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Autore: bimbarossa    06/09/2013    5 recensioni
Questa storia partecipa al contest Circoli e salotti.
Questo racconto è per voi, o almeno per chi non ha paura di esplorare il più oscuro e perverso e intimo mondo della natura umana. Quindi se siete sensibili e non amate truculenze varie non fa per voi. Eppure c'è più di questo nella apocalittica realtà onirica di Melissa. Una scuola barocca e piena di misteri, un corsetto rosso che è il velo dietro cui una ragazzina bellissima e l'umanità intera si nascondono.
Sfidate i vostri demoni, i vostri terrori, perché essi sono magnifici e luccicanti come la tela di un ragno. Che vi divorerà, o che voi dovete divorare in un boccone amaro come fiele. O dolce come il miele.
Genere: Angst, Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Gioia. Rabbia. Ansia. Amore. Amicizia. Spirito di emulazione. Crescita e degradazione. Dietro la porta di un'aula scolastica si ritrovano tutti questi sentimenti.”(Maho Izawa in Le situazioni di lui e lei.)


Secondo me l'inferno è vuoto. I diavoli sono qui.” (Da One Tree Hill.)


Gli inizi sono sempre uguali.

Ogni notte è sempre uguale.

A se stessa.

Uguale a quel palcoscenico macabro che è un miscuglio, come solo i sogni, o meglio gli incubi riescono a produrre, dell'aula di teatro e del laboratorio di fisica e biologia femminile.

Anche i protagonisti secondari sono sempre gli stessi. La mia insegnante di biologia, con il caschetto color miele e gli occhi da pesce lesso; le mie compagne, con le loro uniformi inamidate e perfette, che appoggiano i gomiti sul banco per godersi meglio la scena, gli occhi non da pesci lessi ma profondamente infossati e piccoli e neri nella loro cattiveria e vigliaccheria.

E poi ci sono io.

Io, che sono sempre uguale, uguale a me stessa, ogni notte, ogni incubo. Io, che indosso la bellissima e chicchissima uniforme della prestigiosa scuola privata femminile V. Oldoini, una divisa che la mia bis-bisnonna ha creato quando ha fondato questa istituzione due secoli fa, ispirandosi alle scuole inglesi (anche se lei era scozzese fino al midollo!), e il cui colore è così strano che è difficilissimo riprodurlo, nonché molto costoso.

Ma la scuola se lo può permettere, con i fondi privati e oscuri che pare tirare fuori da chissà quale caverna di Aladino; e così noi fortunate studentesse possiamo permetterci di andare in giro a pavoneggiarci e ad ostentare quella gonna corta fino a poco sopra il ginocchio che è un miscuglio di un acceso rosa antico, di un color malva e un indaco scuro tendente al viola. In più, la mia antenata, che non poteva dimenticare le sue origini ci ha aggiunto delle righettine nere e ocra che richiamavano la trama del kilt di famiglia, lo stesso kilt che una sua antenata aveva indossato a Culloden nel 1746, unica donna che combatté per il suo clan sterminato di tutti gli altri maschi.

A me quelle righe hanno sempre richiamato invece le celle esagonali di un alveare. Non a caso mi chiamo Melissa, come l’insetto che sembra vivere nelle mie gonne, e come le antiche sacerdotesse greche che vivevano nei templi.

E nella testa sento proprio un ronzio, anche questo ripetitivo e martellante, che si fa strada in me dalle bocche rattrappite e cucite delle mie compagne. Sembra che cantino in silenzio un'antica nenia, con le labbra sigillate, e che il canto si riverberi fino ad arrivare a me, ad infilarsi nei miei lunghi capelli di uno strano e scuro albicocca dai riflessi dorati, talmente lucido dalle innumerevoli spazzolate della mia cameriera che sembra fluorescente e di una consistenza quasi metallica, smaltata.

I miei capelli sono famosi in tutta la scuola, come un’eredità che insieme al mio cognome mi porto dietro, come hanno fatto mia madre e mia nonna prima di me.

L’Istituto Superiore fondato dalle Macgray è famoso in tutta la regione, e all’interno della sua struttura a meringa gotica è pieno di ritratti della sua fondatrice, ritratti che sono la versione antica e pittorica delle foto digitali sulle pareti della mia camera, perché tutte le donne della mia famiglia sono la copia sputata di quella temeraria gentildonna scozzese, che in un giorno di maggio alla corte di Napoleone III ha incontrato la sua celebre amante italiana e ne è diventata un’accanita fan, tanto da usare tutti i suoi risparmi per fondare una scuola sulle Alpi dedicata a lei, una scuola per giovani signorine, una scuola in cui la sua figlia-sosia, la sua nipote-sosia e tutte le sue discendenti-sosia, studiano, e collaborano, come piccole api operaie, al perpetuare il suo culto e la sua memoria.

Non ho mai avuto possibilità di scampo; un po’ la stessa sensazione che si ha nei sogni, in cui siamo guidati da una volontà estranea che risiede dentro noi stessi. Ora che ci penso credo di avere sempre vissuto in un sogno, in un sogno spaventoso che mi tormenta quando sono sveglia però.

Ecco perché quelli che faccio di notte non mi spaventano. Non sono niente in confronto agli incubi che devo vivere sulla mia pelle mentre gli occhi sono aperti, sempre uguali, ogni mattina.

Ma mentre quelli diurni iniziano e finiscono nello stesso modo, con la mia giornata scolastica e famigliare che si ripete all'infinito come una maledizione scagliata da una madrina cattiva, quelli notturni mi lasciano più libertà di scelta.

Certo, il luogo è sempre lo stesso, sempre questo maledetto posto in cui passo le mie giornate; i volti sempre identici, che mi fissano e mi invidiano.

Eppure l’entrata in scena della primadonna, che sarei io modestamente, è sempre diversa. Come se non volessi dare a nessuno la soddisfazione di sapere cosa sceglierò, in che modo accetterò il supplizio questa volta.

Durante le lezioni di storia mi è sempre piaciuto immaginare tutte quelle persone che andavano verso il boia con una camminata altera e sprezzante, sorprendendo la folla avida di sangue. Anche io, ogni notte, in ogni incubo, appaio altera e sprezzante, a prescindere da dove avvenga. Posso apparire dal pavimento, o dall'armadio delle sostanza tossiche, oppure dalla lavagna o direttamente dal cielo, giù in picchiata come un avvoltoio, come un kamikaze già morto e già fantasma che entra dalla cupola a cipolla della scuola, passa attraverso i solai, gli appartamenti degli insegnati e poi direttamente nell'aula-palcoscenico in cui si consumano sempre le mie torture cinesi. Mi ricordo che una notte ho sognato di essere apparsa dal gessetto verde speranza che la prof usa sempre per disegnare i mitocondri, quelle piccole sottoparti delle cellule che celano il DNA materno.

Sono veramente strane le creazione oniriche vero? Io i miei mitocondri li vorrei bruciare tutti, affinché la catena matriarcale che mi strangola, di giorno e di notte, si spezzi e mi lasci libera di sognare verdi prati e quelle stesse Alpi, che vedo dalla mia finestra nella loro staticità e ingabbiata furia, finalmente libere di bucare il cielo notturno.

Un vento innaturale spazza ma non spezza i pini scuri e maestosi e onirici che fanno da sfondo a tutte le mie entrate trionfali, e che capeggiano fuori dalle enormi finestre di quella grottesca fusione di aule e di intenzioni.

Sento dei tuoni in lontananza, dei boati che si accompagnano al ronzio delle bocche di quelle stronze delle mie compagne di classe.

Rosa, Alessia, Rebecca. C'è anche Martina, quella smorfiosa che mi parla sempre come se avesse un barattolo di miele conficcato in gola e un pugnale pronto a colpire nascosto dietro le spalle.

Tutte si stanno beando, compiacendosi del fatto che sono alla loro più completa mercé, un burattino consapevole e testardo nell'affrontare a viso aperto giudice, giuria e boia. Altera e sprezzante.

Mi rimane solo questo; e la vita è molto patetica quando non ti rimangono che gli incubi. Quando non hai che quelli.

Come un manichino animato solo da un rimpianto lontano come i tuoni, me ne sto appollaiata davanti alla lavagna nera, con la mia insegnante che si alza e dice, in un eterno ritorno di parole:

Iniziamo ora ragazze, con la lezione di anatomia femminile. Ecco il nostro scheletro di carne.”

E mi sento come un pezzo di manzo dal macellaio, ma non è una sensazione sgradevole. Solo triste.

Rosa, vieni su! Tocca a te. Cosa porti per la tua ricerca?”

La struttura e la morfologia della gamba prof!”

Bene!”

Rosa si passa la mano nei suoi lisci e banali capelli neri e poi apre un coltellino svizzero con un scatto che mi fa trasalire ogni volta, con il medesimo terrore per quello che sta per accadermi.

Io rimango inerme e ferma, una divinità ieratica di scuro oro rosso fluorescente e avorio, mentre lei mi fa scendere i lunghi e bellissimi calzettoni alti fino al ginocchio e mette a nudo la mia gamba candida. Ogni volta spero che non contenga sangue, o che almeno non ne contenga abbastanza per lo scempio che devo ininterrottamente rivivere. Eppure,con uno slancio che potrebbe tranciarmela in due me la spacca verticalmente, aprendo uno squarcio che sembra la bocca dell'inferno. O del paradiso.

La trama a forma di petali di ciliegio dei calzettoni diventa un disegno di sangue e brandelli di carne, che si appiccicano filamentosi e rosacei come nastri e decori di una seta concessa a caro, carissimo prezzo.

Non sento dolore, o meglio lo sento talmente tanto che il mio cervello si rifiuta di assorbirlo tutto.

Ecco, potete vedere la Zampa d'Oca, qui in profondità, vicino alla tibia,” il rumore dei tessuti che vengono divaricati malamente dalle sue dita tozze che mi scavano dentro la gamba è una specie di risucchio e di qualcosa di vischioso che non vuole rivelare i suoi segreti.

Ma Rosa imperterrita continua a frugare, a tagliare fino ad arrivare all'inguine.

Qui invece si vede benissimo il Triangolo di Scarpa, con la Lacuna Vasorum in cui si dipanano l'arteria femorale, la vena femorale e i linfonodi profondi della gamba,” Rosa batte come soprappensiero il coltellino sulla mia gamba e la sofferenza si ripercuote in me come uno tsunami immenso, gratuito.

Perfetto, signorina Rosa, una ricerca eccellente e dettagliata. Signorina Martina, venga lei a esporci il suo lavoro.”

I lembi della mia coscia cadono penzoloni, un sipario di carne che ormai non nasconde, non protegge più niente, e io mi sento come un'attrice che non è stata richiamata sul palco per il bis.

Allora, il mio progetto riguarda l'apparato riproduttore femminile,” comincia a togliermi la giacchetta chiccosa e la camicia bianca e immacolata che portiamo tutte, anche lei.

Mi spoglia con furia e stizza, come se io potessi fermarla!

No, è la sua rabbia, la sua invidia, la sua voglia di vendicarsi che la fa agire come un'amante in preda alla frenesia di denudare la persona desiderata.

E lei mi desidera; desidera affettarmi, incidermi, devastarmi.

I miei splendidi capelli ricadono lunghi come quelli di Raperonzolo, quella Raperonzolo che deve tirare su la strega, che la rinchiusa nella torre, con la sua stessa chioma. I suoi invece, di un opaco biondo cenere le si sono incollati al viso nella foga che ha usato per umiliarmi davanti a tutte.

Quando la mia divisa fatta a brandelli cade a terra a raggiungere i brandelli e i pezzi della mia gamba tranciata, rimango nuda, o quasi.

Eppure più nuda non si potrebbe, perché il corsetto rosso sangue che indosso, fatto di pizzo color porpora e argento mette in mostra la perfezione che mi è stata donata, che mi è stata lanciata come una maledizione.

Pare uno di quei corsetti antichi, stretti e rigidi, nevvero è comodissimo nel suo non farmi quasi respirare. Somiglio a Lady Porpora di Angela Carter, oppure ad una Winx brillante e luminosa, o invece a una di quelle donne con il vitino da vespa che sembrano scherzi della natura. Più che una vespa però sono un'ape, una piccola ape operaia che sta stare al suo posto, che sa quale è la sua parte nel grande cosmo di questa scuola.

Per un attimo, a quell'apparizione vermiglia che contrasta incredibilmente con la mia epidermide bianchissima, tutte trattengono il fiato, anche Martina.

Ma solo un attimo, il tempo di un respiro impossibile e doloroso dentro quella mirabolante creazione che è l'ultima armatura da usare, l'ultima trappola da superare.

Martina riprende subito tutto il suo controllo e tutta la sua cattiveria e impugna il lungo coltellaccio che ha tirato finalmente fuori da dietro la sua schiena.

Comincia prima a slegare i molti nastri che lo decorano ma non ci riesce, è troppo impaziente, e sta per tagliarli di netto con la lama quando la prof si alza di scatto e urla:

Non provarci!”


La speranza. La speranza è il più crudele di tutti i demoni usciti dal vaso di Pandora. La speranza è una creatura con una maschera magnifica, ma che cela un volto spaventoso e antico come Dio o il Diavolo.

Ogni notte, a questo punto dell'incubo quel sentimento mi invade il cuore, fa sembrare il corsetto più largo, la lama più dolce, gli sguardi meno freddi e il destino meno tracciato.

Poi però la maschera si rompe e il demone dalle mille facce mi mostra la sua che è ineluttabile, come la genetica, a cui non si può sfuggire.

Signorina Martina, la sua intemperanza stava per farle compiere un atto esecrabile e irrimediabile.” La prof si avvicina e mi guarda come si fa con una reliquia, qualcosa che viene dall'alto o forse dalle profondità infernali della terra.

Stava per rovinare il prezioso tempio, “ fa scorrere le dita sui ricami scarlatti e argentei, il respiro tremulo e gli occhi ancora più a pesce lesso del solito, ”il corpo di una donna è perfetto, biologicamente, anatomicamente e matematicamente perfetto. Se osservate questa Venere, misurandone le forme, le proporzioni, la gradazione dei colori, la struttura ossea e la disposizione degli organi potete notare la stessa idealità, l'identica precisione che un architetto infonde alla costruzione di un santuario,o di una cattedrale.”

Mi gira attorno e con aria estatica ed esaltata prorompe a voce bassa e soffocata, come se si trovasse in chiesa:

Questo,” ed indica il mio rosso bustino, ”è il portale, la chiave per entrare in quel santo tempio, nella criptica cripta di Dio! Metti via quella mannaia e guarda attentamente!”

La prof. con mani tremanti e sicure insieme, le stesse mani che potrebbero profanare una tomba, mi slaccia i nastri e le loro imperscrutabili trame divine come quelle di Nostro Signore, uno ad uno, senza fretta. Nei sogni un minuto sembra un'ora e un'ora un secondo.

D'improvviso, come per opera di una magia crudele le mie difese sono tutte cadute, e io me ne sto ancora inerme, una Coppelia senza neanche più lo spirito di riscatto ad animarla.

I ricami sono davvero magnifici, rappresentano tutto e niente, privi di una forma logica, umana, sondabile. Potreste vederci facce di alieni, oppure le rose della danzatrice di tango Roxane, ma anche madeleine alla fragola, quei biscotti che nel libro di Proust fungono da richiamo, da sirena nella notte per un viaggio nella memoria che è come un ricordo di guerra, o di una comprensione finalmente avvenuta.

Tuttavia in me la pietà non c'è e neanche in loro.

Il corsetto si apre e quello che svela non è la grotta del tesoro, ma il buco in cui Jame Gumb1 gettava le sue vittime, vive.

Il dolore è straziante, più di tutte le ferite che mi hanno inferto e che mi infliggeranno, poiché quello che hanno aperto è la mia anima, la mia più profonda essenza che è rossa come il sangue, che è vita e morte, che è morte e vita.

È come aprire un libro di anatomia, un libro i cui disegni sono fatti da un'artista ribelle e puntigliosa assieme. Ogni dettaglio, ogni particolare dell'addome umano è esposto, aperto alla vista di tutte; la lucentezza rosso-bruna del fegato, e il biancore avorio delle costole che proteggono ciò che devono proteggere.

Ogni cosa di me, e di tutti gli uomini e donne di questo mondo che sono uguali e moriranno uguali, ora è manifesto, ora è un manifesto, che sfata idiozie come il razzismo, l'intolleranza, la crudeltà verso il diverso.

Per un momento questo pensiero mi commuove, e spero di vedere negli occhi delle altre il riverbero della mia illuminazione. Niente; altre forme di violenza e malvagità si agitano nelle loro menti, e nelle loro bocche ronzanti.

Ora che il baluardo è scardinato da mani non empie, e un altro baluardo è sorto, Martina, puoi proseguire, ma fai veloce che c'è un'ultima incisione da fare.”

Un brivido mi fa tremolare come una candela al vento. No, lei no.

Martina si passa il coltello nei calzettoni di velluto, e vedo l'elettricità statica che manda bagliori di avvertimento.

Ora inciderò il muscolo obliquo esterno i cui fasci che vanno dalla nona costola al ventre, e formano una struttura aponevrotica alquanto resistente,” non fa alla svelta come le ha detto la prof, anzi, con lentezza esasperante si gode il taglio di ogni tessuto, di ogni nervo che stride e si oppone.

Li sento, tutti quanti. Sembra che piangano per quell'invasione lenta e cattiva, e se potessi farlo piangerei anche io, fino ad allagare quella stanza e fare affogare le mie aguzzine.

La lama penetra poi nel muscolo obliquo interno e successivamente anche in quello traverso.

Ah, eccolo finalmente,” il sorriso di quella stronza ora prende tutto il suo viso, come se avesse solo quello, e tutto il resto, gli occhi, il naso e la bocca sono spariti. Già, proprio così, un sorriso senza bocca.

A questo punto del sogno tutto diventa confuso, il dolore si fa reale, concreto, come se si spandesse e volesse uscire nel mondo reale, quello in cui ci sono io che dormo nel mio letto in piena attività onirica.

Sei arrivata al Sacro Tabernacolo?”

Si, prof. Aspetti che mi libero dell'adipe in eccesso”, (mi sta dando della cicciona?) ”e poi ci siamo. Oh, guardi prof, che meraviglia!”

Entrambe sono inginocchiate davanti a me, come in adorazione di una divinità troppo lontana e distaccata e indifferente nel suo brodo di tormento per preoccuparsi di loro.

Forza, perfora l'endometrio, il miometrio e anche il perimetrio. Voglio vedere la nostra prossima Regina!”

Ogni fittizia commedia, ogni ruolo di insegnante e alunna è stato abbandonato. Sento che mi rimescolano dentro, tagli raffazzonati e sinonimi di una certa perversione mi incidono, pittogrammi primitivi di esseri primitivi che decorano una caverna altrettanto antica e piena di calcare corroso e bianco come cartilagine.

Ecco la l'Ostia Benedetta. La Regina è morta. Viva la Regina!”

Prendono qualcosa di chiaro, sembra un pezzo di dito minuscolo, quello di un bambino. Di un neonato. Di un feto.

E lo mangiano.


Nove mesi fa ho compiuto diciasette anni.

Per i romani il numero 17 è simbolo di cose nefaste, esiziali.

Ora ho capito perché. VIXI, ho vissuto.

Tutte le donne della mia famiglia sono identiche alla loro genitrice, senza alcuna traccia di altro DNA paterno. Senza traccia di un compagno che è sullo sfondo come un fuco. L'ape regina regna incontrastata e le sue figlie-sosia, nate per un processo chiamato partenogenesi, sono dei cloni, cloni che vengono concepiti il giorno del diciassettesimo compleanno di ciascuna; il giorno in cui la madre può essere soppiantata, il giorno in cui si può dire di aver vissuto, si deve dire di aver ormai vissuto.

A questo punto la discendenza è garantita e non valgo più niente.

Ma se nel sogno la bambina si è transustanziata, nel mondo reale la sento che si muove dentro di me, ”la minuscola pazza nella cella imbottita”2, segno che mi sto quasi svegliando, che la tortura e la salvezza stanno per finire.

Manca un'ultima comparsa, un'ultima incisione.

Me la trovo davanti come Dio il giorno del Giudizio, con lo stesso portamento inflessibile e irremovibile. I giochi sono fatti, le carte scoperte, e la vendetta pianificata, la sua e la mia. Che coincidono anche se diametralmente opposte.

È buffo vedere la tua immagine speculare, la tua gemella malvagia, la tua progenitrice.

Non so da dove è comparsa, e non ha nemmeno molta importanza.

La mia antenata, Henrietta Macgray mi sta davanti, come in uno specchio non deformato, che ha perso perfino la sua distorsione. Io, Vergine Maria smascherata; lei, una Maria Maddalena mascherata, o meglio con la maschera nera a forma di pesce che Virginia Oldoini ha nella fotografia di Pierre Louis Pierson Scherzo di follia.

I boccoli del mio stesso scuro arancione dorato le scendono sul vestito uguale a quello che la sua eroina ha indossato durante un ballo alla corte di Napoleone III, La Dama di Cuori.

Un costume, un intento. Un'ultima incisione.

Con un martello spuntato dal nulla fracassa le mie costole che si spandono come coriandoli bianchi e rossi, e attenta a non sporcarsi le preziose scarpine sporge la mano e la infila dentro di me, nel mio costato, una lancia acuminata e diligente, che sa dove puntare.

E il suo obbiettivo adesso è nelle sue mani, immacolate eppure luride del mio sangue, del suo sangue.

Batte ancora, come quello di quei poveri prigionieri aztechi che dovevano immolarsi ad un Dio impietoso e famelico. Guardarlo è catartico, ipnotico, tum-tum-tum.

Il suono dell'universo, il pulsare dell'umanità intera, tutto è racchiuso in quell'organo strabiliante e testardo, che non vuole cedere.

Il mio cuore vive tra le sue mani, tra le mani della capostipite, della Prima regina, della perfida maga che non vuole lasciami andare, che non vuole cedermi, neanche il mio cuore.

Ma io ho in serbo una vendetta, poiché so aspettare. È una vita che aspetto, è la vita di tutte le mie precedenti copie che aspetto. Questa è la mia vendetta ma è anche la loro.

Improvvisamente il cuore comincia a brillare, i colori risplendono: il porpora, lo scarlatto, il corallo dei capillari, il rosa scuro, e il viola-blu delle vene, come se una luce dell'interno lo stesse animando.

Un lume dentro un lume3. Osservo la faccia della Dama, della Matrena4 e capisco che sta comprendendo la portata della mia ritorsione.

L'organo che sta tenendo in mano non è composto di carne e muscoli. No, è fatto interamente della più preziosa stoffa immaginabile, un ricamo tridimensionale di velluto e fine seta, della stessa sostanza e matrice del mio corsetto scardinato e violato, la tonaca della più divina delle sacerdotesse, quella che non fallisce mai.

E non è vuoto. Lo scarta con una rabbia estrema, un dono che non si aspettava e che vorrebbe non aver mai avuto. Ma la sorpresa all'interno è ancora meglio.


Mi sono sempre piaciute le matrioske, la loro incontenibile generosità nel contenere e proteggere se stesse, la loro incontenibile ferocia nel racchiudere e ingabbiare le loro uguali.

Beh, finalmente la più piccola, il seme, è pronto a germogliare. Dentro la veste a forma di cuore vi sta una piccolissima bambolina con le mie fattezze, con le sue fattezze, luminosa e per questo senza valore alcuno per la Dama che invece cerca solo oscurità; quella bambolina è il feticcio di un feticcio, che sarei io, burattino sperduto e privo di consapevolezza.

Eppure una scintilla di volontà, di potenza mi è rimasta, almeno negli incubi, la stessa forza che mi permette di fare quello che c'è da fare.

Un gessetto rosso si muove e come mosso da un fantasma si mette a disegnare sulla nera lavagna, dove appare, piano e veloce insieme, la forma riconoscibilissima, le cavità, i rigonfiamenti, le convessità e l'armonia di quell'organo che è diventato un simbolo, un logo, un marchio, usato e abusato ma mai compreso.

Il mio cuore, quello vero, bidimensionale e privo di spessore, e per questo invulnerabile finalmente, anche dai suoi attacchi, troneggia nello scuro di quello sfondo, con quello scarlatto acceso che è una linea rossa che va dal mio corsetto, alla tonaca ricamata a forma di muscolo cardiaco, a questo, la mossa definitiva, lo scacco alla Regina.

Gli atri, i ventricoli, diventano gli antri e i ventri di questa scuola, con le sue scale a chiocciola, le sue voragine improvvise e le zone d'ombra; la forma a meringa gotica diventa quello di un cuore, gotico e aspro anch'esso; e io, l'ultimo anello di quella catena infinita, l'ennesima ape operaia, riesco a scalzare la regina cattiva, non per prenderne il posto, ma per distruggere l'intero alveare. In un autodafé che sa di streghe bruciate e ingiustizia giusta.

Da quel falò, che brucia l'intera scuola e coloro che sono dentro, uscirà una creatura di cenere e ossa, un essere secco, filtrato, ancestrale come il vento del deserto.

Questa entità così libera che non ha bisogno di ali, così bella che non possiede bellezza e così leggera da avere una massa pari ad una stella di neutroni è l'odio. Che contiene un mondo grandioso, fatto di maschere di cannibali sirene giapponesi, e dove non c'è nessuna differenza tra ali di farfalle da quelle di drago, e dove uccidere significa essere ucciso.

Questa creatura è piccola, una piccola pallina simile ad un fossile, o ad un litopedio, quei bambini di pietra che muoiono e calcificano all'interno del corpo materno che diventa la loro tomba.

Quella creatura è una mummia e un sarcofago insieme, della mia rabbia, della mia impotenza, della mia ostinazione, del mio perdono.

Guardo il minuscolo manufatto che mi guarda e da cui io guardo me stessa, alternandomi dentro e fuori come solo gli incubi permettono; tanto siamo uguali perché la mummia rattrappita è la mia e quella della mia antenata, ridotti ad un cumulo di ossa rosicchiate e ciuffi di capelli di quel colore così strano, così immune alla corrosione.

A rebours, a ritroso. Non so se la piccola cariatide sia la prima donna del creato o l'ultima, so soltanto che è finita, che è tutto finito, e io posso svegliarmi, con la sensazione di appagamento che si ha quando il cadavere del nostro nemico è appena passato lungo il fiume.

Un fiume in cui buttarmi per ripescarlo.


1Jame Gumb è il serial killer nel film Il silenzio degli innocenti, che scuoia le sue vittime e ne fa vestiti e ricordi. Prima di morire a Clarice, la poliziotta,dice: ”Come ci si sente ad essere così bella?”

2Cit. da Lolita di Nabokov.

3Il lume in anatomia è un l'interno di un organo cavo o di una vaso,ricoperto dalla tonaca, membrana interna che lo protegge e lo nutre.

4La matrena (madre) è il pezzo più grande di una matrioska mentre il seme è il pezzo più piccolo.


  
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