Storie originali > Azione
Segui la storia  |       
Autore: Bess Black    18/09/2013    23 recensioni
Nathalie, alla sola età di diciassette anni, si trova in un carcere minorile ad alta sicurezza e da più di un anno ormai.
Insieme ad alcune compagne di cella ed alcuni amici tenterà un evasione, ma è impossibile superare FBI, Militari, CIA e Servizi Segreti.
Ed è qui che iniziano i sospetti: telecamere di sorveglianza ad orario continuato, pasti selettivi, controlli rigidi, divieto di ogni comunicazione con l'esterno.
Dal testo:
«Non ci pensare nemmeno.» Mi minaccia il Militare Black secco, alle mie spalle.
Non mi volto, ma non torno nemmeno indietro.
«D'accordo.» Soffia irritato, esattamente dietro di me. «Mettiamola così, bellezza.»
Odo qualche colpo duro, rigido e metallico, fino a quando non sento la canna fredda di una pistola tra le scapole.
Trattengo il respiro e inarco la schiena, involontariamente.
«Tu scappi, io sparo.»
Genere: Azione, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
 
Image and video hosting by TinyPic



 
Prefazione

La battaglia di Kodiak (stato dell'Alaska), del 2075, fu il primo scontro militare diretto tra Stati Uniti e Russia.
Durò circa sei mesi e dopo decenni e decenni di propaganda, di trattati e compromessi, di manovre pacifiste e tattiche offensive e controffensive, una delle due potenze mondiali riuscì a vantare una supremazia nelle strategie militari.
La notizia della vittoria delle truppe russe, infatti, riuscì a ribaltare le aspettative mondiali ed occupò la prima pagina degli iJournal per tutto il mese Settembre e per  buona metà di Ottobre.
Ma in una società in cui il progresso scientifico aveva preso il posto di quello storico, la guerra non era altro che il lato più formale. Quella che ora non si poteva più definire Storia, amava presentarsi come Evoluzione: un capolinea di ciclica autodistruzione. 




 
0.
L'Origine


 
3 Settembre 2075 - San Pietroburgo, Russia

   L'intera cittadinanza pietroburgese si era riunita, con tutto il suo patriottismo, nella piazza di fronte alla chiesa del Salvatore a festeggiare, sotto i fuochi d'artificio, la vittoria della battaglia di Kodiak.
In una delle file ammassate esattamente davanti alla navata laterale vicino al ponte, una ragazzina, poco più che bambina, sventolava in punta di piedi la bandiera russa; il petto sporto in avanti per mettere in mostra la maglietta dell'accademia militare del fratello - il quale, oltretutto, aveva condotto con successo la battaglia di Kodiak - e un impavido sguardo maturo e fiero.
   La piccola Nastja aveva disobbedito ai gentori, i quali le avevano severamente proibito di uscire, ed era sgattaiolata fuori da Manor Dostoevskij, distraendo maggiordomo e guardie, e manomettendo il sistema di sicurezza. Era corsa per strada, in preda all'euforia, urlando a squarciagola tutto l'entusiasmo: «мы выиграли! Abbiamo vinto! мы выиграли
Ora, nel bel mezzo di migliaia e migliaia di persone perlopiù sconosciute, la dodicenne si unì al coro cantando l'inno nazionale.

 
«Россия — священная наша держава,
Россия — любимая наша страна.
Могучая воля, великая слава —
Твоё достоянье на все времена!
Славься, Отечество наше свободное,
Братских народов союз вековой,
Предками данная мудрость народная!
Славься, страна! Мы гордимся тобой

   Mentre da una parte e dall'altra dell'Oceano Pacifico la guerra faceva congratulazioni e condoglianze, la definita Lotta per il Progresso si faceva largo in sedici zone del pianeta sotto forma di Caso, un fenomeno di continue congetture coincidenti.
   Quella notte tra il tre ed il quattro Settembre, la piazza davanti alla chiesa del Salvatore sul Sangue Versato ospitava più di novecentocinquantatremila persone.
   Quella notte, Nastja Michajovna Dostoevskij sparì per sempre e nessuno ne ebbe mai più alcuna traccia.







Venticinque anni prima



 
Il punto di Partenza
I Capitolo

 
Maggio 2050 - Nord Nevada, Stati Uniti d'America

   «Casa Downey.»
La cameriera.
   «Anne, ho meno di sette minuti. Chi c'è a casa?»
   «Signorina Nathalie!»
La sua vocina stridula e sovreccitata mi costringe ad allontanare la cornetta del telefono dall'orecchio.
   «Non ho tempo, Anne.» Chiarisco subito. «Ho bisogno di parlare con...»
   «Vado subito a chiamare sua madre!» Strilla. «Non sa quanto è in ansia per lei...!»
   «No! La mamma no, Anne! Non ho tempo...»
Mi ha messa in attesa.
Dannazione.
Il cronometro sopra il tavolino d'acciaio segna i sei minuti esatti: ho già perso il settimo ed inutilmente. 
  Quel cronometro è più teso di me, isterico quasi; trascina e risucchia il tempo senza pietà: ancora non ha finito di annientare un secondo che già ne sta arpionando un altro, sotto i miei occhi.
Le mani mi sudano: la sinistra scivola sulla cornetta e, ignorandone il tremolio, l'asciugo sulla divisa bianca e pulita. Stringo più saldamente la cornetta metallica del telefono e tento di distogliere lo sguardo dal cronometro abbassandolo sul tavolino. Cerco di sciogliere il pugno che la mia mano destra ha stretto nel tentativo di raccogliere e rinchiudere la tensione. 
   Sospiro e rialzo lo sguardo sulla parete che ho davanti: spoglia, omogenea e - non nera o scura - ombrosa.
Un brivido mi punge lungo la nuca facendomi venire la pelle d'oca. La stessa reazione da mesi alla molesta sensazione di essere sempre, perennemente e continuamente osservata.
Spinti da una dinamica involontaria, i miei occhi scattano - agili, lesti - in direzione della lucina verde della telecamera nell'angolo della stanza.
   «Pronto? Nathalie, sei tu?»
Lo sguardo mi ricade sul cronometro: cinque minuti e una ventina di secondi.
   Sospiro. «Sì, mamma, sono io.»
   «Oh, tesoro! Come stai? Com'è il tempo da quelle parti? Ancora insistono con quelle divise? Non ci hanno permesso di mandarti un cambio e nemmeno le lettere...»
   «Mamma, senti...»
   «...Ho temuto non ti concedessero alcuna comunicazione questo mese...»
   «Mamma...»
   «Vero, George? Diglielo! Sono sempre più rigidi riguardo alle consegne esterne...»
Quattro minuti.
   «Mamma!» Urlo senza impedirmi di battere un pugno contro la superficie fredda e metallica del tavolino. «Non ho tempo! Io... sto bene, d'accordo? Sto bene. Ora potresti passarmi Alex? Per favore
Ammutolisce.
Con la coda dell'occhio noto la lucina verde della telecamera di sorveglianza lampeggiare.
    «Mamma... ci sei?»
    «Sono papà, Nathalie.» Il suo tono è regolare, la voce è controllata. «Alex non c'è. Ci siamo solo io e la mamma.»
Sento la mamma singhiozzare a poca distanza, ma non gli dico di passarmela: non sono in condizioni di sopportare la sua teatralità.
   Scuoto il capo, scrollando e smuovendo i capelli: sette minuti, ci concedono sette minuti al mese per telefonare a casa e io riesco sempre a chiamare nei sette minuti sbagliati.
Giro intorno alla sedia adiacente al tavolino - sulla quale oltretutto, in teoria, dovrei sedermi - e cerco di fare il punto della situazione, più che altro per impedirmi di urlare, sbraitare e inveire contro i miei genitori.
   «Ascolta, devi fare qualcosa! L'avvocato che mi hai mandato è un completo fallito!»
   «Stewart sta facendo del suo meglio...» Inizia lui.
Tre minuti.
   «No!» Protesto con voce isterica. «Non è vero!»
   «Nathalie, stiamo tutti facendo del nostro meglio per aiutarti, Stewart per primo. Hai bisogno di lui...»
  «Ho bisogno di un buon avvocato!» Grido indignata contro la cornetta. «Dannazione, papà, hai i soldi per un carcere minorile privato e non per un avvocato decente...?!»
I singhiozzi della mamma sono più forti. Vorrei che la smettesse.
Due minuti.
   «Si sistemerà tutto, Nath. Ti aiuteremo ad uscire di lì.»
Scalcio la sedia facendola ribaltare e poi cadere con un tonfo.
Da mesi la stessa frase, la stessa promessa e l'inevitabile delusione. Sono così disperata che vorrei credergli, vorrei che non avesse quella voce monocorde e quel tono spento, vorrei che la smettesse con quelle pause riflessive tra una frase e l'altra e con quei sospiri spezzati tra le parole. 
Non è da lui tanta arrendevolezza.
   «Noi stiamo facendo il possibile, ma dipende anche da te.»
   Mi sfugge una risatina isterica. «Da me?! Cosa dovrei fare, eh? Cosa potrei mai fare rinchiusa in un carcere minorile, sorvegliato da FBI, CIA, Militari e Servizi Segreti?!»
Un minuto.
  Passo la manica della divisa sulla fronte sudata nel tentativo di spostare qualche ciuffo all'indietro. Mamma e papà bisbigliano tra loro; lui è discreto e pacato, lei invece non proprio: le parole le inciampano ancora nei singhiozzi e tra loro, mentre tentano di primeggiare su quelle di papà. Stanno litigando. Loro non litigano mai.
   «Papà!» Tento d'interromperli.
   Si schiarisce la voce, ma aspetta qualche secondo prima di riprendere a parlare. «Devi avere fiducia, Nathalie. Fidati di noi. Fidati di Stewart e ascolta tutto quello che ti dice: segui i suoi consigli e presto potrai tornare a casa.»
Tempo scaduto.
   La telefonata s'interrompe nell'esatto istante in cui il cronometro retrocede a zero minuti e zero secondi, come se papà fosse lì con me ad assistere a quello straziante conto alla rovescia ed avesse scelto con cura parole e pause.
Eppure sono sola. Ferma al centro di una stanza vuota, fredda e troppo illuminata, in un carcere minorile del nord Nevada. Ferma ad ascoltare un bip-bip-bip, perenne inno del mio esilio.
È ingiusto.
Ed è la più frustrante delle umiliazioni quella che mi costringe a sbattere la cornetta del telefono contro il tavolino e scalciare quest'ultimo contro la parete adiacente.
   «Mmm... Sei violenta.» Constata una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare. «Ora che ne dici di tornare in cella, tesoro?»
Sento la porta della Stanza delle Comunicazioni scorrere e scivolare contro il muro, ancor prima di girarmi.
Raddrizzo la schiena ed alzo il viso.
   Quando mi volto, un paio di occhi verdi mi scrutano curiosi, sotto le sopracciglia inarcate fino allo scetticismo. Abbasso lo sguardo sulla sua divisa da militare, fermandomi sulle tre stelle dorate appuntate sul petto, poco sopra la bandierina statunitense.
   «Su, da brava.» Mi incita sornione, facendomi un occhiolino. «Non costringermi a venirti a prendere.»
Mi mordo la lingua nello sforzo di non ribattere. Stringo i pugni sui fianchi e avanzo verso la porta scorrevole della Sala Comunicazioni.
   Oltre la soglia, il Militare - senza smettere di sorridere tra sé - inizia ad armeggiare con l'Identificatore. Gonfio il petto e alzo un poco il mento non appena noto le sue spalle dritte, le gambe parallele e la sua postura sull'attenti. Gli porgo il polso sinistro sul quale è presente il Bracciale di Distinzione, prima che possa chiedermelo.
Punta l'Identificatore contro il Codice stampato sul Bracciale, aspetta il Riconoscimento, poi lo mette subito via.
Nemmeno un istante dopo un paio di manette mi arpionano mano destra e sinistra. È la prassi, la stessa da sempre, ma non riesco a mascherare il mio disappunto. Non che non sia brava a fingere, forse il mio intento non è nemmeno nasconderlo, forse quello che voglio è che una di quelle guardie, incollate dietro le telecamere di sorveglianza si accorga di quanto sia ridicolo ammanettare una diciassettenne disarmata in un carcere minorile ad alta sorveglianza isolato a chilometri e chilometri dai centri abitati.
   Il Militare punta l'angolo trasparente dell'Identificatore contro il proprio pollice sinistro. Sul piccolo schermo compare la sua foto e al fianco la scritta: "James Black - USA Militar Service", esattamente sotto tre stelle. Iniziano a scorrere una serie di dati tra cui il suo peso, altezza, pressione, temperatura, codice genetico...
   Sbatto un paio di volte le palpebre, poi rialzo lo sguardo su di lui. «Dov'è l'agente Chung?» Chiedo, guardandolo male. Era stata l'agente dell'FBI Chung ad accompagnarmi alla Sala Comunicazioni, immaginavo che, come sempre, mi avrebbe aspettata e riportata in cella.
   Non risponde. Mi ha sentita, ne sono certa, ma non risponde.
Mi si dilatano le narici dall'intensità con la quale inspiro aria, nel tentativo di non innervosirmi - o, per lo meno - di non darglielo a vedere.
   «Dov'è l'agente Chung?» Ripeto a denti stretti.
Il Militare Black mette via l'Identificatore, con una smorfia di disappunto, poi rialza il capo e mi guarda, ora più annoiato.
   «È andata ad accompagnare la tua amichetta in infermeria...» Sbotta digitando un codice sullo schermo della parete in seguito al quale scattano le serrature delle porte del corridoio. « ... Di nuovo.»
   «Lily?» Sobbalzo sul posto, allarmata. È la quinta volta nella settimana che Lily si sente male. I miei occhi scattano verso le telecamere di sorveglianza e Black se ne accorge, anche se non dice nulla. 
   «Che cos'ha?» Lo incito allora a proseguire.
Non risponde di nuovo e - anche se ho posto ugualmente la domanda - non mi aspettavo davvero che lo facesse.
   Sbuffo, facendo qualche passo in avanti senza il suo consenso. L'infermiera era stata chiara l'altro giorno: se Lily avesse continuato a stare male, l'avrebbero trasferita. Però, se riuscissi a raggiungere l'agente Chung prima che arrivino... 
   «Non ci pensare nemmeno.» Mi minaccia secco, alle mie spalle.
Non mi volto, ma non torno nemmeno indietro. L'infermeria è solo ad un paio di corridoi dalla Sala Comunicazioni.
   «D'accordo.» Soffia irritato, esattamente dietro di me. «Mettiamola così, bellezza.»
Odo qualche colpo duro, rigido e metallico, fino a quando non sento la canna fredda di una pistola tra le scapole.
Trattengo il respiro e inarco la schiena, involontariamente.
   «Tu scappi, io sparo.»






   
 
Leggi le 23 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Azione / Vai alla pagina dell'autore: Bess Black