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Autore: Trafalgar Norah    12/09/2013    0 recensioni
Kaylie aveva avuto quasi tutto quello che poteva desiderare: una vita tranquilla, ottimi amici e una famiglia che l'amava.
Almeno fino al momento in cui aveva iniziato a pensare con la sua testa.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Prologo

 

Qualcuno stava bussando alla porta.

Dapprima con delicatezza, poi i colpi erano diventati sempre più forti.

Sentivo una voce sconosciuta pronunciare in continuazione il mio nome, ma non potevo rispondere né tantomeno andare ad aprire la porta.

In primo luogo, perché al momento non ero in grado di parlare; secondo, perché stavo talmente male da non potermi nemmeno alzare.

Stentavo a capire chi si trovasse dietro alla porta, e la mia coinquilina non sembrava intenzionata a volersi alzare; probabilmente le sue condizioni erano peggiori delle mie, ma per motivi decisamente diversi.

Avrei davvero voluto tornare a dormire, ma il rumore era decisamente fastidioso, ed era come se stessero bussando direttamente sulla mia testa.

Pregai con tutte le mie forze che chiunque stesse facendo quel casino avesse la decenza di smettere.

“Kaylie! So che ci sei, alzati ed apri questa porta!”

Stordita dalla malattia, provai a fare mente locale: io conoscevo quella voce. Non la sentivo da un po’ di tempo, ma sapevo benissimo di chi era. E la cosa non mi piaceva affatto. Apparteneva a qualcuno che non capiva il significato del verbo “demordere”, sinonimi compresi, e che sarebbe stato in grado di attendere all’infinito che io rispondessi.

Con un sospiro rassegnato e qualche imprecazione, cercai di mettermi in piedi. Fu difficile, perché la testa mi girava pericolosamente, e rischiai un paio di volte di ricadere. Attraversai la stanza barcollando, maledicendo quello stupido che aveva pensato bene di disturbarmi: che ci faceva lui in California? Doveva essere a chilometri di distanza da qui!

“Vuoi che butti giù la porta?”

Quelle parole mi fecero arrabbiare ancora di più. Girai la chiave nella toppa, cercando di reprimere l’insulto migliore del mio repertorio, e abbassai la maniglia.

“Ce l’hai fatta sorellina! Era così difficile?”

Un ragazzo era fermo sulla soglia del mio appartamento, a braccia incrociate. Era veramente bello: aveva i capelli biondi, con qualche ciocca che ricadeva distrattamente sugli occhi azzurri. Le sue labbra esibivano un ghigno canzonatorio, che non prometteva nulla di buono.

Gli rivolsi un’occhiataccia, aprendo la porta per farlo entrare.

Notai però, che mio fratello Alex non era da solo: i suoi due migliori amici, Nick e Ross, stavano salendo le scale per raggiungerci.

L’idea di avere intorno non uno, ma ben tre guastafeste mi dava la nausea. Mi sedetti sulla poltrona, senza proferir parola, mentre loro una volta entrati avevano decisi di impadronirsi della cucina, del divano, praticamente di tutto, come se l’appartamento fosse casa loro.

Presi un quaderno e un pennarello, e scrissi: “Che ci fate voi qui?”

“Sei senza voce?” domandò Alex.

Annuii, facendolo ridere: “Adoro questi momenti, almeno sei costretta a star zitta!”

Afferrai il cuscino, con l’intenzione di lanciarlo addosso a lui, ma qualcuno fu più veloce di me. “Buon giorno anche a te, Kelly”

“Io e tua sorella stavamo già abbastanza male, e tu di certo non migliori la situazione” biascicò, con la voce impastata dal sonno.

“Sapete, siete due ingrate. A Seattle nessuno sa più nulla di voi, non chiamate, non vi prendete un week-end per fare un salto a casa... io vi salvo raccontando chissà quali bugie e voi mi ringraziate in questo modo?”

“Nessuno te l’ha chiesto” scrissi ancora sul foglio.

“In ogni caso l’ho fatto, quindi mi dovete un favore” affermò soddisfatto.

“Come no, te le restituiremo al più presto” rispose ironica la mia amica.

“Ne sono certo. Comunque, siamo qui perché un nostro amico sta per sposarsi e ci ha invitato all’addio al nubilato. Abbiamo pensato di venire a vedere come ve la passate, ma non sembra stia andando tanto bene” disse lanciandomi un’occhiata.

“Tranquilli, ce la caviamo benissimo. Ora, se foste così gentili da togliere il disturbo, ci fareste un enorme piacere, grazie” disse la mia amica

“Due secondi fa hai detto il contrario. Non mi piace vedere mia sorella che sta male. Quindi, visto che oggi non abbiamo nulla da fare, resteremo qui a farvi compagnia”

“O a sorvegliarci”

Forse ero un po’ malfidente, ma conoscevo troppo bene Alex: lui, come del resto l’altro mio fratello Brandon, viveva per compiacere i nostri genitori. Sostenevano che si trattasse di rispetto nei loro confronti, ma la mia teoria era ben diversa.

“Fantastico, avevamo proprio bisogno di tre scrocconi a farci compagnia! E quando avete intenzione di levarvi dai piedi?”

“Domenica pomeriggio. Ci dovete ospitare solo per due notti” rispose Nick, distogliendo lo sguardo dalla televisione, per la prima volta da quando era entrato.

“Un periodo di tempo più che sufficiente per ridurre il nostro appartamento in condizioni pietose” sbuffò Kelly. Una volta avevo trascorso un week-end con loro, a Baltimora, e avevo impiegato una settimana a riprendermi dall’esperienza. La parola ordine non era compresa nel loro vocabolario, e la loro incompetenza nelle faccende domestiche, anche quelle più semplici, era colossale. Non capivo come faceva la loro cameriera a sopportare tutto quanto. Certo, i genitori pagavano bene, ma non ero sicura che ne valesse la pena.

“Non ti preoccupare, non vi accorgerete nemmeno della nostra presenza” ci rassicurò Ross.

Tirai un sospiro, rassegnata; avrei tanto voluto vederli andar via, ma sapevo che era impossibile. Se quei tre avevano deciso di rimanere, niente e nessuno li avrebbe fatti desistere dal loro intento. Quindi, lamentarmi sarebbe servito a poco; anzi, si sarebbe rivelato totalmente inutile.

 

Dopo aver accolto i tre guastafeste, dovevo essermi riaddormentata. Mi risvegliai nel mio letto, mentre fuori dalla finestra il cielo si stava tingendo di rosso, e una brezza leggera scuoteva i rami e le foglie di cespugli e alberi.

Un brivido mi corse lungo il corpo non appena scostai le coperte. Presi il telefono dal comodino per controllare l’ora, e notai due chiamate perse. Fui percorsa da un secondo brivido, non appena lessi il nome di mio padre. Non potevo crederci. Forse solo un paio di ore erano trascorse dal loro arrivo, ed Alex aveva già informato i nostri genitori?

 

“Ehi, ti sei svegliata”

Nick entrò nella stanza e si sedette accanto a me. Mi posò una mano sulla fronte per qualche secondo, quindi esibì un sorrisetto: “Sei sicura di avere la febbre? Non è che stai evitando qualche esame?”

Gli diedi un pizzicotto sul braccio, facendolo imprecare; era ormai diventata una specie di abitudine per lui prendermi in giro, dopo quella volta che avevo finto di essere malata per saltare il compito di chimica.

“Era solo una domanda” si lamentò massaggiando il braccio.

“Perché avete telefonato a mio padre?” scrissi sul cellulare.

“È stato lui a chiamare noi. Voleva sapere se avevamo tue notizie, visto che tu non lo aggiorni mai” la nota di rimprovero in quelle parole era molto evidente.

“Ho i miei motivi”

Nick sospirò, stendendosi sul letto: “Oh, certo. Ma ricorda… Stai solo peggiorando la situazione e rimandando l’inevitabile”

  
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