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Autore: Shari Deschain    24/09/2013    2 recensioni
[Steampunk!AU, Spoiler fine S1]
Non è che Joan non si fidi di Sherlock, anzi, prova grandissima stima per la sua intelligenza e la sua capacità di osservazione, così come per il suo lavoro e il suo talento per la risoluzione dei casi più difficili. Joan gli affiderebbe la propria vita senza battere ciglio. Ciò che invece non gli affiderebbe mai, in nessuna circostanza e sotto nessuna minaccia, sono i suoi capelli. O quello che resta dei suoi capelli, perlomeno.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Joan Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
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Pairing/Characters: Joan/Irene, Sherlock
Warnings: Steampunk!AU, Spoiler fine S1.
N/A: Scritta per il Genetics Fest @ fanfic_italia prompt Steampunk + Piante + Sirene liv. 3 (Acqua Salata) + Ritardo, e per 500themes_ita prompt#348. Tempi disperati, rimedi disperati






Experimental






Non è che Joan non si fidi di Sherlock, anzi, prova grandissima stima per la sua intelligenza e la sua capacità di osservazione, così come per il suo lavoro e il suo talento per la risoluzione dei casi più difficili. Joan gli affiderebbe la propria vita senza battere ciglio. Ciò che invece non gli affiderebbe mai, in nessuna circostanza e sotto nessuna minaccia, sono i suoi capelli. O quello che resta dei suoi capelli, perlomeno.

E non aiuta il fatto che sia stato proprio uno degli esperimenti di Sherlock a ridurle la testa in quel modo.

«Ci sono quasi, Watson!», urla l'uomo, vedendola passare davanti a quello che una volta, tanto tempo prima, era stato il salone della loro casa, e che adesso è un laboratorio di alchimia fatto e finito. «Devo solo confrontare la composizione della linfa con quella del tuo DNA e aggiungere il giusto catalizzatore per provocare la reazione opposta. Ci vorranno poche ore, davvero.»

Joan rimane ferma all'entrata della sala e lo fissa con uno sguardo che incenerirebbe anche un fuoco fatuo.

«È quello che ripeti da tre giorni, Sherlock», gli fa presente, scostandosi un filo d'erba dalla fronte.

Sherlock agita appena una mano come per dirle “dettagli”, poi torna a chinarsi sulla sua provetta. Tutto intorno a lui, sbuffi di fumo colorato si alzano da tre diversi alambicchi di ottone, mescolandosi alla vaga puzza di bruciato che pure aleggia nell'aria.

Joan incrocia le braccia al petto.

«Arrenditi e ammetti di non avere idea di come rimediare.»

«Non dire eresie, Watson. Se sono stato capace di trasformare i tuoi capelli in erba─»

«Non dirlo come se lo avessi fatto di proposito! Mi hai versato in testa uno dei tuoi intrugli perché sei inciampato e─»

«Non era un intruglio ma un esperimento sulla capacità di innesto di semi in─»

«Sherlock, mi stanno spuntando margherite dalla testa!», urla infine Joan, esasperata oltre ogni limite.

Solo a quel punto lui alza di nuovo lo sguardo verso di lei.

«Allora ti consiglio di innaffiarle», ribatte Sherlock, impassibile. «E suggerisco anche una salutare passeggiata all'aria aperta per stimolare la crescita e garantire una corretta fotosintesi clorofilliana.»

Per qualche istante Joan medita seriamente su come ucciderlo. Poi sospira e trattiene a stento la voglia di rimettersi ad urlare.

*

Due giorni dopo, visto che nessun progresso è stato fatto e che ormai è costretta a vivere con un giornale tra le mani per scacciare via le api di Sherlock dalle margherite, Joan decide che a mali estremi servono davvero estremi rimedi.

Quindi si avvolge i capelli in un foulard colorato, si cala sulla testa uno dei cilindri neri di Sherlock, attacca un post-it sulla caffettiera, e poi esce dall'appartamento per dirigersi verso la cabina olografica all'angolo della strada.

Solo quando la porta blu si richiude con uno scatto metallico alle sue spalle, Joan si azzarda a tirare fuori il bigliettino nascosto in una delle numerose tasche della sua gonna a sbuffo.

Non sa nemmeno perché lo ha tenuto, quel biglietto, ma ora è davvero grata di averlo fatto. Vuole bene a Sherlock, ma il suo ritardo nel trovare una soluzione al problema ha cominciato a farsi sospetto quando, invece di cercare di invertire il processo, Joan lo ha trovato a tentare di trasformare il guscio di Clyde in una foglia.

Quindi, in quel nuvoloso pomeriggio estivo, è sia per amore di se stessa che per amore della tartaruga che si decide ad alzare la cornetta e comporre il numero di Irene Adler.

*

«Joan, che piacere», trilla Irene nel suo orecchio, facendole intanto l'occhiolino dall'oloproiettore. «A cosa devo questo onore?»

Joan le rivolge un'occhiataccia e Irene sorride in quel suo solito modo da gatta che le fa venire voglia di riattaccare la cornetta. Lo farebbe sul serio se ormai non fosse ridotta a lavarsi i capelli con l'innaffiatoio.

«È sangue quello sulla tua guancia?», domanda comunque, senza riuscire a trattenersi.

Irene si porta una mano al volto con un'esagerata smorfia di stupore e poi la fissa con occhi spalancati.

«No, non rispondere, non lo voglio sapere davvero», taglia corto Joan, prima ancora che l'altra riesca ad aprire la bocca per ribattere con una qualche battuta sarcastica. «Se stai, uhm, lavorando—»

«Sì, in effetti sto lavorando. La Corporazione degli Assassini mi ha riconosciuta legalmente da più di due anni ormai, quindi puoi anche smetterla di riferirti al mio lavoro con quel tono ambiguo», risponde Irene, seccata.

«Il tuo lavoro è uccidere gente!», protesta Joan.

«Ho sempre detto che la tua capacità di osservazione ha del sovrannaturale. Dev'essere per questo che Sherlock ti ha scelta come sua mascotte personale, invece di prendersi un gatto.»

Joan chiude gli occhi, si massaggia una tempia con la mano libera e sospira.

«D'accordo. Lasciamo perdere. Ti ho chiamata per chiederti un favore», si costringe a dire alla fine.

Irene si prodiga in un nuovo sorriso felino e si sporge un po' di più verso l'oloproiettore, posando il mento sulle mani intrecciate.

«Ooooh», commenta estasiata. «E sentiamo, in cosa potrei mai esserti utile, mia cara Watson?»

Joan pensa a come rispondere, da dove iniziare a raccontare e come farlo senza mettere troppa in cattiva luce Sherlock. Poi ricorda di aver già deciso che non le importa un accidenti della competitività tra quei due, e che tutto ciò che vuole è andare a cena da sua madre senza farle venire un infarto, quindi si limita semplicemente a togliersi il cappello e il foulard e mostrarle il problema.

E ovviamente si aspettava grasse risate, o perlomeno taglienti prese in giro, ma Irene si limita a fissarla per qualche minuto in completo silenzio e con un'espressione perfettamente composta.

«Capisco», dice poi. «Forse posso aiutarti, ma in cambio devi fare qualcosa per me.»

«Non ho intenzione di essere complice di un omicidio!», ribatte subito Joan. «Non mi interessa se ora viene riconosciuta come legittima attività imprenditoriale, io non—»

«Nessun omicidio», la interrompe Irene, alzando gli occhi al cielo. «Mi serve qualcosa di molto più semplice e moralmente accettabile.»

«Tipo cosa?», domanda Joan, sospettosa.

«Acqua salata.»

*

Grandi battelli a vapore entrano ed escono dal porto con lunghi fischi simili a quelli delle locomotive, oscurando il cielo con grandi sbuffi di fumo e coprendo i pontili con una leggera nebbia che si mescola in modo non troppo sgradevole all'odore del pesce e dell'oceano. Non è il posto preferito di Joan, ma nemmeno uno dei peggiori in cui sia mai stata. Non dopo aver incontrato Sherlock, almeno.

Ed è a lui che sta pensando adesso. Conoscendo la loro storia, si sente un po' in colpa per essersi rivolta ad Irene, e d'altronde non può davvero più aspettare che lui si decida a mettere da parte la meraviglia per quella nuova scoperta e le sue implicazioni scientifiche. Essere sua collega le va più che bene, fargli da cavia no.

Mentre aspetta l'uomo di Irene, quindi, si domanda se chiamarlo o meno, almeno per spiegargli il perché della sua sparizione, ma proprio mentre sta per avviarsi verso una delle cabine vicine al molo, un Capitano della Marina la raggiunge e si inchina di fronte a lei.

«Miss Watson?», domanda. E al suo assenso le porge il braccio senza sorridere. «Da questa parte, prego.»

Joan sospira e prega di non essere sul punto di cacciarsi in qualche guaio.

*

Ci vogliono quattro facchini per portare la tanica di duecento litri fino all'ultimo piano della Moriarty&Co, ovvero fin sulla porta dell'ufficio di Irene. Joan deve chiamarne altri due per versare poi l'acqua nella vasca da bagno che, inspiegabilmente, troneggia nel bel mezzo della stanza, giusto dietro la scrivania.

Dopo aver pagato i facchini ed essere uscita chiudendosi la porta alle spalle, proprio secondo le istruzioni, Joan ha ormai smesso di farsi domande e si limita a lisciarsi i risvolti della giacca, in attesa che in quella giornata qualcosa, qualsiasi cosa, inizi ad avere un senso.

Poi Irene la invita ad entrare e Joan lascia sulla soglia della porta tutte le sue belle speranze.

Con la schiena comodamente adagiata contro il bordo della vasca, Irene alza lo sguardo su di lei e le sorride appena.

«Sei in ritardo», le comunica. «Ancora un po' e avrei cominciato a perdere le squame, sembra che l'acqua dolce non sia affatto indicata per le sirene.»

Joan non riesce subito a dare senso a quelle parole. Poi Irene solleva la lunga coda rossa, scuotendo le pinne come per salutarla, e improvvisamente la donna sente una gran voglia di piangere.

*

«Non puoi chiamare Sherlock!», urla Irene, furiosa, pochi minuti dopo, agitando la sua nuova coda con così tanta violenza da provocare piccoli maremoti all'interno della vasca. La moquette tutt'intorno è ormai diventata una specie di palude.

Joan la ignora completamente e si allontana con l'oloproiettore stretto tra le mani.

«Prova a fermarmi, Sirenetta», commenta con altrettanto gelido furore. Non ne può più di quegli stupidi esperimenti, e non ha intenzione di affidarsi né a lei né a Sherlock, visto che, per essere le menti più geniali del loro secolo, si sono rivelati entrambi due idioti.

«Posso risolvere la situazione da sola! Non mi serve l'aiuto di quel, di quel—», continua a strepitare Irene, e Joan si schiaccia una mano contro l'altro orecchio mentre conta mentalmente gli squilli.

*

Mezz'ora dopo, quando infine Sherlock le raggiunge con la sua borsa piena di alambicchi e il camice da laboratorio ancora addosso, Joan non gli dà nemmeno il tempo di chiedere cosa diamine stia succedendo. Si limita a spingerlo all'interno dell'ufficio di Irene e ad aspettare che si plachino le urla e le risate. Dopodiché li fissa entrambi dalla porta, con occhi di fuoco e le margherite che si agitano tutte intorno con fare intimidatorio (per quanto intimidatoria riesca poi a sembrare una margherita, ovviamente) (E comunque Joan è già abbastanza terrorizzata dal fatto che i suoi capelli abbiano sviluppato abbastanza coscienza da tentare di intimidire qualcuno, grazie tante).

«Non mi interessa quanto ci vorrà per sistemare le cose», intima, passando lo sguardo dall'uno all'altra. «Nessuno lascerà questa stanza fino a quando io non riavrò i miei capelli. Niente cibo, niente nuovi casi, niente cambi d'acqua e niente sali da bagno profumati. Se non ci riuscite insieme, vi darò prima in pasto ai giornali scandalistici e poi in pasto agli squali. Al lavoro!»

«Come osi—», inizia a dire Irene, ma subito dopo aver finito di parlare Joan esce dalla stanza, sbattendo la porta in faccia ad entrambi.

Il battibecco ricomincia immediatamente e Joan sospira per l'ennesima volta, poi si siede lì in corridoio, con la schiena premuta contro l'uscio, e comincia ad accarezzare con le punte della dita le corolle delle margherite, tentando di rabbonirle in vista di quella che si preannuncia come una lunga, lunghissima attesa.



   
 
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