Sembra un sogno anche per
me.
Erano mesi che sognavo
questo momento, ma è stato così maledettamente difficile tornare dietro word con idee e, soprattutto,
con lo spirito giusto per rendere le mie storie leggibili e piacevoli come un
tempo.
Non amo giustificarmi, ma credo che meritate
almeno un minimo di spiegazioni per questo silenzio lungo mesi.
Il 2013 è iniziato con i presupposti sbagliati,
trascinandosi dietro di sé un po’ di dolore e tristezza non
preventivati (e come si fa, d’altronde!). Mia nonna è stata poco bene e ho
concluso una storia lunga tre anni e mezzo con una
persona che è stata molto importante nella mia vita.
Dopo anni in cui avevo avuto un pilastro sempre vicino, è
stata dura riaffrontare la vita solamente con le mie mani. Però, posso dirlo
con leggerezza, il peggio è passato e non ho rimpianti
:) Infatti ho ricominciato a scrivere proprio quando ho capito che dovevo
pensare più a me stessa e fare le cose che ho sempre fatto, cercando
ispirazione in altri modi ed in altre sensazioni. Ero in crisi, perché non
riuscivo più ad avere le leggerezza e la fiducia nel
sentimento più bello di tutti, quello che è da sempre protagonista nelle mie
storie: l’amore. No, non crediate che abbia smesso di essere sdolcinata e
sentimentale… No, mi sa che sono peggiorata! Ahahhaha
:)
Sì, mi eravate mancate. Leggete e fatemi sapere se il mio
è un ritorno gradito, altrimenti accetto anche i calci nel popò! Ahahhahah
Un bacio enorme e ci rileggiamo sotto. (se non mi
cacciate prima, si intende!)
<3
Capitolo II –
Mistakes
Un mese dopo
Di
per sé, odiare la mattina è una prassi fatta e finita. Però, ahimè, durante quei temibili sette giorni del mese,
diventava davvero complicato la via d’accettazione di una realtà così crudele.
Ero
piegata in due sul gabinetto da circa un quarto d’ora, maledicendo Eva, la mela
e la biscia annessa. Odiavo, ODIAVO essere totalmente
in balia degli ormoni, dei dolori e degli istinti omicidi che – a dirla tutta –
avrebbero fatto impallidire anche Annibal Lecter in persona.
Odiavo
tutti e basta.
Un
po’ come il puffo brontolone, ecco.
“Aly! Per favore, ti scongiuro: me
la sto facendo sottoooo! Muovi quel cazzo di culo!”
Gentile, coincisa ed efficace: sentire la
voce acuta e squillante di Morgana a quell’ora del mattino, scaturiva la stessa
sensazione di un pugno dritto nello stomaco, dopo cena: non vedevi l’ora di
restituire il favore all’istante e scappare poi velocemente al gabinetto.
Se
non è amicizia questa!
“Portami qualcosa invece di gridare! Voglio un Moment, un abbraccio.. Anzi, Nutella in endovena: subito!” Delirare era lecito,
continuavo a ripetermelo mentre massaggiavo la pancia dura e dolorante. Avevo
seriamente preso in considerazione l’esportazione della suddetta, magari con le
due sorelle gemelle di nome ovaie che si divertivano a ballare la macarena nel
mio basso ventre.
Datemi
un allucinogeno, una canna… Voglio morire.
“Tieni, stronza. E alzati, lo so che ti sembra di essere in
punto di morte, ma devi andare a lavorare e forse anche io
vorrei almeno farmi una doccia per raggiungere Milano.”
Presi
al volo le due aspirine che caddero poco elegantemente sul palmo della mia mano
e bevetti in un sol sorso il bicchiere d’acqua fresca.
Non
che il dolore sarebbe definitivamente passato – o comunque non subito dopo
l’assunzione del farmaco – ma il mio cervello vedeva già dissipare la spessa coltre
di dolore e allucinazioni varie post-risveglio con il ciclo.
“Ora
sì che mi sento bene.” Bofonchiai, uscendo dal bagno e cercando di dare senso a quell’ozioso lunedì mattina.
Ormai
aprile era agli sgoccioli e con esso anche il freddo inverno forse stava
lasciando spazio alla più gioiosa e calorosa primavera. Quell’anno era iniziato
con nevicate abbondanti e giornate di pioggia eterne, tanto che vedere il sole
- anche solo per poche ore - era un vero e proprio miraggio nel deserto
d’asfalto della grigia e fredda capitale lombarda. Io, d’altronde, ero
meteoropatica dalla nascita e i cambiamenti climatici erano da equiparare ai
miei sbalzi d’umore.
Sì,
non ero il massimo della compagnia per gran parte dell’inverno, me ne rendevo
conto.
“Piove
anche oggi?”
Morgana
spuntò da dietro l’angolo, entrando nel nostro cucinino.
“Sì,
ormai sono rassegnata a passare anche la fine della primavera con il muso lungo
fino ai piedi.”
Sbuffai
cercando di sistemare una ciocca ribelle che fuoriusciva con insistenza dalla
lunga coda di boccoli.
“Da
settimana prossima le temperature dovrebbero ritornare nella media stagionale e
anche il sole tornerà a trovarci, vedrai.” Mi diede un buffetto sulla guancia
ed io sorrisi, bevendo a goccia il caffè ormai diventato freddo.
“Hai
ragione, mai perdere la speranza! Dai, andiamo a prendere il treno.”
Il
bello di avere una migliore amica coinquilina e pendolare come te è che non hai
molto tempo per deprimerti, nemmeno nelle ore passate sui mezzi. Io e Morgana vivevamo in un paesino sperduto nell’hinterland
milanese, dove ancora era possibile trovare persone cordiali che, nonostante
l’indifferenza dei nostri giorni, riuscivano a salutarti con il sorriso e una
pacca amichevole sulla spalla. La signora Annabella era una di questa: una
settantenne arzilla che prendeva ogni giorno un treno diverso, per far passare
le lunghe e monotone giornate della sua vita.
Aveva
occhi azzurri e capelli bianchi raccolti sempre in una lunga treccia. Non più
giovane, alta e in salute, ma conservava l’allegria e il carattere spensierato
tipico dei bambini.
In
fondo, tutti dicono che invecchiando si ritorna allo stato infante, quando
ancora tutto ti sembra bello, genuino e saporito. Annabella era stata la moglie
di un soldato, la madre di sette figli e la sarta più amata del paese. Ed ora rincorreva nuove strade, nuovi binari, per ritornare
a casa ogni sera con un sorriso in più.
L’ammiravo molto, io che ero giovane e con tutta la vita davanti,
a volte non riuscivo proprio ad alzarmi dal letto ed essere così tanto
propositiva. Ero molto spesso dedita più al lamento e all’autocommiserazione
che alla ricerca di nuove sfumature che potessero plasmare un equilibro nel mio essere.
Scossi
la testa, sbattendo i piedi per riscaldarmi le dita.
“Buongiorno,
bambine. Visto che tempaccio?”
Annabella
ci sorrise mentre, prima Morgana e poi io, la salutammo con un breve abbraccio.
“Sì,
decisamente. Arriverò in ufficio con i capelli crespi,
il viso appiccicoso e la voglia di sbranare quell’imbecille di Andrea.”
Andrea
era il collega-rivale-friendwithbenefits
della mia migliore amica. Lavoravano entrambi da un’annetto nella stessa banca,
nello stesso ufficio “controllo rischi” e avevano finito dall’odiarsi
maniacalmente sul posto di lavoro, ad adorarsi sotto,
sopra - e pure di lato - le lenzuola. Erano un portento a letto, ne avevo
sentite di cotte e di crude dalle confessioni deliranti della mia amica, ma
entrambi avevano paura ad impegnarsi sul serio.
Morgana
ormai navigava placidamente nella sua condizione di donna indipendente e lui
certamente non si sarebbe mai abbassato a ridurre la sua libertà per imbarcarsi
in qualcosa di serio/noioso/esclusivo.
D’altro
canto, per una sognatrice navigata come me, non erano molto comprensibili tutti
quei meccanismi complessi. Le poche storie avute mi avevano portata
a creare legami solidi con una persona e, sinceramente, non mi ero mai
lamentata. Si soffre di più, ma si ama incondizionatamente.
Che
se ne faceva Morgana di pene-dotato se non era disposto a sorbirsela anche nei momenti
peggiori?
Tanto
valeva che usasse un vibratore... E sporcava pure meno!
“Alice?
Oh, questa ragazza è sempre sulle nuvole. Che cara ragazza, vero
Morgana?”
“Sì,
proprio cara.”
Mi
persi di nuovo nei miei pensieri, nonostante le spintarelle strategiche della
mia amica.
Ero
senza speranze, ormai me n’ero accorta da troppo
tempo. Il mondo mi sembrava spento senza i miei sogni, le fantasie e le mie
umili e piccole pretese.
“Annabella,
oggi dove andrai di bello?” Abbandonai la contemplazione delle mie ballerine luccicose,
tornando finalmente nella triste e grigia realtà.
“Oh,
tesoro, oggi è una giornata speciale. È il nostro cinquantesimo anniversario...
Ah, Giovanni sarebbe stato felice di visitare di nuovo
Verona. Sapete, ci siamo incontrati per la prima volta sotto il balcone di
Giulietta. Che emozione, sembra quasi una favola per bambini!”
Sorrisi
di riflesso a quello sguardo sognante e al sospiro che accarezzò le labbra
appena socchiuse della donna.
L’amore
vero esiste.
Nonostante
le delusioni e la mia inesperienza, ci credevo ancora con tutta me stessa.
Qualche giorno dopo
Sole,
cirri, sole, vento, sole e freddo. Non riuscivo a
capire il perché di un tempo così sbarazzino in quei giorni di metà maggio. No,
non era accettabile. Volevo il sole, le vacanze e magari qualche bel ragazzo sudamericano
che, ondeggiando suavemente,
mi portasse via da quell’ammasso di tristezza urbana.
I
miei occhi tornarono sul mio umile “pasto”, composto da
un’insalata ben scondita e dei
pomodorini che avevano visto giorni decisamente
migliori. Almeno mi godevo con
tranquillità quel momento sacro. Non c’erano ragazzini che scorrazzavano con le
bici schizzandomi addosso polvere e ghiaia, né bambini
stupidi che rincorrevano agguerriti qualche inutile volatile di dubbia
intelligenza. A dirla tutta, mancavano anche le classiche coppiette sdolcinate
che, puntualmente, si consumano le labbra e le mani su quelle vecchie e scomode
panchine.
Ok,
avevo proprio il ciclo. Non potevo davvero odiare i bambini e le coppiette. Io,
Alice Amore, ero l’agglomerazione più subdola del romanticismo sulla terra! Cupido
era da sempre mio fratello di sangue, si sapeva.
Sbuffai,
giocherellando con l’ultima forchettata di quell’insalata che aveva subito
tutte le mie lune nell’ultimo quarto d’ora.
In quei giorni del mese… No, anche i miei pensieri sembravano essere
stati partoriti da una di quelle stupide pubblicità sui problemi intimi.
Irritazione, bruciore, menopausa... E che palle! Chiudete i tubi e siamo tutti
felici!
No,
no… stavo delirando dentro la mia testa.
“Sto
parlando da sola?”
Mi
raddrizzai di scatto, rendendomi conto che l’avevo appena fatto. Dannazione!
“Beh,
Elis, credo proprio di sì.”
Quella voce e quel
viso, entrarono nel mio campo visivo, facendomi letteralmente cadere dallo
schienale della panchina sul quale ero seduta precariamente.
Oltre
essere pazza, ero pure scoordinata e masochista.
“Porca
troia!” Mi massaggiai il sedere, lanciando lampi e saette dagli occhi in direzione
del moro.
“Olè! Abbiamo seguito un corso di buone maniere nel
frattempo?”
Michele
o meglio Mich – quel concentrato
di sarcasmo e ambiguità - era riuscito per la seconda volta a sorprendermi in
un momento decisamente inopportuno.
Per
quanto mi desse fastidio ammetterlo: non mi ero dimenticata di lui. Sarei stata
stupida a farlo.
Quell’incontro
di poco più di un mese prima, mi aveva in qualche modo
scombussolata.
Poi,
con il tempo, avevo smussato gli angoli di quell’episodio, trasformandolo quasi
in un ricordo lontano. Forse, la memoria labile, era un’autodifesa ingegnata
dal mio cervello per proteggermi dal dolore dei ricordi. Ma, comunque, ritrovarlo
di nuovo vicino e con la sua mano nella mia, per aiutarmi ancora una volta
dalle strambe acrobazie del destino, fece ritornare in vita - come per magia -
tutte le sensazioni vissute in quell’incontro fugace di un passato neppure così tanto remoto.
“Oh,
cara Elis, riuscirai mai a cavartela da sola senza di
me?”
Alzai
un sopracciglio prima di scansare la sua mano, rimettendomi in piedi con le mie
forze.
“Ho
vissuto venticinque anni da sola e non penso di essermela cavata poi così tanto male.”
Incrociai
le braccia, voltando il viso prima in direzione del Castello - che si trovava
al centro del parco - , per poi ritornare a guardare
il mio simpaticissimo accompagnatore.
Lo
sguardo che mi lanciò fu decisamente eloquente: no,
non me l’ero poi cavata così bene se tentavo di continuo il suicidio. Ma io ero ostinata e testarda di natura. Mi
infastidivano quelle parole dirette e dure servite con un contorno di
supponenza.
Era
vero che non sempre me l’ero cavata egregiamente, però non mi ero mai pianta
addosso. No, forse un tempo, forse quando ero un’adolescente insicura. Ora non
mi piangevo nemmeno più addosso. Adesso tentato direttamente di farla finita.
Coerente, vero?
Mi
ero innervosita per niente, alla fine. Michele aveva semplicemente fatto
dell’ironia pungente ed io non ero riuscita a riderci su.
Permalosa
fino alla fine: siempre.
“Va
bene, facciamo finta di non esserci rivisti.”
Feci
un passo di lato, per raccattare dalla panchina le mie borse.
“Perché
mai dovremmo fingere? Mi fa piacere rivederti.”
Non
gli risposi nemmeno, intimidita da cotanta sincerità. Presi semplicemente sotto
braccio la borsa delle provviste e feci scivolare il bauletto di Louis Vuitton
nell’altro, indirizzandomi così verso il centro della città.
“Alice?”
Non
gli risposi, ma continuai a galoppare come un cavallo imbizzarrito senza dargli
considerazione.
L’impulsività
è una brutta cosa. Il ciclo? Peggio ancora.
Impulsività + ciclo? La rovina di molti membri della popolazione maschile. E
“membri” non è utilizzato a caso.
“Alice?”
Mi
voltai si scatto, finendo quasi travolta da una valanga. Una valanga di quasi
due metri, sia chiaro.
“Senti
tu, coso, non so che idea tu ti sia
fatto di me, ma mi irrita la tua supponenza. Sono anni
che vivo per i fatti miei e so badare a me stessa! Il fatto che tu mi abbia
visto fare quella… cosa, non ti da il diritto di giudicarmi o avere la presunzione di conoscermi,
ok? Bene, ciao! Stammi bene.”
Mi
rigirai verso la strada e attraversai di corsa con l’arancione.
Bene,
l’avevo seminato e pure lasciato senza parole. Vittoria! Vittoria su tutti i
fronti!
Alice
1 – Spilungone 0.
Yuppi!
“Alice,
questa sarebbe la tua idea di “fuga”? Oh, guarda! Una lumaca ci ha appena
sorpassato! Dai, dammi due minuti, volevo solo sapere come stavi.”
Alla
mia destra, una losca presenza rifece la sua infelice comparsa.
Che
strazio… Ecco cosa voleva dire avere gambe lunghe chilometri. Essendo alta
1.75, non ho mai avuto problemi di quel tipo, perché in fondo le mie gambe sono
chilometriche. Erano gli altri a
chiedere di rallentare, perché non riuscivano stare al mio passo. Michele,
invece, sembrava stesse passeggiando lungo il bagnasciuga di una spiaggia
caraibica. E pensare che quello era il mio passo da
pseudo fuga e avevo quasi il fiatone.
Lui
era impassibile e tranquillo. Aveva solo un luccichio strano nello sguardo.
“Nemmeno
se me lo chiedi in ginocchio. La mia pausa pranzo è praticamente
finita e sono in ritardo.”
Teoricamente
ero già in prossimità del Duomo e mi avanzavano dieci minuti abbondanti prima
di incominciare il turno, ma non glielo avrei confessato facilmente.
“Ok,
l’hai voluto tu.”
Mich si fermò all’improvviso, buttandosi a terra e guardandomi con
occhi sbarrati.
“HELP
ME, HELP ME! AIUTO, QUELLA RAGAZZA È UNA LADRA! FERMATELA!”
Prima
che il mio cervello analizzasse quello che stava realmente succedendo, Michele
mi gettò tra le mani il suo portafogli, lasciandomi con la bocca completamente
spalancata e gli occhi che schizzavano letteralmente fuori dalle orbite. La
gente cominciava a voltarsi e a bisbigliare, indicandomi con lo sguardo o a
gesti.
Ero
diventata rossa come un pomodoro, naturale.
“Sei impazzito?” Sussurrai con rabbia crescente. Le mie mani
iniziarono a sudare e tremare per il nervoso.
“E tu la finisci di
ignorarmi?” Lui finì di contorcersi sul pavimento e si
alzò di scatto. Il suo sguardo era improvvisamente fermo.
“Ok,
ok.” Dissi imbronciata e Mich, di tutta risposta, si
mise a ridere e a parlare a voce molto alta.
“Scena
perfetta, Elis! Ora ritorniamo in studio a girare le
scene d’interno.”
Lo
guardai ancora più confusa, quando mi mise un braccio intorno alle spalle,
prendendo velocemente con l’altra mano il suo portafogli. “Arriviamo, Roby!”
Continuò ad urlare verso qualcuno tra la folla che si
era radunata intorno a noi.
Mi
prese poi per mano, come se fosse naturale e abituale tra noi, e ci perdemmo tra
i corpi e i bisbigli dei curiosi.
Poco
dopo eravamo quasi di fronte al Duomo e nessuno più ci seguiva, indicava o
guardava.
Mich si sedette sul gradino più alto delle scale che portavano
verso l’ingresso della struttura, invitandomi a seguirlo. Invece, ancora
shockata e infastidita dalla repentina successione degli ultimi eventi, rimasi
con i piedi piantati a terra e le braccia incrociate saldamente. Sembravo la
bella copia della signorina Rottermaier.
“Il
tempo di una sigaretta.”
“Non
fumo.”
Lui
alzò gli occhi al cielo, prendendo una sigaretta e accendendola subito dopo.
“Lo
so.”
“Allora
vado.”
“E
allora vai.” Inspirò una grossa boccata di fumo, prima di farla uscire
lentamente dalla bocca. Non smise un attimo di guardarmi dritto negli occhi.
Per la seconda volta, quello sguardo mi fece sentire piccola, nuda e
tremendamente fragile.
“Mich, senti…”
Lui
scosse la testa, prima di farmi finire. “No, Alice, no. Non voglio le tue
scuse, io volevo solo parlarti e sapere come te la
passavi. Tutto qui. Valeva la pena di fare la preziosa?”
Feci
spallucce. “Di solito la gente non vuole sapere davvero come sto. È una domanda
di routine, bon ton. Che senso ha? Tanto potrei
mentirti e tu non lo sapresti mai. Mai, Mich,
perché non mi conosci.”
Lui
si mise a battere dolcemente la sua mano contro il marmo delle scale, indicandomi
il posto libero accanto a sé. Voleva solo parlare, no? Perché dovevo essere
tanto acida per una richiesta così semplice?
Sbuffai
nuovamente e percorsi i pochi gradini che ci separavano.
Mi
sedetti e portai una gamba sotto il sedere, per essere più comoda. Mich si girò verso di me, riducendo molto la nostra
distanza personale.
Quelli
erano i momenti che più odiavo; quelli carichi di aspettative
e buoni consigli che alla fine non valevano un cazzo. Quelli del: “Alice devi
fare così e così... Devi aprirti al mondo e bla bla bla”
Li odiavo.
Io
non conoscevo lui, lui non conosceva me. Cosa stavamo cercando di ottenere? Far collidere due mondi
così diversi non avrebbe portato nulla di buono. Ma, forse, mi stavo facendo mille menate assurde per nulla…
Avevo pur sempre il ciclo. Erano gli ormoni, ecco.
“Precludi
agli altri di conoscerti, sai? Sei sempre chiusa nel
tuo guscio e ti agiti se qualcuno ti tocca più del consentito o ti guarda con
insistenza.”
Sbuffai,
sminuendo le sue parole. “Ah sì? E quando l’avresti capito precisamente,
Sherlock?”
Lui
sorrise, spegnendo metà della sigaretta che non aveva ancora finito.
Mi
guardò sfidandomi, lasciandomi perennemente con quel retrogusto di dubbio nei
confronti delle sue azioni. Non riuscivo mai a capire quale sarebbe stata la
sua prossima mossa. Mai.
Figuriamoci,
se aveva ragio-…
Mich mi abbracciò. All’improvviso. Con dolcezza. Con calore. Con
familiarità. Il mio corpo divenne un pezzo di legno quando percepii la
consistenza del suo corpo contro il mio, lasciandomi con le braccia
maldestramente intrappolate contro il suo petto, totalmente impreparate ad un gesto simile.
Odiavo
essere impreparata… E Mich continuava a sorprendermi.
Ero
profondamente e decisamente a disagio.
“Mi-
Mich.. Cosa diavolo stai
facendo?”
Lui
strinse la presa, immergendosi nei miei capelli sciolti.
Dio,
sudavo letteralmente freddo. No, non poteva entrare così nel mio spazio
personale…
Ma poi, seguendo la scia delle emozioni, cominciai a sciogliermi proprio
quando la sua mano iniziò ad accarezzare lentamente la mia schiena.
Era
l’abbraccio più bello della mia vita e me lo stava dando uno sconosciuto sui
gradini del Duomo.
Quel
gesto urlava parole bellissime, eppure mi sentivo così patetica.
“Perché?”
Bisbigliai flebilmente. L’acidità, il rancore ed il
nervoso di poco prima erano totalmente svaniti.
“Perché
tutti hanno bisogno di un abbraccio quando sono tristi, no?” Si staccò
lentamente da me, regalandomi un sorriso sbarazzino.
Era
così dannatamente anticonformista e così stravagante! Mi aveva risposto con la
semplicità di un bambino, ma mi guardava negli occhi con la consapevolezza di
un uomo adulto.
Chi
era davvero Mich?
Un
senzatetto? Uno psicologo di strada? Magari un angelo?
Ok,
oltre agli ormoni ballerini, soffrivo pure di
allucinazioni. Forse, quella mattina, avrei dovuto optare per
la canna, invece che per la sana medicina tradizionale. Non aveva avuto
propriamente gli effetti sperati sul mio tenero corpicino.
“Io
non ero triste, in verità.” Sospirai, alzandomi e sistemandomi i vestiti.
“Tu
sei cronicamente triste, Alice.
Soffri di solitudine, non ti vuoi bene e hai paura delle persone. Non trovi che questo sia immensamente triste?”
Rimasi
ferma ad osservarlo con la bocca aperta per qualche
secondo di troppo.
Odiavo
quel tipo di persone; quelle che sanno capirti con pochi sguardi e riescono a
farti sentire nuda come un verme con poche e semplici parole ben assestate.
Mi
sentivo perennemente fragile ed impreparata alle
parole gentili e ai gesti ricolmi di semplice e puro affetto, perché ero stata
abituata, fin da piccola, a scansare pugni morali, non a ricevere carezze o
complimenti carini.
Pensavo
sempre che ogni gesto, parola o regalo avvenisse per
un tornaconto personale. Ero il classico tipo di persona che si osservava sempre le spalle per proteggersi dalle accuse e
dagli sguardi delle persone.
Ero
così maledettamente insicura che appena sentivo delle persone bisbigliare al
supermercato, mi sentivo protagonista del loro insulto silenzioso.
Paranoica. Alice, sei
paranoica e non sai più fidarti delle persone.
Mia
madre me lo ripeteva da anni e solo in quel momento mi stavo rendendo
effettivamente conto del peso asfissiante di quelle parole.
Da
quando ero diventata così cinica, fredda ed impaurita
della vita?
Da
quando avevo smesso di provare la piacevole sensazione di lasciarmi
semplicemente andare e vivere seguendo la mia volontà e non quella altrui?
Avevo messo di vivere.
Io
avevo smesso di… amare la vita.
Stavo
sopravvivendo, arrancavo in continuazione alla ricerca di una felicità che non
riuscivo a trovare: che non volevo trovare. Perché, in fondo, mi andava bene la mia monotona
vita, uscire qualche volta con i soliti amici e trovare consolazione nel lavoro
che svolgevo da quasi un anno.
Patetica
e Paranoica: che bella accoppiata.
Dov’era
la bambina che sognava di scoprire il mondo? Che voleva colorare la vita con la
propria passione per l’arte? Quella stessa bambina che sognava di vivere amori
intensi e impossibili?
Mi
ero accontentata in tutto e mi ero lasciata plasmare dal prototipo di ragazza,
figlia ed amica che la società voleva. Avevo lasciato
spegnere la mia vena artistica e la mia fantasia per sopravvivere in un mondo
affamato di soldi e valori vuoti.
Avevo
fallito.
“Devo
andare.” Mi alzai e percorsi i pochi gradini che vedevo sempre più sfocati a
causa delle lacrime da coccodrillo che avevano iniziato a sporcarmi gli occhi.
Non
dovevo piangere: non volevo piangere,
perché mi ero costruita da sola un mondo imperfetto che stava cominciando ad implodere. Mi dava fastidio da sola quell’atteggiamento
infantile, ma erano reazioni che non riuscivo a controllare nemmeno volendo.
“Scappi anche oggi?”
Mi
fermai sull’ultimo gradino, girandomi verso Michele. “Come devo dirtelo che ti devi fare un po’ di affari tuoi?”
Mich si alzò e mi affiancò velocemente. “Anni fa avrei voluto che
qualcuno mi avesse aperto gli occhi, buttandomi in faccia i miei errori. Non si
vive di capricci e di paure, ma lo capisci sempre ad un passo dal baratro.”
Alzai
lo sguardo, anch’io come lui, lasciando che l’azzurro del cielo mi riempisse
gli occhi di nuvole e lacrime. “Non mi ero mai accorta di essere così messa
male.”
Mich sorrise, continuando a guardare in alto. “Allora sono felice
di essere stato utile.”
Sorrisi
anch’io, pulendomi il viso con le maniche della giacca. “Sei tipo un angelo
venuto a soccorrermi? Magari capirei tutta questa tua gentilezza.”
Mich scoppiò a ridere, abbassando lo sguardo verso di me.
“Stronzate hollywoodiane. Sei proprio figlia della tua
epoca.”
Mi
accigliai, guardandolo male. “Come se tu avessi quarant’anni.”
“Ventinove.
Altra sostanza, bella mia.”
Risi, scendendo l’ultimo gradino e
voltandomi verso il mio buffo, strambo e psicolabile accompagnatore. “Beh, dopo tutta questa filosofia spiccia,
lacrime stupide e monologhi teatrali devo salutarti. Attacco alle…” Afferrai il
cellulare dalla tasca, constatando il mio imbarazzante
ritardo. “…attaccavo dieci minuti fa, porca miseria!”
Corsi
via, senza nemmeno salutarlo, ma la sua risata e l’eco del suo “ciao” mi seguirono per
tutto il tragitto come stupide voci nella mia testa.
Entrai
nell’Accademia di corsa, talmente frastornata da non dare peso nemmeno agli
sguardi incuriositi dei visitatori e degli studenti nei quali inciampavo a
causa della fretta.
Michele.
Chiunque
fosse e da dove venisse, ancora non mi era dato saperlo. L’unica cosa certa era
che quel ragazzo era riuscito a regalarmi, per ben la seconda volta, un sorriso
puro e sincero.
E
forse avrei potuto davvero incominciare a credere negli angeli… O a pensare di
darmi alle droghe leggere invece che al Moment.
Sì,
scelta migliore.
__________________________
*sospiro*
Ah, Michele mio <3 Quanto è bono e
fantastico quel ragazzo????
Parliamone, per piacere!
Scherzi a parte, direi che questo capitolo è uscito meglio del
previsto. O meglio, io non l’avevo pensato così comico. Doveva essere più da
“tagliamoci le vene in compagnia”, invece la personalità di Alice è venuta
fuori tutta da sola. È fragile e forte allo stesso tempo e mi piace da matti! È
un personaggio che ci regalerà molto, ne sono certa.
Michele è già figo ed
intelligente di suo, vedrete voi quando vi racconterò la sua storia. Quanti
cuoricini conquisterà!
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e spero
anche di non metterci altri sei mesi per aggiornarlo o vi do il mio indirizzo
per venirmi a minacciare sotto casa! Ahahahha
Un bacio a tutte voi, bellezze
<3