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Autore: Cassidy_Redwyne    19/09/2013    5 recensioni
Quattro amiche diversissime fra loro, eppure inseparabili, vengono a conoscenza del prestigioso liceo di St. Elizabeth. In cerca di una nuova sistemazione scolastica, le ragazze decidono di iscriversi, del tutto ignare di ciò che le attende all’interno dell’istituto.
L’aspetto e il comportamento degli studenti, infatti, sono davvero bizzarri, per non parlare di quei quattro affascinanti ragazzi in cui le protagoniste si imbattono durante i primi giorni di scuola… si tratta di un colpo di fulmine o di un piano magistralmente architettato alle loro spalle?
Tra drammi adolescenziali e primi batticuori, le quattro sono pronte a smascherare una volta per tutte il segreto che si cela fra le mura del misterioso istituto.
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«Kia, dai, aprila!»

«Che aspetti?!»

«Aprila, dannazione!»

«Va bene, va bene» borbottai sbuffando, rigirandomi la busta fra le mani.

Infine era arrivata. La lettera che avrebbe sancito la mia ammissione al nuovo liceo.

Alzai gli occhi sui miei quattro amici, che parevano più emozionati di me, seduti in cerchio nel soppalco del fienile della fattoria.

Mio padre stava lavorando nei dintorni e, vedendoci in quella posizione che ricordava vagamente l'inizio di un rito satanico, ci aveva scoccato un'occhiata perplessa, ma si era saggiamente astenuto dal fare commenti. Aveva solo spostato i capretti in un altro recinto, così, per sicurezza.

Camila era seduta in braccio a George e si dimenava in preda all'emozione, mentre sul volto di lui si delineavano smorfie più sofferenti. Fortunatamente lei non poteva vedere la sua faccia o gliele avrebbe cantate, rendendo l'espressione dolorante che in quel momento il mio amico aveva stampata in faccia il ritratto della felicità.

Leo era seduto accanto a loro a gambe incrociate, con gli sbarazzini capelli neri che gli arrivavano fin sugli occhi, ma che non riuscivano a nascondere lo scintillio furbetto che aveva sempre nello sguardo.

E poi Beth, la mia Beth, seduta appena un po' in disparte, come se non riuscisse a farsi del tutto coinvolgere dall'entusiasmo degli altri, con una lettera identica alla mia fra le mani. Sorrideva, ma era un sorriso che non arrivava fino agli occhi. Dopo quella faccenda, pensai con un sospiro, non era più la stessa.

Leo mi passò un coltello con aria solenne e beccai mio padre a fissarci.

«Devo portare via anche gli agnelli?» lo sentì chiedere in tono allarmato.

«FALLA FINITA!»

Abbassai gli occhi sulla lettera con uno sbuffo esasperato e aprii la busta, estraendo il foglio che c'era all'interno. Lo srotolai sotto gli occhi incuriositi dei miei amici ed iniziai a leggere ad alta voce.

«"Signorina Ross Kia, abbiamo preso in considerazione la sua richiesta di trasferimento nel nostro istituto. Le comunichiamo che è stata ammessa... "» alzai gli occhi su di loro, senza riuscire a trattenermi dall'esclamare: «Sono stata ammessa! Sono stata ammessa!»

«UOOOOOOH!» gridò Camila, mulinando le braccia.

«AHI!» fu l'unico commento di George.

«Avevi dubbi?» fece Leo, visibilmente divertito da tutto quell'entusiasmo.

«Forza!» esclamai, rivolta a Beth. «Aprila!»

Vedendo che la ragazza sembrava non avermi sentito, afferrai della paglia e gliela scagliai dritta in faccia.

«KIA!» protestò lei, a cui sfuggì un violento starnuto, che fece scoppiare tutti a ridere.

Beth si ripulì alla bell'e meglio i lunghi capelli corvini dalla paglia e, dopo avermi scoccato un'occhiata omicida, passò all'apertura della sua lettera.

«Vuoi il coltello?»

«No, grazie. Non finché c'è tuo padre in giro» rispose lei, abbassando lo sguardo sulla parte sottostante del fienile. «Sta continuando a guardarci come se dovessimo sgozzare qualcuno da un momento all'altro.»

Scollò l'apertura della busta, aprì il foglio e fissò il suo contenuto con la fronte aggrottata così a lungo che noialtri iniziammo a scambiarci delle occhiate esitanti.

«Sono stata ammessa» mormorò infine lei, abbassando la lettera e permettendomi così di scorgerle il volto. Il suo tono era neutro, ma il gran sorriso che le era apparso sul volto stavolta era sincero.

«SÌ! SI PARTE!» esclamai, gettandole le braccia al collo.

Cademmo entrambe all'indietro, rotolando nella paglia tra le risate generali, quando un orribile scricchiolio ci fece ammutolire.

«Oh merda» dissi. Poi il soppalco crollò sotto di noi.

Precipitammo con un urlo, ma la caduta fu breve e priva di pericoli, poiché atterrammo sul morbido, sulla cima di un imponente mucchio di paglia.

Dopo aver appurato di essere tutte intere, Beth ed io ci scambiammo uno sguardo e scoppiammo a ridere come matte. La ragazza era coperta di truciolo dalla testa ai piedi, con i capelli tutti scarmigliati, e qualcosa mi diceva che il mio aspetto non doveva essere molto diverso.

Mio padre era accanto a noi, con il forcone in mano, che ci fissava con gli occhi strabuzzati. Borbottò qualcosa a proposito dei malsani effetti dell'evocazione del diavolo e si allontanò a passo veloce, continuando a lanciarci delle occhiate sospettose da dietro la spalla.

Continuando a ridere, rivolsi uno sguardo al soppalco: nel punto in cui le travi di legno avevano ceduto era apparso un buco dai contorni irregolari, dal quale ben presto spuntarono le teste dei miei amici, che ci scrutarono per accertarsi che fossimo ancora vive.

«Tutto sotto controllo!» li informò Beth ridendo, alzando il pollice nella loro direzione.

A quel punto anche i miei amici stavano ridendo a crepapelle e, in un soffio, realizzai che di lì a poco non li avrei più visti per chissà quanto. Un groppo di nostalgia mi attanagliò la gola.

«Mi mancherete» esclamai, mettendomi di scatto a sedere, gli occhi rivolti in alto, fissi su di loro. L'entusiasmo vacillò per un momento nei loro occhi e capii che per loro era esattamente lo stesso.

Certo, avevamo pensato spesso all'eventualità che ci saremmo dovuti separare, se Beth ed io fossimo state ammesse al liceo di St. Elizabeth, che si trovava in Northumbria, a chilometri e chilometri da Londra. Ma ora, con la lettera fra le mani, con la certezza che saremmo andate via, era tutto dolorosamente reale.

«Vi chiameremo!» affermò Camila.

«Così tanto che vi verremo a noia» rincarò la dose George.

Mi sforzai di sorridere, ma la verità era che avrei voluto che tutti e tre venissero con noi. La scuola della nostra cittadina, dopotutto, sarebbe rimasta chiusa anche quell'anno, finché non avessero riparato il soffitto, crollato l'anno prima. Se non ci era caduto sul cervello, mandandoci tutti all'altro mondo, tra l'altro, era stato un vero miracolo.

L'anno prima, per una serie di improbabili coincidenze, eravamo finite alla Royal High School, la scuola privata più prestigiosa di tutta Edimburgo, ma le sue tasse andavano decisamente oltre la nostra portata.

Quell'anno, sia io che Beth avevamo sperato di poter frequentare il liceo a Londra – non nella soffocante parte in cui abitavamo noi, che di Londra aveva solo il nome, ma possibilmente nelle prime, allettanti zone – ma frequentare una scuola nella capitale richiedeva un affitto che nessuna delle due poteva assolutamente permettersi.

Confrontandoci con la nostra amica scozzese Arianna, anch'essa in cerca di una nuova sistemazione scolastica, ci eravamo poi imbattute nel liceo di St. Elizabeth. Era semplicemente perfetto: abbastanza lontano da Londra perché potessi dire con una certa fierezza che frequentavo una scuola lontano da casa, ma allo stesso tempo accessibile economicamente.

Nell'inviare la richiesta d'iscrizione, Beth ed io non avevamo avuto un attimo di esitazione. Eravamo sempre state sulla stessa lunghezza d'onda, dopotutto. Avevamo fame di novità, di nuove esperienze, e non ne potevamo più della campagna inglese che, in quanto ad arretratezza culturale, pareva rimasta ferma a cinquant'anni fa.

Quello che non avevo messo in conto, però, era che i miei amici non sarebbero stati dello stesso avviso. Non avevano tutta questa fretta di allontanarsi da casa: molto probabilmente avrebbero dovuto farlo per l'università e quindi, dopo aver appurato che il nostro liceo, a Enfield, non avrebbe riaperto neppure quell'anno, avevano deciso di ripiegare su uno nelle vicinanze. Questo significava che ci saremmo potuti vedere solo durante le vacanze, quando avremmo fatto ritorno a casa.

Sospirai rumorosamente e, vedendo che Leo mi stava fissando con una certa insistenza, mi affrettai a distogliere lo sguardo.

«Kia, lo vedo da qui che hai gli occhi lucidi» osservò, sogghignando.

«Ma no» ribattei, affrettandomi ad asciugarmi gli occhi con l'orlo della manica e maledicendo la sua vista di falco. «Mi è solo finito un filo di fieno nell'occhio.»

****

Beth si infilò le cuffie nelle orecchie e diede una rapida occhiata al suo lettore musicale: Hello Goodbye dei suoi amati Beatles, seguita da One Day I'll Fly Away, da uno suoi musical preferiti, Moulin Rouge!.

Beth inarcò un sopracciglio. Non poteva certo dire che la riproduzione casuale non possedesse senso dell'ironia.

Dopo aver dato l'avvio alla canzone, si incamminò sul vialetto diretto verso casa sua, il vento che le scompigliava i lunghi capelli corvini.

Voltandosi, poteva scorgere i contorni della casa di Kia e del suo fienile, la stessa vista che vedeva ogni giorno, da quando lei e la sua famiglia si erano trasferiti nella casa accanto a quella dell'amica. Provò una strana emozione all'idea che, di lì a poco, non avrebbe più visto quel paesaggio di campagna per un bel po'.

Stavano per partire. Finalmente. Certo, sarebbero sempre finite in un paesaggio di campagna, ma, se non altro, sarebbero stata lontane da casa. Beth sognava Londra – quella vera, non certo Enfield – , Liverpool, l'Europa, ma sapeva che al momento i suoi genitori non potevano permettersi nulla di tutto ciò. Sarebbe partita alla volta del mondo, sì, ma a piccoli passi.

Oltre al desiderio di vedere il mondo, poi, Beth era spinta anche da altre necessità: aveva disperatamente bisogno di stravolgere la sua vita, in quel momento. Sentiva che sarebbe impazzita, se fosse rimasta lì, dopo tutto quello che era successo.

I suoi amici si erano accorti di quanto fosse cambiata e poteva percepire i loro sguardi apprensivi su di sé, primo fra tutti quello di Kia: condividevano il suo dolore, certamente, ma solo fino ad un certo punto. Non potevano spingersi oltre, in un lutto per una persona a cui avevano solo voluto bene. Ma il suo ricordo era ovunque, insieme alle malelingue della gente di campagna, e Beth voleva solo lasciarsi tutto alle spalle.

Ricominciare con Kia dopo come l'aveva trattata, ecco quello che doveva fare. Sentiva che la nuova scuola, il prestigioso liceo di cui Arianna aveva loro parlato, sarebbe stata l'occasione perfetta. Sarebbero state migliori amiche di nuovo, senza più segreti, proprio come ai vecchi tempi.

Beth chiuse gli occhi per un attimo, la voce calda di John Lennon che le riempiva le orecchie ed il cuore, e continuò a camminare verso quella che sarebbe stata casa sua ancora per un paio di giorni soltanto.

****

«Signorina, ha un momento?»

Quando udì Otis, il maggiordomo di casa sua, tamburellare con le dita sulla sua porta, Arianna si stava truccando allo specchio a parete della camera.

La ragazza trattenne uno sbuffo d'irritazione e abbassò lo scovolino del mascara, lanciando un'occhiata al suo orologio da polso. Si sarebbe dovuta incontrare con Margaret tra tre ore e si stava truccando da una e mezzo, ma quell'interruzione avrebbe scombussolato tutti i suoi piani. Sbuffò. Adesso avrebbe sicuramente fatto ritardo.

«Signorina Arianna?» ripeté Otis, tamburellando un po' più forte.

«Arrivo!» fece lei, abbandonando a malincuore i trucchi sulla scrivania per andare ad aprire.

«Che succede, Otis?»

Il maggiordomo era ritto sulla soglia della sua camera e, quando la ragazza ebbe aperto la porta, lui le porse una lettera senza dire una parola.

Arianna la prese fra le mani, che avevano improvvisamente cominciato a tremarle. Se si trattava davvero di lui... non ebbe il coraggio di guardare il mittente.

Con il cuore che le batteva forte nel petto, strinse la lettera fra le dita e ringraziò Otis con un cenno del capo.

Osservò per un lungo attimo il maggiordomo allontanarsi lungo il corridoio e poi giù per le scale, scorrendo con le dita il lucido corrimano d'ottone, e poi richiuse la porta della sua camera.

Solo allora, con il battito del cuore che le rimbombava nelle orecchie, Arianna si decise ad abbassare gli occhi sulla busta. No, non era lui, realizzò in un soffio. Era il liceo di St. Elizabeth.

Arianna inghiottì il boccone amaro della delusione e sentì il suo corpo afflosciarsi contro la porta chiusa della camera. Di colpo, neanche la prospettiva che avrebbe fatto ritardo al suo appuntamento con Margaret le parve più di alcuna importanza. Come aveva anche solo potuto pensare che potesse trattarsi di lui? Non le aveva più scritto una parola da quando era partito per l'America, perché scomodarsi a spedirle una lettera?

Poggiò la nuca contro la porta e stava facendo appello a tutto il suo autocontrollo – ne aveva parecchio – per non piangere, quando una voce calda si levò all'improvviso dall'ala est della casa, così chiara e squillante che poteva udirla chiaramente, malgrado la porta chiusa.

Sua madre, realizzò Arianna, tornando bruscamente alla realtà. Stava provando, accompagnata dal pianoforte di suo padre, e cantava in un francese che avrebbe fatto invidia ad un madrelingua. Dopo qualche attimo, la ragazza si rese conto di conoscere l'opera su cui la madre si stava esercitando. Era la Carmen.

Arianna chiuse gli occhi e si abbandonò alla melodia. Le parole di sua madre sembravano penetrare attraverso i muri della casa, in un'aria che Arianna trovò dolorosamente vicina alla sua situazione.

L'amour est l'enfant de Bohême,
Il n'a jamais, jamais connu de loi;

Si tu ne m'aimes pas, je t'aime;
Si je t'aime, prends garde à toi!

Si tu ne m'aimes pas, je t'aime; 
Mais si je t'aime, si je t'aime...

Prends garde à toi!*

Arianna aveva amato. La ferita che sentiva al petto ogni volta che pensava alla sua partenza ne era la dolorosa certezza. Ma lui... non era così sicura che Jake avesse ricambiato fino in fondo il suo sentimento. Finché lui era corso dietro a lei e alla sua reputazione di ragazza più popolare della scuola, Arianna era stata certa di averlo in pugno. Ma poi i ruoli si erano bruscamente invertiti: Arianna pregava per avere un briciolo d'attenzione da lui, che era diventato sempre più sfuggente. Alla fine, quel ragazzo di cui si era perdutamente innamorata l'aveva lasciata per Kia. L'amore era davvero un piccolo mascalzone.

Arianna si alzò in piedi con un sospiro, allontanandosi dalla voce di sua madre e, con lei, dalla sua vita precedente. Si era interrogata a lungo sulla ragazza che, con tutta probabilità, quell'anno sarebbe venuta a scuola con lei ed era giunta alla conclusione che no, non ce l'aveva con Kia. Arianna non era solita portare rancore: non era mica come quella sua scalmanata e violenta compagna di classe alla Royal High, Angie. Al pensiero che anche lei si sarebbe trasferita con loro, si sentì impallidire.

Arianna si sedette alla scrivania, afferrò le forbici dall'astuccio e aprì la busta con precisione chirurgica. All'interno, come aveva immaginato, c'era la sua lettera di ammissione. La scorse rapidamente con gli occhi, senza trovarvi grandi sorprese.

Era stata ammessa – ovviamente – e, secondo l'istituto, non c'erano problemi a entrare a scuola a quattordici anni: avrebbe solo dovuto sostenere un test d'ingresso, nient'altro che una formalità. Arianna abbassò il foglio sulla scrivania. Era ufficiale, sarebbe partita.

All'inizio, i suoi genitori avevano opposto resistenza: come il fratello maggiore Finn, Arianna avrebbe dovuto frequentare solo le migliori scuole di tutta la Scozia, ma alla fine i suoi erano stati felici di scoprire che anche il St. Elizabeth godeva di grande prestigio, sebbene le sue tasse fossero meno astronomiche di quelle della Royal High. Il che li aveva resi altrettanto lieti.

Arianna sospirò. Cambiare scuola avrebbe significato lasciarsi tutto alle spalle: la popolarità, Jake, l'America e tutto il resto. Era l'occasione perfetta per ricominciare senza di lui, senza la sua reputazione che la precedeva ovunque andasse. Arianna sorrise a fior di labbra. Sì, sarebbe stata una persona diversa.

Riprese in mano il mascara e ricominciò a truccarsi, non prima di aver lanciato un'altra occhiata all'orologio. Il primo passo per essere una persona nuova poteva essere quello di impiegare meno di cinque ore per prepararsi.

Si morse il labbro quando lo scovolino sbaffò, disegnandole una minuscola macchiolina nell'angolo dell'occhio destro, e lei si interruppe per pulirla con lo struccante.

Sarebbe stata dura.

****

Angie sputò a terra sprezzante e Daniel ritrasse istintivamente le gambe, rannicchiandosi contro il muro e cercandosi di fare piccolo piccolo. Il segno lasciato dal pugno che la ragazza gli aveva assestato in pieno volto stava diventando violaceo.

«Hai capito chi comanda qui, adesso?»

La figura della ragazza bionda torreggiava su di lui.

Daniel si affrettò ad annuire, gli occhi pieni di lacrime, il volto sporco di terra e sangue.

«Bene» mormorò lei, abbozzando un sorriso soddisfatto. «Toglietemelo da davanti.»

Si fece da parte per fare spazio a Frank e Chris che, incuranti delle sue proteste, sollevarono il ragazzo di peso e lo condussero verso l'uscita del vicolo. Le sue urla presto furono solo un fastidio brusio in lontananza.

Angie incrociò le braccia al petto, sospirando rumorosamente. Quel deficiente di Daniel e la sua gang avevano deciso di appropriarsi del suo territorio, quando erano mesi che la sua banda controllava il sobborgo di Ballyfermot, nella zona ovest di Dublino. Evidentemente credeva di potersene approfittare solo perché lei, al contrario loro, aveva le tette, ma c'era voluto poco per ristabilire la gerarchia.

Quando udì lo schiocco di un accendino alle sue spalle, si rese conto che Joe era rimasto dietro di lei e si voltò di scatto verso il suo numero due.

«Che vuoi?» lo apostrofò, tradendo un sorriso colmo d'affetto.

L'alto ragazzo moro guardò verso l'uscita del vicolo e sospirò, aspirando una lunga boccata.

«Mi ha chiamato Sean.»

Angie lo inchiodò con lo sguardo, confusa. Perché diavolo suo fratello l'aveva chiamato?

«Ti è arrivata la lettera.»

Angie lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e sgranò gli occhi.

«Gesù» disse.

 

Raggiunsero la casa di Angie di soppiatto, Frank e Joe in testa, Chris che le copriva le spalle. Se sua madre avesse visto com'era conciata, stavolta sarebbero stati guai seri: con i capelli ricci ritti in testa come un cespuglio, i pantaloni e la maglia strappati e sporchi di un sangue che non era il suo, sarebbe stata dura inventarsi una scusa credibile.

Si appostarono in giardino, sotto la grande finestra della cucina, sbirciando verso l'interno. Angie tirò un sospiro di sollievo nel vedere che c'era solo Sean. Il minore dei suoi fratelli stava bevendo un bicchiere di latte e teneva d'occhio il giardino, forse in attesa proprio di scorgere lei.

Angie picchiettò con il dito contro il vetro e Sean incrociò il suo sguardo, rivolgendole un sorriso d'intesa. La ragazza osservò il fratello poggiare il bicchiere vuoto nel lavello, afferrare una busta bianca dalla tavola e poi avvicinarsi alla finestra. La aprì quel poco che bastava a farle scivolare la lettera fra le mani.

«Fred e Nathan stanno distraendo la mamma» le bisbigliò, prima di richiuderla.

Angie sillabò un "Grazie" e poi si voltò verso i suoi amici, dai cui volti la tensione era palpabile.

Strappò la busta come se si fosse trattata dei capelli di Daniel, poco prima, e scorse rapidamente il contenuto della lettera.

«Ehi» mormorò sorpresa, alzando gli occhi. «Ma non è la denuncia!»

«Che cosa?» esclamò Chris, a bocca aperta.

«No» rispose lei, studiando la lettera da ogni angolazione. «È della scuola, quella nuova.»

Angie tirò un sospiro sollievo. A quanto pare, i poliziotti non erano ancora riusciti ad identificare chi aveva rubato l'auto dei Byrne, la settimana prima. Meglio per lei, che avrebbe evitato le ire dei suoi genitori ancora per un po'.

«Sean mi ha fatto prendere un colpo...» borbottò, lanciando uno sguardo torvo in direzione della finestra.

«Che idiota» commentò Frank, scuotendo la testa.

«Be', già che ci sei, leggila» propose Chris, facendo spallucce.

Angie annuì, abbassando gli occhi sul foglio. In realtà aveva già letto rapidamente il contenuto quando aveva aperto la busta, ma voleva studiare la reazione dei suoi amici. Rimase immobile e zitta per un bel po', in teatrale concentrazione e, quando alzò gli occhi su di loro, la ragazza soffocò a stento una risatina, nel vedere che erano tutti in ambasce.

«Vuoi una mano a leggerla?» la prese in giro Joe dopo un po', rompendo quel silenzio d'attesa.

Per tutta risposta, lei lo fulminò con lo sguardo. Era una teppista, non una cavernicola. Anzi, a dirla tutta, Angie era una studentessa brillante: era solo così che aveva potuto frequentare per due anni la prestigiosa Royal High School, in Scozia, senza sganciare un soldo.

Peccato che l'ultimo anno non le avessero rinnovato la borsa di studio e per giunta l'avessero bocciata, solo per aver fatto gli occhi neri a qualche deficiente di troppo. Era quello, dopotutto, il motivo per cui aveva fatto domanda alla St. Elizabeth School, dopo aver sentito che Kia e Beth sarebbero andate lì. Così come quella smorfiosa di Arianna, pensò, trattenendo un gemito.

«Dice che non c'è alcun problema ad iniziare scuola nel secondo trimestre» mormorò infine, decretando di aver punzecchiato abbastanza i suoi ragazzi. «Test d'ingresso, bla bla bla

Rivolse loro un sorrise emozionato. «È ufficiale, ragazzi. Parto!»

Le sue parole piombarono nel silenzio ed Angie non riuscì a trattenere una smorfia. Dalle facce lunghe dei suoi amici, sembrava che avesse appena annunciato la sua dipartita. A dirla tutta, aveva sperato in un po' più di entusiasmo. Che se la fossero presa per averli lasciati un po' troppo sulle spine?

«Ehi, avete sentito...?» sbuffò lei.

«Ci mancherai» proruppe Chris.

Sentendo che la voce gli si era improvvisamente incrinata, Angie gli piantò gli occhi in faccia e assunse un'espressione incredula: no, non se l'era immaginato, il ragazzo dai lunghi capelli neri aveva davvero gli occhi lucidi.

E non era il solo. Sempre più scioccata, Angie fece vagare lo sguardo su quei ragazzi dalle criniere folte e dai muscoli guizzanti, alti il doppio di lei e massicci il quadruplo, con i lucciconi agli occhi.

«State... piangendo?» Angie non credeva ai propri occhi.

«No» si affrettò a dire Frank, tirando su col naso. «È che Daniel mi ha ferito l'occhio, prima.»

«Razza di idioti» borbottò Angie, scuotendo la testa e avvicinandosi per stringerli uno ad uno. «Mi mancherete anche voi.»

Quando sciolse l'abbraccio, Angie assunse di colpo un'espressione seria.

«E mi raccomando. Proteggete il nostro territorio.»

****

Alzai lo sguardo sull'imponente edificio che era il St. Elizabeth, svariati giorni dopo.

«Wow» bisbigliai, un po' intimorita, stringendo l'impugnatura della mia valigia.

Era magnifico. Su internet avevo visto qualche foto del liceo e di Alnwick, l'anonima cittadina in cui era ubicato, ma trovarselo davanti fu completamente diverso.

«Sembra un castello!» commentò Angie, bloccandosi dal chiacchierare a ruota libera delle lezioni di arte, che sperava fossero all'altezza di quelle della scuola precedente. Discorso a cui, a dire la verità, avevo prestato ben poca attenzione.

Le sue parole, in ogni caso, mi destarono dalla trance in cui ero caduta, perché era esattamente come anche io lo avrei definito.

Oltre la robusta inferriata, immerso in una pineta i cui alberi gareggiavano in altezza con il liceo stesso, si ergeva un massiccio edificio di mattoni rossi tendenti al rosa che sembrava uscito da un romanzo di Jane Austen. Tutto nell'architettura sembrava gridare epoca vittoriana: due enormi colonne costituivano la facciata dell'istituto, le quali terminavano in aguzze guglie grigie, mentre dozzine e dozzine di finestre con magnifiche arcate e colonnine spiccavano dall'edificio come occhi aperti a metà.

Il giardino di fronte all'ingresso, sebbene seminascosto dal robusto cancello di ferro, sembrava finto, da quant'era perfettamente curato: un vialetto di ciottoli conduceva fino ai gradini dell'ingresso e, tutt'intorno, un magnifico prato tagliato al millimetro, sul quale si stagliavano i mastodontici pini che avevano attirato la mia attenzione, insieme ad altre varietà di alberi meno imponenti.

Il giardino brulicava di ragazzi, che bighellonavano in attesa dell'inizio delle lezioni, e Beth e Arianna sembravano stare sbirciando attraverso il cancello. Le loro espressioni erano talmente scioccate che mi spinsero ad avvicinarmi perché, sebbene avessimo davanti agli occhi un liceo che avrebbe fatto sfigurare persino la Royal High School di Scozia, le loro facce erano davvero un po' troppo scioccate.

«Ehi!» esclamai, avvicinandomi all'inferriata e seguendo il loro sguardo. «Che succed...

La voce mi morì in gola. Davanti a me, oltre il cancello, era appena passato il più bel ragazzo che avessi mai visto in vita mia. Riccioli neri gli incorniciavano il volto, sul quale spiccavano due occhi vivaci e un sorriso da copertina. Abbassai lo sguardo e vidi che la camicia sbottonata dell'uniforme lasciava intravedere il suo fisico perfetto.

Probabilmente il grazioso tipo si doveva essere accorto che lo stavo fissando come una deficiente – al pari di Arianna e Beth – perché mi strizzò l'occhio.

Arrossii d'istinto e mi affrettai a distogliere lo sguardo, quando l'occhio mi cadde su un altro ragazzo, che gli stava passando accanto in quel momento. Rimasi a bocca aperta: anche lui era bellissimo, con corti capelli biondi e un corpo che, sebbene coperto dalla camicia, pareva statuario. Poco più avanti, vidi un altro bellissimo tipo. E un altro. E un altro ancora. Dovunque mi si posasse lo sguardo, nel cortile c'erano solo tipi da rivista.

«Non è possibile...» sentii mormorare Angie. Anche lei doveva essersi resa conto dello spettacolo a cui noialtre stavamo assistendo.

Passai in rassegna con lo sguardo le ragazze che passeggiavano nel giardino e mi accorsi che i maschi non erano i soli privilegiati: le studentesse sembravano appena uscite da una rivista di moda, con corpi atletici e flessuosi, lineamenti delicati e capelli scintillanti e perfettamente pettinati.

«Ragazze!» esclamai, voltandomi di scatto verso le mie amiche. «Ma... avete visto che roba? Mi sembra di essere un cucchiaio nel cassetto delle forchette!»

Angie mi scoccò uno sguardo allibito, mentre Beth scoppiava a ridere.

«E questa da dove ti è uscita?» esclamò, appoggiandosi al cancello con le lacrime agli occhi. Era più abituata di Angie ai miei improbabili paragoni.

Risi a mia volta, mentre Arianna tentava di dare un senso alle mie parole.

«Ti senti fuori posto, eh?»

La ragazza lanciò uno sguardo attraverso l'inferriata.

«Anche io mi sento diversa, tra tutte queste bellezze» mormorò, sistemandosi i lunghi capelli castani dietro le orecchie.

«Ah sì?» Angie levò gli occhi al cielo. «E allora cosa dovremmo dire noi, Arianna?»

Angie non aveva tutti i torti. Arianna era tra le ragazze più belle che avessi mai visto – anche se, a giudicare dalle silfidi nel cortile, avrebbe presto avuto visto concorrenza – oltre ad essere stata la ragazza più popolare della sua scuola, corteggiata e ammirata da chiunque. L'unica fra tutte noi, insomma, che avrebbe potuto tenere la bocca chiusa.

«Finirò per diventare strabica» commentò Beth. «Non so dove guardare.»

Scoppiai a ridere, quando un improvviso e inconfondibile rumore di una valigia che veniva trascinata sull'asfalto ci fece voltare in direzione della strada.

Un ragazzo, con un trolley alla mano, stava venendo nella nostra direzione, verso la scuola.

Dopo aver osservato i nostri nuovi compagni, belli come dei greci, mi colpì il suo aspetto del tutto... normale. Era basso, mingherlino, con una scodella di capelli castani in testa.

«Anche voi siete nuove?» ci chiese quando ci ebbe raggiunte, scrutandoci con viva curiosità.

«Già» risposi, rivolgendogli un sorriso nervoso. Ero ancora un po' a disagio, dopo quello a cui avevo appena assistito, e mi chiesi se il ragazzo fosse già a conoscenza dell'aspetto dei suoi nuovi compagni di scuola.

«Vieni qui» proruppe Angie in tono cospiratorio, afferrandolo per un braccio e conducendolo verso l'inferriata. «Devi essere iniziato.»

Il ragazzo la guardò sconcertato, ma dovette intuire, forse per via del suo aspetto vagamente minaccioso, che era meglio non discutere con lei e si lasciò trascinare senza fare storie.

«Ehi, voi!»

Angie mollò subito la presa sul poverino e ci voltammo tutti in direzione del cancello d'ingresso, dal quale era spuntato un uomo che aveva tutta l'aria di essere un bidello. Era alto e magro, dall'aspetto po' trasandato e, dopo averci adocchiato, fece rotta verso di noi con un passo che avrei definito militaresco. In mano aveva un fascio di fogli svolazzanti.

«Siete i nuovi allievi, giusto?» domandò, scrutandoci da sotto due folte sopracciglia grigie.

Ci affrettammo ad annuire. Quel tipo mi metteva vagamente in soggezione e, a giudicare dai volti intimoriti degli altri, non dovevo essere la sola a cui faceva quell'effetto.

«Bene» fece lui sbrigativamente. «Seguitemi.»

Gérard – così lessi sulla targhetta che aveva appuntata al petto – ci fece passare oltre il cancello e ci condusse lungo il vialetto che portava all'entrata della scuola, attraverso quell'eden di creature ultraterrene e tentazioni irresistibili.

«Penso che la mia iniziazione sia completa» bisbigliò il ragazzo incantato, dando di gomito ad Angie.

«Te l'avevo dett...

«Volete darvi una mossa?» la interruppe Gérard, guardandoci storto.

Il bidello, infatti, aveva raggiunto il portone d'ingresso da un pezzo e ci stava fissando con le mani sui fianchi, un'espressione irritata stampata sul volto.

Divorammo a malincuore i pochi metri che ci separavano dal portone e salimmo i gradini che conducevano all'entrata.

L'atrio si stagliò di colpo davanti a noi e ci lasciò senza fiato.

«Oddio» mormorai, con gli occhi che mi brillavano. Dopo quelle statue in giardino, non avevo idea che dentro mi sarei trovata davanti uno spettacolo altrettanto meraviglioso, sebbene di diversa natura.

«Oddio» fece Gérard di rimando, levando gli occhi al cielo. Probabilmente doveva aver capito che ci saremmo di nuovo fermati per chissà quanto.

Forse accentuato dal fatto che fosse deserto, ma l'atrio mi parve enorme ed arioso, con un'architettura circolare che mi ricordò vagamente quella di un tempio. Ai lati aveva quattro colonne di marmo bianco, lo stesso materiale di cui era fatto il pavimento, ma il soffitto a volta era ligneo e vi era appeso un magnifico lampadario scintillante.

Anche le mie amiche, accanto a me, erano senza parole. Quel posto sembrava una sala da ballo, più che l'atrio di una scuola. L'unica cosa che mi convinse che mi trovavo lì per studiare e non per entrare in società era una scrivania, nell'angolo destro dell'atrio, verso la quale Gérard si era diretto per prendere delle penne. Ad un lato della scrivania partiva un'elegante scala dai gradini in marmo, con un corrimano di ferro battuto; all'estremità opposta, invece, il pavimento degradava ed intravidi le moderne porte di quelle che dovevano essere le classi. La scrivania, che intuii essere territorio dei bidelli, sembrava fare da spartiacque tra il moderno e l'antico, tra le classi e quello che c'era ai piani superiori. Con un brivido d'emozione, mi resi conto che non vedevo l'ora di scoprirlo. Questo posto è magnifico.

Gérard nel frattempo era tornato da noi, cacciandoci in mano i fogli e le penne che aveva con sé senza tante cerimonie.

«Devo farvi firmare questi fogli» spiegò, incrociando le braccia sul petto.

Abbassai gli occhi su quel fascicolo e mi sentii inorridire quando vidi che erano pagine e pagine. Le sfogliai senza neanche guardarle finché non ebbi individuato la casellina dove firmare.

Lanciando loro un'occhiata di sottecchi, vidi che anche gli altri stavano facendo la stessa cosa. Tutti tranne Arianna.

«Non avrai intenzione di leggerli sul serio?» fece Gérard, dando voce ai miei pensieri.

Arianna alzò gli occhi e lo squadrò, visibilmente scocciata. Il bidello doveva aver disturbato la sua lettura.

«Certo» rispose, abbassando di nuovo gli occhi sui fogli.

«Non ho mica tutto il giorno!» si spazientì lui. «Sono solo formalità!»

Noialtri intanto avevamo già firmato e Gérard sembrava sul punto di strapparsi i pochi capelli che aveva sul cranio. Alla fine, tanto disse e tanto fece che Arianna smise di leggere e firmò a sua volta, consegnando i fogli a Gérard con un'occhiata grondante odio.

Dopo aver ritirato i fascicoli, il custode ci condusse a sinistra, verso la parte moderna dell'istituto, e ci fece rapidamente strada attraverso i corridoi, mentre noi ne osservavamo rapite ogni centimetro quadrato, le rotelline delle nostre valigie che rumoreggiavano sui pavimenti.

«Qua» esclamò lui ad un certo punto, bloccandosi di fronte ad una porta chiusa in fondo ad un corridoio.

Ci affollammo intorno a lui e mi chiesi se si trattasse dell'ufficio della preside ma, quando vidi Gérard estrarre un mazzo di chiavi dalla tasca, iniziai ad avere qualche sospetto. Sospetto che divenne realtà quando entrammo nella stanza, che si rivelò del tutto vuota, ad eccezione di... un ascensore.

«Che ci fa un ascensore in una stanza?» mi bisbigliò Beth all'orecchio.

«Non lo so» borbottai. «Questo non c'era sul sito internet!»

Eppure, sembrava proprio un ascensore, dalle lucide pareti grigie.

Nella stanza, ampia e illuminata da una grande finestra, non c'era nient'altro, se non due grandi specchi, appesi alle due pareti di fronte. Ricambiai il mio sguardo attraverso il vetro, da cui si evinceva tutta la mia confusione. I miei neuroni, già provati dallo spettacolo all'esterno, stavano per andare in cortocircuito. Non avevo idea del perché ci trovassimo lì, del perché i ragazzi in quella scuola fossero così belli, ma sapevo solo una cosa: da claustrofobica qual'ero, non avevo nessuna intenzione di entrare in ascensore.

Mi voltai a guardare Gérard, in cerca di spiegazioni, ma il suo sguardo era insondabile.

«Lasciate pure qui le vostre valigie» fece l'uomo, indicandoci la parete accanto alla porta. «Ci vorrà un attimo.»

«Cosa stiamo facendo?» chiese Arianna, guardandosi intorno con aria inquieta.

«È la nostra procedura» tagliò corto lui. «Le valigie» ripeté, stringendo gli occhi.

Rassegnandoci all'idea che Gérard non ci avrebbe degnato di ulteriori spiegazioni, ci limitammo ad obbedire.

«Tu, fai un passo avanti» ordinò poi Gérard al ragazzino, che obbedì senza fiatare.

Le ragazze ed io ci stringemmo le une alle altre, intimorite, gli occhi fissi sul martire che avanzava in direzione di quello strano ascensore.

Gérard stava consultando una scheda, la fronte corrugata. Per un attimo pensai che si trattasse delle istruzioni di quell'aggeggio ma, quando il custode attaccò a parlare, capii che si trattava delle formalità del ragazzo.

Cercando in tutti i modi di distrarmi per non focalizzarmi troppo su quel minaccioso ascensore, mi misi ad ascoltarlo e scoprii che, a quanto pareva, Brian Adley era più piccolo di noi di un anno ed era originario di Newcastle.

Il bidello gli stava chiedendo conferma delle informazioni che la scuola aveva in possesso su di lui e, quando il ragazzo ebbe finito di rispondere – con un'infinita sequela di  – l'uomo lo spinse dentro l'ascensore senza tante cerimonie e chiuse ermeticamente la porta.

Mi sentii gelare il sangue e mi voltai a guardare le mie amiche, ugualmente terrorizzate.

Gérard intanto aveva preso a cliccare freneticamente sui tasti di uno schermo collegato a quell'aggeggio, che adesso tutto mi sembrava fuorché un ascensore, dal quale ben presto iniziarono a provenire dei gorgoglii soffocati. Che diavolo stava succedendo lì dentro?

Non so quanto tempo passò. Minuti, ore, giorni, passati con gli occhi fissi su quella macchina.

Dopo un'attesa interminabile, la capsula si aprì con uno sbuffo di fumo. Le ragazze ed io trattenemmo il fiato.

Dal vapore emerse un ragazzo. Un bellissimo ragazzo, alto e slanciato, con un fisico atletico che si intravedeva da sotto la maglietta. Ci misi un attimo per rendermi conto che io quella maglietta l'avevo già vista, così come il resto degli abiti indossati dallo sconosciuto: era vestito esattamente come quel Brian Adley. Perché, realizzai a bocca aperta, era proprio lui.

«Puoi andare» mormorò Gérard senza neanche guardarlo, mentre curiosava fra le schede.

Apparentemente ignaro del suo cambiamento d'aspetto, il ragazzo ci superò di slancio e recuperò la sua valigia. Si voltò verso di noi per salutarci, ma fu in quel momento che dovette scorgersi in uno degli specchi. La sua espressione cambiò.

«Cazzo» lo sentì dire, mentre si portava una mano al volto, incredulo.

Ero rimasta così allibita che non mi accorsi che Gérard mi aveva appena chiamata.

«Ross Kia?»

Merda.

Rivolsi uno sguardo disperato alle mie amiche, ma non c'era nulla che potessimo fare. Come potevamo fuggire da quel posto? Cos'avremmo fatto, a chilometri e chilometri da casa?

«Ross Kia?» Stavolta il tono del custode era un po' più seccato.

Abbandonai a malincuore l'idea della fuga e venni avanti come un automa.

«Lei è la signorina Ross Kia?»

Io.

«Ha quattordici anni?»

Non.

«È nata ad Honolulu?»

Ci.

«Risiede a Londra?»

Entro.

«Il suo indirizzo è 288, Whitewebbs Woods, Enfield...»

Continuai ad annuire meccanicamente, mentre Gérard snocciolava tutto il mio indirizzo. Io, però, non lo stavo minimamente ascoltando, gli occhi fissi sull'ascensore dietro di lui.

«Benissimo» concluse l'uomo. «Ora tocca a te.»

Sentii le sue mani spingermi all'interno della capsula e cercai in ogni modo di opporre resistenza.

«AIUTO!» urlai, in preda al panico, puntando i piedi per terra.

Ma non avevo speranze contro di lui. Ansimante di terrore, finii dentro l'ascensore e non feci in tempo a voltarmi che le pareti si erano già chiuse alle mie spalle.

Ero in trappola.

 

*Il testo non mi appartiene. È Habanera, aria tratta dalla Carmen di Georges Bizet.

L'amore è un piccolo zingaro
Non ha mai, mai conosciuto legge;

Se tu non mi ami, io ti amo;
Se io ti amo, attento a te!

Se tu non mi ami, io ti amo;
Ma se io ti amo, se io ti amo...

Attento a te!
 

Eccoci dunque al primo capitolo, in cui facciamo la conoscenza delle nostre quattro scapestrate protagoniste.

Il motivo per cui le ragazze abitano così lontana l'una dall'altra è che la me tredicenne evidentemente credeva che le dimensioni della Gran Bretagna fossero più o meno le stesse della Repubblica di San Marino e che le protagoniste abitassero davvero ad un tiro di schioppo. Certo, certo, me tredicenne. 

Da qui la scelta di posizionare il liceo di St. Elizabeth ad Alnwick, che si trova (molto approssimativamente) a metà strada fra tutte loro. Probabilmente capireste meglio se vi facessi un disegnino... quindi ve lo faccio sul serio.

Un grazie speciale ad Angie (quella vera!) che sta facendo tutte le copertine dei capitoli. È una bravissima grafica e le voglio bene comunque, anche se disprezza la mia mappetta.

Curiose di sapere cosa succederà a Kia nella misteriosa macchina? Continuate a seguire la storia!

Un bacio.

  
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