancora calde, pervase da un vento freddo che annunciava l’Autunno. Settembre era finito da un paio di giorni ed Ottobre aveva deciso di essere clemente e di regalare una tavolozza di rosso e oro agli alberi che decoravano i viali chic della città. 

Anche quella sera di due anni avanti, Lois non riusciva a raccapezzarsi. Perry le aveva affibbiato una bella gatta da pelare, scrivere un pezzo sul fustacchione che lei stessa aveva battezzato Superman. Tu lo hai chiamato così, e tu scriverai su di lui, le aveva detto il capo in modo perentorio. E lei, non sapendo a quale santo votarsi, era tornata a casa e aveva provato a fare mente locale sul suo problema, iniziando il famigerato cambio di stagione.

C’era una strana umidità nell’aria; probabilmente, sarebbe iniziato a piovere da un giorno all’altro, e sarebbe stato meglio togliere dalla naftalina il trench e gli stivali da pioggia. 

Avere le mani impegnate in qualcos'altro che non fosse battere sul suo fido portatile avrebbe permesso alla mente di Lois di focalizzare meglio il problema. Spesso usava questo trucco per arrivare in fondo alle questioni che più le premevano: rassettava casa, andava dal parrucchiere, oppure si concedeva il lusso di lunghe camminate nel parco, da sola. Quand’era ragazzina, Lois amava fare lunghe passeggiate e accorgersi della natura che mutava di stagione in stagione.

Le coccole di fine estate, le prime gemme sui rami di Marzo, le violette tra l’edera di Settembre, i crisantemi a Novembre. La neve di Gennaio, le spighe dorate di Luglio e il cotone che imbiancava i campi del Sud. Da quando si era trasferita a Metropolis, tuttavia, era diventata più distratta e insensibile al girotondo delle stagioni. Vivere in una città grigia e frenetica non aiutava, e il suo lavoro l’aveva assorbita al punto tale che si accorgeva del passaggio del tempo dando un’occhiata alle vetrine dei negozi. Per questo aveva deciso di rendere il terrazzo del suo appartamento una piccola serra in miniatura che le avrebbe ricordato, giorno dopo giorno, il passaggio del testimone da una stagione all’altra. 


Anche quella sera di inizio Ottobre di due anni avanti, Lois Lane si trovava in una posizione di stallo. Aveva riscritto quell’articolo da capo mille e mille volte prima di arrendersi, almeno per il momento, e di uscire sulla terrazza e accendersi una sigaretta. Anche se fumava, si era imposta di non farlo in casa. Detestava il puzzo della sigaretta che si attaccava alle tende, ai tessuti e anche alla moquette. E poi, le bionde servivano esclusivamente a distrarla dal lavoro, a farle prendere una pausa; se avesse iniziato a fumare anche dentro casa, probabilmente le sarebbe divenuto difficile controllarsi sul posto di lavoro. E sarebbe diventata schiava delle sigarette, senza possibilità di appello.

Lois non amava essere messa con le spalle al muro, in situazioni in cui le risultava difficile uscire o in cui non aveva possibilità di manovra. La figlia del Generale Lane era sempre molto severa con se stessa, e pretendeva il controllo totale sul mondo che la circondava. Questo era un imperativo morale che Lois perseguiva con tenacia, in ogni aspetto della sua vita, da quello pubblico fino al privato. E non riuscire a cavare un ragno dal buco circa il fenomeno che era apparso da poco tempo in città le procurava un disappunto che si era andato amplificando quando quel novellino di Clark Kent aveva ottenuto un’intervista proprio da Superman. Se quel giorno avesse avuto tra le mani uno di quei fazzolettini ricamati che le regalavano a iosa da ragazzina, con tutta probabilità Lois l’avrebbe stretto tra i denti, come ogni eroina isterica che si rispetti.

Oh, il povero Kent era un pezzo di pane, buono e gentile – forse anche troppo, cosa che la faceva andare in bestia – ed aveva la sola ed unica colpa di aver potuto parlare da solo a solo con la Primula Rossa che lei aveva rincorso per due settimane sane per tutta la città, massacrandosi i piedi dentro gli stivali al ginocchio.

Questo, Lois lo aveva capito alla perfezione. Quello che non aveva capito era come mai, ogni qual volta che quel ragazzotto del Kansas le compariva davanti agli occhi, sentiva l’impulso irrefrenabile di tirargli il collo. Quello che Lois non era stata in grado di determinare con tanta sicurezza, aveva un nome ben preciso: invidia. Quello che aveva spinto le mani magre e ben curate di Lois Lane a voler torcere il collo muscoloso del giovane Kent era semplice e sana invidia, che la figlia del Generale aveva ben presto convertito in sana e sportiva competizione con il timido vicino di scrivania. 

Quindi, analizzando con lucidità la questione, Lois avrebbe dovuto fare i salti di gioia all’idea di aver strappato un pezzo su Superman dal word processor di Kent. Tuttavia, si era ben presto trovata a fare i conti con lo schiacciante pugno di mosche che stringeva ogni volta che si trovava ad aver a che fare con Superman. Scrivere un articolo era semplice: bastava prendere informazioni dai testimoni oculari, più di uno, filtrare la verità ed ecco pronto un buon pezzo sulla rapina sventata o sull'aspirante suicida in Francia deposto sulla tendina del negozio di frutta sotto casa.

Un articolo incentrato su di lui, invece, era un altro paio di maniche.

La testolina di Lois era stata un vulcano di idee per tutta la giornata; ma da dove iniziare? Se solo avessi uno straccio di linea guida sui suoi gusti, sul suo carattere, aveva pensato uscendo sulla terrazza di un’uggiosa serata di Ottobre. Aveva rinfrescato, e Lois era avanzata verso il parapetto stringendosi nella veste da camera rosa cipria. Aveva cavato dalla tasca una sigaretta e uno zippo, aveva provato ad accendersela, ma la fiamma, stranamente, si era spenta ogni volta. Come le candeline sulla torta del compleanno.

«Non dovrebbe fumare, signorina Lane…»

Si era girata e lui era lì. Sul suo terrazzo, tra i grandi vasi di rose che in Maggio decoravano allegre quell’angolo ad est. Imbarazzato. Lois si era chiesta come avesse fatto a trovarla: l’aveva seguita? Aveva preso informazioni su di lei?
«E lei come sa…» gli aveva chiesto fissandolo a bocca aperta e nascondendo la sigaretta in un vaso di fiori vuoto, come una liceale colta in flagrante dalla mamma.

«Vede, quel suo collega…»

«Allude a Kent?»

«Kent?», aveva chiesto lui inarcando un sopracciglio.

Quel bamboccio non si sarà neppure presentato, aveva pensato Lois sospirando e accostando la veste da camera. «Kent. Clark Kent. Un mio… collega. Lavora con me al Daily Planet.»

Superman aveva sorriso, un sorriso bellissimo, e lei aveva colto la palla al balzo per passare subito al più colloquiale tu e tempestarlo di domande. Lois aveva voluto sapere tutto su di lui, a partire dai suoi poteri fino ad arrivare ai suoi gusti musicali. E, come avrebbe avuto modo di ammettere più avanti, aveva giocato sporco, sfruttando l’evidente imbarazzo dell’Uomo d’Acciaio. 

Domande come «Di che colore sono le mie mutandine?» non erano ammissibili nel novero del sano giornalismo d’assalto.

Tuttavia, lui era stato al gioco, e aveva risposto ad ogni domanda, anche la più imbarazzante.

Anche a quella che, e Lois sapeva che lui se l’aspettava, i lettori morivano dalla voglia di fargli.

«Perché lo fai?»

Lui era rimasto a fissarla con quei suoi occhi blu, senza rispondere.

«Voglio dire: non ti obbliga nessuno, giusto?»

«No», le aveva scandito lentamente. « Lo faccio di mia spontanea volontà.»

«E dimmi: perché?», aveva insistito lei. «Perché? Perché, ad esempio, non usi i tuoi poteri per tuo puro interesse?»

Lui aveva arricciato le labbra in un sorriso disarmante. «Perché, vedi signorina Lane, non sarebbe giusto. Se tu vedessi qualcuno che ha bisogno di una mano, e tu, solo tu potessi dargliela, ti tireresti indietro?»

Lei era rimasta perplessa a fissarlo. «Non c’ho mai pensato. Vedi, se posso fare qualcosa, la faccio. Punto.»

«Lo stesso vale per me. Punto.»

Lois aveva mordicchiato la punta della sua matita, passeggiando avanti e indietro sul terrazzo.

«Va bene. Ok. Mi ha convinto. Ma non pensi che tutto ciò possa essere pericoloso?»

«Pericoloso?», le aveva fatto eco lui.

«Sì. Non ti sei mai chiesto se le persone, sicure del fatto che ci sei tu, possano iniziare a non preoccuparsi del mondo attorno a loro, perché sanno che comunque arriverà qualcuno a togliere loro le castagne dal fuoco?»

Lui si era un po’ rabbuiato. Aveva guardato per terra, mordendosi le labbra. Poi aveva alzato lentamente la testa e le aveva risposto: «Lo so, signorina Lane. È un rischio che ho tenuto in conto; ma vedi, se ho scelto di mostrarmi, e di rilasciarti quest’intervista, è proprio per questo motivo. Io voglio che la gente capisca che non deve aspettarsi la manna dal cielo. Il mondo non ha bisogno di me. Il mondo potrebbe andare avanti da solo, come ha fatto per millenni prima della mia venuta. Io non sono un salvatore, ma una persona che si prende la responsabilità di fare tutto quello che può.»

«Capisco…», aveva commentato Lois segnandosi le sue esatte parole sul fido taccuino. «Miri ad essere un esempio, allora.»
«Esattamente», aveva risposto lui, tornando a sorridere. «Un esempio.»




Come due anni prima, l’Autunno si annunciava con refoli di vento freddo, che costrinsero Lois a rientrare di corsa in casa, la sigaretta spenta di fretta dentro la fioriera delle rose. 

Perry aveva ragione. Il mondo, nonostante tutte le buone intenzioni di Superman, aveva finito per dormire sugli allori e lasciare tutto sulle sue robuste spalle. Non c’era da stupirsi che ormai ne avesse le tasche piene. Solo che Lois non poteva credere che il motivo della sua scomparsa fosse solo per quello. Era successo qualcos’altro; ma cosa? Questa era la domanda cui lei aveva cercato di rispondere, senza riuscirci.

Quando il telegiornale, due settimane avanti, aveva iniziato la diretta fiume dal World Trade Center, lei, come tutte le persone sulla Terra, aveva aspettato, sperato, pregato che lui arrivasse. Che salvasse in qualche modo tutte quelle persone. 
E invece no. Lui non si era visto. Nemmeno l’ombra. Chissà se tutte quelle persone che si erano lanciate dagli ultimi piani dei grattacieli, l’avevano fatto sperando in un suo arrivo. Sicuramente, Superman arriverà e mi trasporterà a terra dolcemente, avrà pensato qualcuno.

Più del disastro vero e proprio, più dell’attacco agli Stati Uniti, quello che aveva atterrito la popolazione a stelle e strisce, e di conseguenza il resto del mondo, era stato scoprire, dalla sera alla mattina che l’Estate spensierata era finita, e che li attendeva l’Autunno. Dovevano rimboccarsi le maniche e lavorare sodo. Dovevano rimboccarsi le maniche ed andare avanti.

Ed anche lei doveva farlo. 

Il mondo è andato avanti, recitava il protagonista di una famosa serie di libri, e lei, volente o nolente, doveva continuare a vivere. Non poteva fermarsi ad aspettarlo. Lui non sarebbe più tornato. Non ci sarebbero stati più voli nel cielo notturno per capire cosa si prova a veder sorgere il Sole dall’altra parte dell’Oceano. Niente più salvataggi in extremis. Niente più interviste nel cuore della notte su un terrazzo coperto di fiori quasi tutto l’anno. Niente più «Ci rivedremo?» a cui sarebbe seguito un «Mi vedrai in giro».

L’Estate, la stagione dell’amore e della spensieratezza era finita, almeno per Lois Lane. Conclusa, persa dietro lo svolazzante orlo di un mantello rosso nel cielo azzurro di Metropolis.

Il mondo non ha bisogno di me, le aveva confidato durante quella prima intervista. Vero; dopotutto, quando era arrivato? Dopo millenni, giusto? Se l’umanità era riuscita a sopravvivere indenne, più o meno, prima della sua apparizione, perché mai non avrebbe potuto farcela di nuovo. Sarebbe stato come ammettere che chi cade dalla bicicletta senza ruote di sostegno non possa più salire in sella.

Ridicolo.

Ma quello che a Lois faceva male, lì nel centro del suo petto, era sapere di averlo perso per sempre.

Doveva reagire. Doveva svegliarsi dalla bella favola, come Cenerentola il giorno dopo il matrimonio. E vissero felici e contenti non esiste nella realtà, e questo Lois Lane lo sapeva fin troppo bene. 

Sedette davanti al suo portatile che le rimandava la sua fotografia, di tre quarti, con lo sguardo perso nel vuoto, davanti a sé. Il suo analista le aveva sempre consigliato di scrivere le sue emozioni, come terapia. E la miglior difesa, come diceva il Generale, è l’attacco, almeno contro quegli idioti che attribuivano a Superman lo sfacelo dell’11 Settembre.

Avanti, Lois, si disse aprendo un foglio di testo, è ora di cominciare a sdebitarti con lui per tutte le volte che ti ha salvata.




Dove sei finito? Io mi arrovello per sapere che fine hai fatto, ma non ho risposte. Mi sento così impotente. Tutti ci sentiamo impotenti. Tutti noi alziamo lo sguardo al cielo, sperando di veder svolazzare il tuo mantello, di vedere la tua S rossa; ma non ci sei.

Forse è vero quello che dice la gente. Il mondo non ha bisogno di te. Lo dicevi anche tu. E io, Lois Lane, io che ho creato quel soprannome con cui tutti ti conoscono – e ti amano – concordo in pieno.

Noi non abbiamo bisogno di te. Noi abbiamo bisogno di assumerci le nostre responsabilità e di camminare sulle nostre gambe.

Il bambino deve lasciare la mano della madre. 

Il passerotto deve lasciare il nido e volare. Da solo.

Sappi, ovunque tu sia, che l’umanità ha imparato la lezione. Ce la faremo, Superman. Andremo avanti con le nostre forze, sperando gli uni negli altri e non affidando le nostre vite alle cure altrui. È finito un ciclo, una stagione, se preferisci; adesso, da oggi in poi, ne inizia un'altra.

Tu hai mostrato al mondo come fare. Tu ci hai insegnato a farci carico delle nostre responsabilità. Hai aperto la strada. Noi ti seguiremo, ma a modo nostro. E andremo avanti, memori delle tue lezioni, ma con le nostre gambe. E anche se malferme, anche se arrancheranno in salita, non si fermeranno ad aspettarti. 

Perché il mondo non ha bisogno di Superman.




Perry White alzò gli occhi soddisfatto dall’articolo che Lois gli aveva inviato via fax nel primo pomeriggio. Forse qualcosa stava cambiando, non solo a livello meteorologico, e sicuramente quel pezzo avrebbe scosso le coscienze di Metropolis. E forse anche del resto del Paese. Se la giornalista numero uno sul caso Superman decretava che era inutile aspettare e che, anzi, era il caso di rimboccarsi le maniche e voltare pagina, quasi sicuramente i lettori del Daily Planet, e non solo, avrebbero risposto, chiudendo la bella favola di Superman assieme a Pollicino e Biancaneve.

Si apriva un nuovo capitolo per la storia dell’umanità, e anche se la strada si prospettava in salita, a causa di pazzi invasati che rilasciavano proclami di morte e distruzione, Perry White sentiva il profumo frizzante delle infinite possibilità che aspettavano dietro l’angolo, solleticargli il naso; come quando, da ragazzo, trovava una storia che si prospettava interessante raccontare o approfondire.

Approvò il pezzo di Lois con una sigla e chiamò la sua segretaria perché lo inviasse ai ragazzi del reparto bozze per correggerlo. Era pressoché sicuro che Lois l’avesse controllato e ricontrollato almeno una diecina di volte, ma era sempre meglio essere sicuri. Non per sfiducia, Lois, ma avrai finito di scrivere quest’articolo all’alba, e non credo tu fossi lucida, allora…

Perry si alzò e osservò Metropolis scorrere via distratta mentre gli alberi si tingevano dei colori dorati dell’Autunno. Forse, anche Lois Lane avrebbe voltato pagina. Era solo questione di aspettare che il tempo facesse la sua parte. Suvvia… Da qualche parte ci sarà pure un baldo giovanotto capace di eclissare l’Uomo d’Acciaio, no?, pensò Perry prima che qualcuno entrasse nel suo ufficio.

«Disturbo?»

Era Lois. Aveva dormito, finalmente, ed era presentabile, i capelli raccolti sulla nuca, e indossava un sobrio completo grigio perla. Forse siamo sulla via della guarigione, si disse Perry osservando la sua pupilla rinascere come una gemma di Marzo.

«Non disturbi mai, Lois. Vieni avanti.»

«Hai letto il pezzo? Come ti è sembrato?», chiese lei accomodandosi nella poltrona di sinistra.

«L’ho già spedito ai ragazzi delle bozze; per dargli un’occhiata, non si sa mai.»

Lois annuì.

«Modifiche?»

«Nessuna. Il pezzo andrà in stampa così com’è», la rassicurò Perry con un sorriso.

Lei sospirò. « Meno male. Sai, pensavo di…»

«Sciocchezze!», tagliò corto lui. « Piuttosto, Olsen deve scegliere una sua fotografia da mandare giù ai ragazzi dell’impaginazione. Puoi dargli una mano?»

Lois trasalì, ma mantenne un certo contegno. Aveva o non aveva promesso a se stessa di voltare pagina? Ecco un buon modo per iniziare.

«Certo, Perry. Lascia fare a me», rispose, pensando che lo scatto che aveva come screensaver potesse andare alla perfezione.

Lois si alzò e fece per uscire dall’ufficio di Perry, quando si scontrò con un ragazzo in maniche di camicia che era entrato precipitosamente dalla porta a vetri.

«Scusami, andavo di fretta!», si giustificò lui.

«Ho visto…», commentò lei, mentre una parte del suo cervello annotava come quegli occhi blu fossero così simili… ai suoi
«Con permesso,» disse, e sgattaiolò via, lasciandolo ad ammirare la sua camminata sicura e aggraziata.

«Chi è quella, zio Perry?», chiese il ragazzo restando sulla soglia.

«Quella? È Lois Lane, Richard. Ma ti consiglio di non provarci con lei», rispose il direttore osservando, con il mento sulle mani intrecciate, suo nipote perso dietro la bella giornalista.

«Giusto. Non è professionale avere relazioni sul posto di lavoro.»

Perry sorrise. «Non è per quello, Richie. Lois è un osso duro. E ha qualcun altro nel suo cuore, anche se lui non credo lo sappia.»

«Davvero?»

«Puoi giocartici quello che vuoi, ragazzo mio, altrimenti non se ne sarebbe andato via.» 

Richard si avvicinò al piano di vetro della scrivania e sorrise.

«Quindi… è libera?», chiese lui con l’aria di chi cerca il numero di telefono di un buon ristorante con terrazza panoramica vista mare.

Perry sorrise. Forse era proprio lì davanti a lui il ragazzo che avrebbe fatto comprendere a Lois che anche lei non aveva più bisogno di Superman.




Questa storia è dedicata a mio marito, che con tanta pazienza e amore e disponibilità ha corretto i miei errori. Grazie, amore mio.
   
 
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