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Autore: ArchiviandoSogni_    12/09/2013    2 recensioni
Lungo la strada della vita, incontriamo ogni giorno persone nuove che inconsapevolmente riescono a cambiarci indissolubilmente.
Alice scappa in continuazione dal ricordo di com’era da adolescente e basta poco a farla precipitare nell’oblio della tristezza e distruzione personale. Nonostante la perdita di quei sofferti 30 chili, Alice li sente ancora sulle sue spalle, contro lo stomaco: fino in fondo all’anima.
Michele vive per strada. Ha perso la bussola dopo la perdita di una persona amata. Porta con sé un’adolescenza sofferta; viaggi interminabili da un orfanotrofio all’altro fino ad arrivare a casa di una famiglia affidataria che non l’ha mai capito realmente.
Una volta adulto pensava di poter finalmente spaccare il mondo.... Ma così non fu.
Sullo sfondo di una Milano che sboccia con la primavera e una Como che comincia a sentire il vociare sempre più acceso dei nuovi turisti, incontreremo due ragazzi, due vite e due anime perdute.
“Nessuno può sconfiggere i propri pensieri intrisi di ansia e frustrazione, se non trova delle mani pronte ad afferrarlo e a rimetterlo nel proprio cammino dettato dal destino, ogni volta che barcolla verso l’argine sdrucciolevole della vita.”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo II – Fate

Sembra un sogno anche per me.

Erano mesi che sognavo questo momento, ma è stato così maledettamente difficile tornare dietro word con idee e, soprattutto, con lo spirito giusto per rendere le mie storie leggibili e piacevoli come un tempo.

Non amo giustificarmi, ma credo che meritate almeno un minimo di spiegazioni per questo silenzio lungo mesi.

Il 2013 è iniziato con i presupposti sbagliati, trascinandosi dietro di sé un po’ di dolore e tristezza non preventivati (e come si fa, d’altronde!). Mia nonna è stata poco bene e ho concluso una storia lunga tre anni e mezzo con una persona che è stata molto importante nella mia vita.

Dopo anni in cui avevo avuto un pilastro sempre vicino, è stata dura riaffrontare la vita solamente con le mie mani. Però, posso dirlo con leggerezza, il peggio è passato e non ho rimpianti :) Infatti ho ricominciato a scrivere proprio quando ho capito che dovevo pensare più a me stessa e fare le cose che ho sempre fatto, cercando ispirazione in altri modi ed in altre sensazioni. Ero in crisi, perché non riuscivo più ad avere le leggerezza e la fiducia nel sentimento più bello di tutti, quello che è da sempre protagonista nelle mie storie: l’amore. No, non crediate che abbia smesso di essere sdolcinata e sentimentale… No, mi sa che sono peggiorata! Ahahhaha :)

Sì, mi eravate mancate. Leggete e fatemi sapere se il mio è un ritorno gradito, altrimenti accetto anche i calci nel popò! Ahahhahah

Un bacio enorme e ci rileggiamo sotto. (se non mi cacciate prima, si intende!)

 

<3

 

 

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Capitolo II – Mistakes

 

 

 

 

Un mese dopo

 

Di per sé, odiare la mattina è una prassi fatta e finita. Però, ahimè, durante quei  temibili sette giorni del mese, diventava davvero complicato la via d’accettazione di una realtà così crudele.

Ero piegata in due sul gabinetto da circa un quarto d’ora, maledicendo Eva, la mela e la biscia annessa. Odiavo, ODIAVO essere totalmente in balia degli ormoni, dei dolori e degli istinti omicidi che – a dirla tutta – avrebbero fatto impallidire anche Annibal Lecter in persona.

Odiavo tutti e basta.

Un po’ come il puffo brontolone, ecco.

Aly! Per favore, ti scongiuro: me la sto facendo sottoooo! Muovi quel cazzo di culo!”

Gentile, coincisa ed efficace: sentire la voce acuta e squillante di Morgana a quell’ora del mattino, scaturiva la stessa sensazione di un pugno dritto nello stomaco, dopo cena: non vedevi l’ora di restituire il favore all’istante e scappare poi velocemente al gabinetto.

Se non è amicizia questa!

“Portami qualcosa invece di gridare! Voglio un Moment, un abbraccio.. Anzi, Nutella in endovena: subito!” Delirare era lecito, continuavo a ripetermelo mentre massaggiavo la pancia dura e dolorante. Avevo seriamente preso in considerazione l’esportazione della suddetta, magari con le due sorelle gemelle di nome ovaie che si divertivano a ballare la macarena nel mio basso ventre.

Datemi un allucinogeno, una canna… Voglio morire.

Tieni, stronza. E alzati, lo so che ti sembra di essere in punto di morte, ma devi andare a lavorare e forse anche io vorrei almeno farmi una doccia per raggiungere Milano.”

Presi al volo le due aspirine che caddero poco elegantemente sul palmo della mia mano e bevetti in un sol sorso il bicchiere d’acqua fresca.

Non che il dolore sarebbe definitivamente passato – o comunque non subito dopo l’assunzione del farmaco – ma il mio cervello vedeva già dissipare la spessa coltre di dolore e allucinazioni varie post-risveglio con il ciclo.

“Ora sì che mi sento bene.” Bofonchiai, uscendo dal bagno e cercando di dare senso a quell’ozioso lunedì mattina.

Ormai aprile era agli sgoccioli e con esso anche il freddo inverno forse stava lasciando spazio alla più gioiosa e calorosa primavera. Quell’anno era iniziato con nevicate abbondanti e giornate di pioggia eterne, tanto che vedere il sole - anche solo per poche ore - era un vero e proprio miraggio nel deserto d’asfalto della grigia e fredda capitale lombarda. Io, d’altronde, ero meteoropatica dalla nascita e i cambiamenti climatici erano da equiparare ai miei sbalzi d’umore.

Sì, non ero il massimo della compagnia per gran parte dell’inverno, me ne rendevo conto.

“Piove anche oggi?”

Morgana spuntò da dietro l’angolo, entrando nel nostro cucinino.

“Sì, ormai sono rassegnata a passare anche la fine della primavera con il muso lungo fino ai piedi.”

Sbuffai cercando di sistemare una ciocca ribelle che fuoriusciva con insistenza dalla lunga coda di boccoli.

“Da settimana prossima le temperature dovrebbero ritornare nella media stagionale e anche il sole tornerà a trovarci, vedrai.” Mi diede un buffetto sulla guancia ed io sorrisi, bevendo a goccia il caffè ormai diventato freddo.

“Hai ragione, mai perdere la speranza! Dai, andiamo a prendere il treno.”

 

Il bello di avere una migliore amica coinquilina e pendolare come te è che non hai molto tempo per deprimerti, nemmeno nelle ore passate sui mezzi. Io e Morgana vivevamo in un paesino sperduto nell’hinterland milanese, dove ancora era possibile trovare persone cordiali che, nonostante l’indifferenza dei nostri giorni, riuscivano a salutarti con il sorriso e una pacca amichevole sulla spalla. La signora Annabella era una di questa: una settantenne arzilla che prendeva ogni giorno un treno diverso, per far passare le lunghe e monotone giornate della sua vita.

Aveva occhi azzurri e capelli bianchi raccolti sempre in una lunga treccia. Non più giovane, alta e in salute, ma conservava l’allegria e il carattere spensierato tipico dei bambini.

In fondo, tutti dicono che invecchiando si ritorna allo stato infante, quando ancora tutto ti sembra bello, genuino e saporito. Annabella era stata la moglie di un soldato, la madre di sette figli e la sarta più amata del paese. Ed ora rincorreva nuove strade, nuovi binari, per ritornare a casa ogni sera con un sorriso in più.

L’ammiravo molto, io che ero giovane e con tutta la vita davanti, a volte non riuscivo proprio ad alzarmi dal letto ed essere così tanto propositiva. Ero molto spesso dedita più al lamento e all’autocommiserazione che alla ricerca di nuove sfumature che potessero plasmare un equilibro nel mio essere.

Scossi la testa, sbattendo i piedi per riscaldarmi le dita.

“Buongiorno, bambine. Visto che tempaccio?”

Annabella ci sorrise mentre, prima Morgana e poi io, la salutammo con un breve abbraccio.

“Sì, decisamente. Arriverò in ufficio con i capelli crespi, il viso appiccicoso e la voglia di sbranare quell’imbecille di Andrea.

Andrea era il collega-rivale-friendwithbenefits della mia migliore amica. Lavoravano entrambi da un’annetto nella stessa banca, nello stesso ufficio “controllo rischi” e avevano finito dall’odiarsi maniacalmente sul posto di lavoro, ad adorarsi sotto, sopra - e pure di lato - le lenzuola. Erano un portento a letto, ne avevo sentite di cotte e di crude dalle confessioni deliranti della mia amica, ma entrambi avevano paura ad impegnarsi sul serio.

Morgana ormai navigava placidamente nella sua condizione di donna indipendente e lui certamente non si sarebbe mai abbassato a ridurre la sua libertà per imbarcarsi in qualcosa di serio/noioso/esclusivo.

D’altro canto, per una sognatrice navigata come me, non erano molto comprensibili tutti quei meccanismi complessi. Le poche storie avute mi avevano portata a creare legami solidi con una persona e, sinceramente, non mi ero mai lamentata. Si soffre di più, ma si ama incondizionatamente.

Che se ne faceva Morgana di pene-dotato se non era disposto a sorbirsela anche nei momenti peggiori?

Tanto valeva che usasse un vibratore... E sporcava pure meno!

“Alice? Oh, questa ragazza è sempre sulle nuvole. Che cara ragazza, vero Morgana?”

“Sì, proprio cara.”

Mi persi di nuovo nei miei pensieri, nonostante le spintarelle strategiche della mia amica.

Ero senza speranze, ormai me n’ero accorta da troppo tempo. Il mondo mi sembrava spento senza i miei sogni, le fantasie e le mie umili e piccole pretese.

“Annabella, oggi dove andrai di bello?” Abbandonai la contemplazione delle mie ballerine luccicose, tornando finalmente nella triste e grigia realtà.

“Oh, tesoro, oggi è una giornata speciale. È il nostro cinquantesimo anniversario... Ah, Giovanni sarebbe stato felice di visitare di nuovo Verona. Sapete, ci siamo incontrati per la prima volta sotto il balcone di Giulietta. Che emozione, sembra quasi una favola per bambini!

Sorrisi di riflesso a quello sguardo sognante e al sospiro che accarezzò le labbra appena socchiuse della donna.

L’amore vero esiste.

Nonostante le delusioni e la mia inesperienza, ci credevo ancora con tutta me stessa.

 

Qualche giorno dopo

 

Sole, cirri, sole, vento, sole e freddo. Non riuscivo a capire il perché di un tempo così sbarazzino in quei giorni di metà maggio. No, non era accettabile. Volevo il sole, le vacanze e magari qualche bel ragazzo sudamericano che, ondeggiando suavemente, mi portasse via da quell’ammasso di tristezza urbana.

I miei occhi tornarono sul mio umile “pasto”, composto da un’insalata ben scondita e dei pomodorini che avevano visto giorni decisamente  migliori. Almeno mi godevo con tranquillità quel momento sacro. Non c’erano ragazzini che scorrazzavano con le bici schizzandomi addosso polvere e ghiaia, né bambini stupidi che rincorrevano agguerriti qualche inutile volatile di dubbia intelligenza. A dirla tutta, mancavano anche le classiche coppiette sdolcinate che, puntualmente, si consumano le labbra e le mani su quelle vecchie e scomode panchine.

Ok, avevo proprio il ciclo. Non potevo davvero odiare i bambini e le coppiette. Io, Alice Amore, ero l’agglomerazione più subdola del romanticismo sulla terra! Cupido era da sempre mio fratello di sangue, si sapeva.

Sbuffai, giocherellando con l’ultima forchettata di quell’insalata che aveva subito tutte le mie lune nell’ultimo quarto d’ora.

In quei giorni del mese… No, anche i miei pensieri sembravano essere stati partoriti da una di quelle stupide pubblicità sui problemi intimi. Irritazione, bruciore, menopausa... E che palle! Chiudete i tubi e siamo tutti felici!

No, no… stavo delirando dentro la mia testa.

“Sto parlando da sola?”

Mi raddrizzai di scatto, rendendomi conto che l’avevo appena fatto. Dannazione!

“Beh, Elis, credo proprio di sì.”

Quella voce e quel viso, entrarono nel mio campo visivo, facendomi letteralmente cadere dallo schienale della panchina sul quale ero seduta precariamente.

Oltre essere pazza, ero pure scoordinata e masochista.

“Porca troia!” Mi massaggiai il sedere, lanciando lampi e saette dagli occhi in direzione del moro.

Olè! Abbiamo seguito un corso di buone maniere nel frattempo?

Michele o meglio Mich – quel concentrato di sarcasmo e ambiguità - era riuscito per la seconda volta a sorprendermi in un momento decisamente inopportuno.

Per quanto mi desse fastidio ammetterlo: non mi ero dimenticata di lui. Sarei stata stupida a farlo.

Quell’incontro di poco più di un mese prima, mi aveva in qualche modo scombussolata.

Poi, con il tempo, avevo smussato gli angoli di quell’episodio, trasformandolo quasi in un ricordo lontano. Forse, la memoria labile, era un’autodifesa ingegnata dal mio cervello per proteggermi dal dolore dei ricordi. Ma, comunque, ritrovarlo di nuovo vicino e con la sua mano nella mia, per aiutarmi ancora una volta dalle strambe acrobazie del destino, fece ritornare in vita - come per magia - tutte le sensazioni vissute in quell’incontro fugace di un passato neppure così tanto remoto.

“Oh, cara Elis, riuscirai mai a cavartela da sola senza di me?”

Alzai un sopracciglio prima di scansare la sua mano, rimettendomi in piedi con le mie forze.

“Ho vissuto venticinque anni da sola e non penso di essermela cavata poi così tanto male.”

Incrociai le braccia, voltando il viso prima in direzione del Castello - che si trovava al centro del parco - , per poi ritornare a guardare il mio simpaticissimo accompagnatore.

Lo sguardo che mi lanciò fu decisamente eloquente: no, non me l’ero poi cavata così bene se tentavo di continuo il suicidio. Ma io ero ostinata e testarda di natura. Mi infastidivano quelle parole dirette e dure servite con un contorno di supponenza.

Era vero che non sempre me l’ero cavata egregiamente, però non mi ero mai pianta addosso. No, forse un tempo, forse quando ero un’adolescente insicura. Ora non mi piangevo nemmeno più addosso. Adesso tentato direttamente di farla finita. Coerente, vero?

Mi ero innervosita per niente, alla fine. Michele aveva semplicemente fatto dell’ironia pungente ed io non ero riuscita a riderci su.

Permalosa fino alla fine: siempre.

“Va bene, facciamo finta di non esserci rivisti.”

Feci un passo di lato, per raccattare dalla panchina le mie borse.

“Perché mai dovremmo fingere? Mi fa piacere rivederti.”

Non gli risposi nemmeno, intimidita da cotanta sincerità. Presi semplicemente sotto braccio la borsa delle provviste e feci scivolare il bauletto di Louis Vuitton nell’altro, indirizzandomi così verso il centro della città.

“Alice?”

Non gli risposi, ma continuai a galoppare come un cavallo imbizzarrito senza dargli considerazione.

L’impulsività è una brutta cosa. Il ciclo? Peggio ancora. Impulsività + ciclo? La rovina di molti membri della popolazione maschile. E “membri” non è utilizzato a caso.

“Alice?”

Mi voltai si scatto, finendo quasi travolta da una valanga. Una valanga di quasi due metri, sia chiaro.

“Senti tu, coso, non so che idea tu ti sia fatto di me, ma mi irrita la tua supponenza. Sono anni che vivo per i fatti miei e so badare a me stessa! Il fatto che tu mi abbia visto fare quella… cosa, non ti da il diritto di giudicarmi o avere la presunzione di conoscermi, ok? Bene, ciao! Stammi bene.”

Mi rigirai verso la strada e attraversai di corsa con l’arancione.

Bene, l’avevo seminato e pure lasciato senza parole. Vittoria! Vittoria su tutti i fronti!

Alice 1 – Spilungone 0.

Yuppi!

“Alice, questa sarebbe la tua idea di “fuga”? Oh, guarda! Una lumaca ci ha appena sorpassato! Dai, dammi due minuti, volevo solo sapere come stavi.

Alla mia destra, una losca presenza rifece la sua infelice comparsa.

Che strazio… Ecco cosa voleva dire avere gambe lunghe chilometri. Essendo alta 1.75, non ho mai avuto problemi di quel tipo, perché in fondo le mie gambe sono chilometriche. Erano gli altri a chiedere di rallentare, perché non riuscivano stare al mio passo. Michele, invece, sembrava stesse passeggiando lungo il bagnasciuga di una spiaggia caraibica. E pensare che quello era il mio passo da pseudo fuga e avevo quasi il fiatone.

Lui era impassibile e tranquillo. Aveva solo un luccichio strano nello sguardo.

“Nemmeno se me lo chiedi in ginocchio. La mia pausa pranzo è praticamente finita e sono in ritardo.”

Teoricamente ero già in prossimità del Duomo e mi avanzavano dieci minuti abbondanti prima di incominciare il turno, ma non glielo avrei confessato facilmente.

“Ok, l’hai voluto tu.”

Mich si fermò all’improvviso,  buttandosi a terra e guardandomi con occhi sbarrati.

“HELP ME, HELP ME! AIUTO, QUELLA RAGAZZA È UNA LADRA! FERMATELA!”

Prima che il mio cervello analizzasse quello che stava realmente succedendo, Michele mi gettò tra le mani il suo portafogli, lasciandomi con la bocca completamente spalancata e gli occhi che schizzavano letteralmente fuori dalle orbite. La gente cominciava a voltarsi e a bisbigliare, indicandomi con lo sguardo o a gesti.

Ero diventata rossa come un pomodoro, naturale.

“Sei impazzito?” Sussurrai con rabbia crescente. Le mie mani iniziarono a sudare e tremare per il nervoso.

“E tu la finisci di ignorarmi?”  Lui finì di contorcersi sul pavimento e si alzò di scatto. Il suo sguardo era improvvisamente fermo.

“Ok, ok.” Dissi imbronciata e Mich, di tutta risposta, si mise a ridere e a parlare a voce molto alta.

“Scena perfetta, Elis! Ora ritorniamo in studio a girare le scene d’interno.

Lo guardai ancora più confusa, quando mi mise un braccio intorno alle spalle, prendendo velocemente con l’altra mano il suo portafogli. “Arriviamo, Roby!” Continuò ad urlare verso qualcuno tra la folla che si era radunata intorno a noi.

Mi prese poi per mano, come se fosse naturale e abituale tra noi, e ci perdemmo tra i corpi e i bisbigli dei curiosi.

Poco dopo eravamo quasi di fronte al Duomo e nessuno più ci seguiva, indicava o guardava.

Mich si sedette sul gradino più alto delle scale che portavano verso l’ingresso della struttura, invitandomi a seguirlo. Invece, ancora shockata e infastidita dalla repentina successione degli ultimi eventi, rimasi con i piedi piantati a terra e le braccia incrociate saldamente. Sembravo la bella copia della signorina Rottermaier.

“Il tempo di una sigaretta.”

“Non fumo.”

Lui alzò gli occhi al cielo, prendendo una sigaretta e accendendola subito dopo.

“Lo so.”

“Allora vado.”

“E allora vai.” Inspirò una grossa boccata di fumo, prima di farla uscire lentamente dalla bocca. Non smise un attimo di guardarmi dritto negli occhi. Per la seconda volta, quello sguardo mi fece sentire piccola, nuda e tremendamente fragile.

Mich, senti…”

Lui scosse la testa, prima di farmi finire. “No, Alice, no. Non voglio le tue scuse, io volevo solo parlarti e sapere come te la passavi. Tutto qui. Valeva la pena di fare la preziosa?”

Feci spallucce. “Di solito la gente non vuole sapere davvero come sto. È una domanda di routine, bon ton. Che senso ha? Tanto potrei mentirti e tu non lo sapresti mai. Mai, Mich, perché non mi conosci.”

Lui si mise a battere dolcemente la sua mano contro il marmo delle scale, indicandomi il posto libero accanto a sé. Voleva solo parlare, no? Perché dovevo essere tanto acida per una richiesta così semplice?

Sbuffai nuovamente e percorsi i pochi gradini che ci separavano.

Mi sedetti e portai una gamba sotto il sedere, per essere più comoda. Mich si girò verso di me, riducendo molto la nostra distanza personale.

Quelli erano i momenti che più odiavo; quelli carichi di aspettative e buoni consigli che alla fine non valevano un cazzo. Quelli del: “Alice devi fare così e così... Devi aprirti al mondo e bla bla bla” Li odiavo.

Io non conoscevo lui, lui non conosceva me. Cosa stavamo cercando di ottenere? Far collidere due mondi così diversi non avrebbe portato nulla di buono. Ma, forse, mi stavo facendo mille menate assurde per nulla… Avevo pur sempre il ciclo. Erano gli ormoni, ecco.

“Precludi agli altri di conoscerti, sai? Sei sempre chiusa nel tuo guscio e ti agiti se qualcuno ti tocca più del consentito o ti guarda con insistenza.

Sbuffai, sminuendo le sue parole. “Ah sì? E quando l’avresti capito precisamente, Sherlock?”

Lui sorrise, spegnendo metà della sigaretta che non aveva ancora finito.

Mi guardò sfidandomi, lasciandomi perennemente con quel retrogusto di dubbio nei confronti delle sue azioni. Non riuscivo mai a capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Mai.

Figuriamoci, se aveva ragio-

Mich mi abbracciò. All’improvviso. Con dolcezza. Con calore. Con familiarità. Il mio corpo divenne un pezzo di legno quando percepii la consistenza del suo corpo contro il mio, lasciandomi con le braccia maldestramente intrappolate contro il suo petto, totalmente impreparate ad un gesto simile.

Odiavo essere impreparata… E Mich continuava a sorprendermi.

Ero profondamente e decisamente a disagio.

“Mi- Mich.. Cosa diavolo stai facendo?”

Lui strinse la presa, immergendosi nei miei capelli sciolti.

Dio, sudavo letteralmente freddo. No, non poteva entrare così nel mio spazio personale…

Ma poi, seguendo la scia delle emozioni, cominciai a sciogliermi proprio quando la sua mano iniziò ad accarezzare lentamente la mia schiena.

Era l’abbraccio più bello della mia vita e me lo stava dando uno sconosciuto sui gradini del Duomo.

Quel gesto urlava parole bellissime, eppure mi sentivo così patetica.

“Perché?” Bisbigliai flebilmente. L’acidità, il rancore ed il nervoso di poco prima erano totalmente svaniti.

“Perché tutti hanno bisogno di un abbraccio quando sono tristi, no?” Si staccò lentamente da me, regalandomi un sorriso sbarazzino.

Era così dannatamente anticonformista e così stravagante! Mi aveva risposto con la semplicità di un bambino, ma mi guardava negli occhi con la consapevolezza di un uomo adulto.

Chi era davvero Mich?

Un senzatetto? Uno psicologo di strada? Magari un angelo?

Ok, oltre agli ormoni ballerini, soffrivo pure di allucinazioni. Forse, quella mattina, avrei dovuto optare per la canna, invece che per la sana medicina tradizionale. Non aveva avuto propriamente gli effetti sperati sul mio tenero corpicino.

“Io non ero triste, in verità.” Sospirai, alzandomi e sistemandomi i vestiti.

“Tu sei cronicamente triste, Alice. Soffri di solitudine, non ti vuoi bene e hai paura delle persone. Non trovi che questo sia immensamente triste?”

Rimasi ferma ad osservarlo con la bocca aperta per qualche secondo di troppo.

Odiavo quel tipo di persone; quelle che sanno capirti con pochi sguardi e riescono a farti sentire nuda come un verme con poche e semplici parole ben assestate.

Mi sentivo perennemente fragile ed impreparata alle parole gentili e ai gesti ricolmi di semplice e puro affetto, perché ero stata abituata, fin da piccola, a scansare pugni morali, non a ricevere carezze o complimenti carini.

Pensavo sempre che ogni gesto, parola o regalo avvenisse per un tornaconto personale. Ero il classico tipo di persona che si osservava sempre le spalle per proteggersi dalle accuse e dagli sguardi delle persone.

Ero così maledettamente insicura che appena sentivo delle persone bisbigliare al supermercato, mi sentivo protagonista del loro insulto silenzioso.

Paranoica. Alice, sei paranoica e non sai più fidarti delle persone.

Mia madre me lo ripeteva da anni e solo in quel momento mi stavo rendendo effettivamente conto del peso asfissiante di quelle parole.

Da quando ero diventata così cinica, fredda ed impaurita della vita?

Da quando avevo smesso di provare la piacevole sensazione di lasciarmi semplicemente andare e vivere seguendo la mia volontà e non quella altrui?

Avevo messo di vivere.

Io avevo smesso di… amare la vita.

Stavo sopravvivendo, arrancavo in continuazione alla ricerca di una felicità che non riuscivo a trovare: che non volevo trovare. Perché, in fondo, mi andava bene la mia monotona vita, uscire qualche volta con i soliti amici e trovare consolazione nel lavoro che svolgevo da quasi un anno.

Patetica e Paranoica: che bella accoppiata.

Dov’era la bambina che sognava di scoprire il mondo? Che voleva colorare la vita con la propria passione per l’arte? Quella stessa bambina che sognava di vivere amori intensi e impossibili?

Mi ero accontentata in tutto e mi ero lasciata plasmare dal prototipo di ragazza, figlia ed amica che la società voleva. Avevo lasciato spegnere la mia vena artistica e la mia fantasia per sopravvivere in un mondo affamato di soldi e valori vuoti.

Avevo fallito.

“Devo andare.” Mi alzai e percorsi i pochi gradini che vedevo sempre più sfocati a causa delle lacrime da coccodrillo che avevano iniziato a sporcarmi gli occhi.

Non dovevo piangere: non volevo piangere, perché mi ero costruita da sola un mondo imperfetto che stava cominciando ad implodere. Mi dava fastidio da sola quell’atteggiamento infantile, ma erano reazioni che non riuscivo a controllare nemmeno volendo.

Scappi anche oggi?”

Mi fermai sull’ultimo gradino, girandomi verso Michele. “Come devo dirtelo che ti devi fare un po’ di affari tuoi?”

Mich si alzò e mi affiancò velocemente. “Anni fa avrei voluto che qualcuno mi avesse aperto gli occhi, buttandomi in faccia i miei errori. Non si vive di capricci e di paure, ma lo capisci sempre ad un passo dal baratro.

Alzai lo sguardo, anch’io come lui, lasciando che l’azzurro del cielo mi riempisse gli occhi di nuvole e lacrime. “Non mi ero mai accorta di essere così messa male.”

Mich sorrise, continuando a guardare in alto. “Allora sono felice di essere stato utile.”

Sorrisi anch’io, pulendomi il viso con le maniche della giacca. “Sei tipo un angelo venuto a soccorrermi? Magari capirei tutta questa tua gentilezza.

Mich scoppiò a ridere, abbassando lo sguardo verso di me. “Stronzate hollywoodiane. Sei proprio figlia della tua epoca.”

Mi accigliai, guardandolo male. “Come se tu avessi quarant’anni.”

“Ventinove. Altra sostanza, bella mia.”

Risi, scendendo l’ultimo gradino e voltandomi verso il mio buffo, strambo e psicolabile accompagnatore. “Beh, dopo tutta questa filosofia spiccia, lacrime stupide e monologhi teatrali devo salutarti. Attacco alle…” Afferrai il cellulare dalla tasca, constatando il mio imbarazzante ritardo. “…attaccavo dieci minuti fa, porca miseria!”

Corsi via, senza nemmeno salutarlo, ma la sua risata e  l’eco del suo “ciao” mi seguirono per tutto il tragitto come stupide voci nella mia testa.

Entrai nell’Accademia di corsa, talmente frastornata da non dare peso nemmeno agli sguardi incuriositi dei visitatori e degli studenti nei quali inciampavo a causa della fretta.

Michele.

Chiunque fosse e da dove venisse, ancora non mi era dato saperlo. L’unica cosa certa era che quel ragazzo era riuscito a regalarmi, per ben la seconda volta, un sorriso puro e sincero.

E forse avrei potuto davvero incominciare a credere negli angeli… O a pensare di darmi alle droghe leggere invece che al Moment.

Sì, scelta migliore.

 

 

__________________________

 

*sospiro*

Ah, Michele mio <3 Quanto è bono e fantastico quel ragazzo????

Parliamone, per piacere!

Scherzi a parte, direi che questo capitolo è uscito meglio del previsto. O meglio, io non l’avevo pensato così comico. Doveva essere più da “tagliamoci le vene in compagnia”, invece la personalità di Alice è venuta fuori tutta da sola. È fragile e forte allo stesso tempo e mi piace da matti! È un personaggio che ci regalerà molto, ne sono certa.

Michele è già figo ed intelligente di suo, vedrete voi quando vi racconterò la sua storia. Quanti cuoricini conquisterà!

Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e spero anche di non metterci altri sei mesi per aggiornarlo o vi do il mio indirizzo per venirmi a minacciare sotto casa! Ahahahha

 

Un bacio a tutte voi, bellezze

 

<3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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