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Autore: Niglia    24/09/2013    4 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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4.
The Strange Journal of Dr. Murray














Come promesso, Emma rimase tutta la notte accanto a miss Radcliffe. Di tanto in tanto scivolava in un sonno leggero, spossante, e a un certo punto, durante questi intermezzi, le parve di vedere – ma non poteva dire di esserne sicura – nel dormiveglia, un’ombra scura curva sul letto della sua istitutrice, come a volerne controllare il respiro, con l’aria miasmatica dell’incubo; doveva comunque essersi trattato di una visione, perché la figura era scomparsa tanto in fretta da farle dubitare addirittura che ci fosse stata – e non sembrava, peraltro, appartenere a nessuno dei domestici. Ma a un certo punto della notte le candele si erano consumate e la stanza era precipitata nel buio, se si escludeva un lieve bagliore proveniente dalle braci della stufa, ed Emma si convinse di aver solo sognato.
Fu una mano gentile a scuoterla piano fino a svegliarla, l’indomani mattina. Lydia le aveva portato del caffè con un goccio di latte, e, mentre Emma si sforzava di riprendersi dalla posizione scomoda in cui aveva dormicchiato per tutta la notte, la ragazza si affaccendò ad aprire le tende, schiudere appena la finestra per cambiare l’aria, aggiungere dei ciocchi di legno alla stufa e andare a svuotare il vaso da notte. Prima che sparisse fuori dalla stanza per quest’ultima incombenza, però, Emma attirò la sua attenzione.
«Dov’è Mrs. Duncan?» Domandò, con la voce ancora impastata dal sonno. Ormai aveva imparato a comunicare con la giovane, così quando Lydia iniziò a gesticolare Emma comprese che la donna era da qualche parte al pianterreno, probabilmente in cucina.
Bene, pensò. «Vado un momento nella mia stanza a vestirmi e a prepararmi, allora… No, Lydia, non c’è bisogno che venga anche tu, ma grazie lo stesso», aggiunse con un mezzo sorriso, interrompendo i gesti della ragazza. Lasciò la camera di miss Radcliffe così in fretta che la domestica non poté trattenerla in alcun modo, limitandosi a fissare sconsolata la porta dalla quale Emma era uscita: la signora Duncan le aveva ripetuto all’infinito che non bisognava lasciar sola la padrona per alcun motivo e in nessun momento, ma ciò che la governante non sapeva non poteva turbarla, giusto?
Rassegnata e impotente, Lydia tornò alle sue faccende.


Quando più tardi Emma scese al pianterreno per la colazione, trovò Mrs. Duncan intenta a preparare la tavola e a disporre le varie pietanze. Aramis le venne incontro scodinzolando – era probabile che l’avessero tenuto fuori, nelle stalle, per tutta la notte, dato che la sua padrona era impegnata con l’istitutrice – e la sua fu l’unica accoglienza festosa che ricevette. La governante era incredibilmente pallida e aveva un’aria stanca e provata, come se a sua volta non avesse chiuso occhio.
«Avete chiamato il dottore per miss Radcliffe, signora Duncan?» Chiese Emma prendendo posto a capotavola, piluccando dei crostini da un piatto e porgendoli con due dita ad Aramis.
«Dolph è andato in paese questa mattina, milady. Dovrebbe essere di ritorno per l’ora di pranzo», fu la risposta della donna, impegnata a versarle il tè. «Tuttavia, milady, c’è la possibilità… Ecco, che possa non venire nessuno.»
Emma sollevò gli occhi su di lei, perplessa. «E per quale motivo, se posso chiedere?»
«Sono anni che viviamo a Pemberley in solitudine, milady, da quando sono morti i vecchi padroni… Al villaggio non ci vedono di buon occhio, e tendono ad evitarci. Nessuno ha più messo piede al castello da quando ci vivevano i conti. Per questo il signor Duncan deve fare continuamente avanti e indietro da qui a Heatherfield.»
«Ma questo è ridicolo», proruppe Emma, accigliata. «E neanche la presenza di una nuova padrona di casa potrebbe far loro cambiare idea? Non possiamo rimanere isolati a Pemberley a causa delle superstizioni di un gruppo di contadini ignoranti!»
«Purtroppo questa non è la città a cui siete abituata, milady», obiettò Mrs. Duncan con un mezzo sorriso di scusa. «In campagna vigono leggi differenti. Ad ogni modo vi prometto che faremo del nostro meglio per far arrivare qui il dottore.»
«Bene», mormorò Emma, benché poco convinta. «Non vorrei che le condizioni di miss Radcliffe peggiorassero. Non si è mai ammalata prima d’ora.»
«Potrebbe aver preso un’infreddatura ieri mattina», ipotizzò la governante, riempiendo d’acqua la ciotola di Aramis posta accanto al camino. Il cucciolo ringhiò appena, avvicinandosi a bere solo quando la donna si fu allontanata.
La giovane lady era così sovrappensiero da non accorgersi neppure dello strano comportamento del suo cane, e continuò a sbocconcellare una tartina al salmone con lo sguardo perso nel vuoto. Quando ebbe finito – doveva ammettere di non avere poi così tanto appetito – scostò la sedia e si alzò, sistemandosi con un gesto abituale la gonna del vestito. «Rimarrò in biblioteca tutta la mattina, signora Duncan, devo portarmi avanti con lo studio anche senza l’aiuto di miss Radcliffe. Chiamatemi per il pranzo, e se dovessero esserci miglioramenti o peggioramenti delle condizioni della nostra paziente», dispose, attirando Aramis con uno schiocco delle dita.
«Certo, milady. Buon lavoro», le augurò la governante. Quando Emma abbandonò la sala da pranzo, Mrs. Duncan liberò un lungo sospiro di sollievo.

Emma approfittò della mattinata per scrivere finalmente una lettera al padre e una a Caledon, che malgrado tutto meritava di ricevere almeno una parola da parte sua – dopotutto si trattava pur sempre del suo fidanzato. Al padre accennò dell’infreddatura di miss Radcliffe ma lo assicurò di non preoccuparsi, gli raccontò di sir Carlisle – l’affabile e disponibile gentiluomo che potevano vantare come vicino di casa – e parlò brevemente anche dei domestici, senza tuttavia entrare troppo nei particolari: sapeva che di loro doveva avergliene già parlato abbondantemente la sua istitutrice nella lettera precedente, e non voleva in alcun modo allarmare il genitore. Per questo tacque anche la faccenda dell’incidente dei vecchi proprietari di Pemberley: in primo luogo confidava che suo padre ne fosse già a conoscenza, e inoltre temeva che, prendendo lei l’argomento, lord Grantham potesse desumere che lei non si trovasse del tutto a suo agio con l’idea. Gli domandò per quanto tempo ancora gli affari lo avrebbero trattenuto a Londra, e quando contava di raggiungerla in campagna; concludeva ammettendo di sentire la sua mancanza, e che desiderava trascorrere del tempo insieme a lui.
La lettera per Caledon fu invece molto più breve, e richiese un maggiore impegno da parte sua per essere redatta. Era una di quelle lettere che la società le imponeva di scrivere – doveva mantenere i contatti con il suo futuro marito, e inoltre non si era ancora giustificata di persona per la sua partenza brusca e improvvisa dopo il funerale della madre – ma che lei non aveva idea di come fare. Gettò nel fuoco parecchi tentativi abortiti di quella maledetta lettera, prima di riuscire a trovare qualcosa di interessante e affettuoso da dirgli; e, quando ciò accadde, mise per iscritto tutto d’un fiato ciò che le danzava sulla punta della lingua. Il risultato fu una versione più corta, fresca e leggermente imbarazzata della lettera che aveva scritto per suo padre, ma come inizio poteva andare. La rilesse un paio di volte, aggiunse qualche frase e qualche carineria, poi posò la stilografica – regalo di Cal, che sapeva quanto la sua fidanzata amasse scrivere – e passò a sigillare entrambe le lettere. Le avrebbe consegnate al signor Duncan quando fosse rientrato dal villaggio, in modo che le spedisse il giorno dopo.
Visto che dopo pranzo non c’era altro che potesse fare per miss Radcliffe, che continuava a sonnecchiare e alternare momenti di allucinazioni a momenti di gemiti sofferenti, se non sperare che il dottore trovasse un po’ di coraggio per raggiungere Pemberley Manor a visitarla, Emma decise di mettere a frutto il tempo libero che l’assenza delle sue lezioni e delle ore di studio quotidiane le avevano procurato.
Adesso che poteva ispezionarla in tutta calma, Emma capita finalmente che cosa aveva voluto intendere Mrs. Duncan quando le aveva detto che Pemberley Manor non era stata costruita secondo un modello architettonico unico e calcolato come una qualsiasi magione seicentesca – non aveva, come Hambleton Abbey, delle ampie vetrate poste ad illuminare saloni e gallerie così vaste da dare quasi l’impressione di trovarsi all’aria aperta, e neppure un ordine ragionato per la disposizione delle stanze e degli ambienti. La sua nuova casa, contrariamente a ciò che le era stato detto dalla governante, sembrava molto più vecchia e antica – specialmente nelle parti disabitate, dove non era stato portato il restauro del progresso – costruita più per confondere e distrarre gli eventuali nemici che vi si sarebbero potuti infiltrare che non per rendere agevole la vita degli abitanti. Era probabile che l’abitazione attuale fosse nata da un precedente ampliamento della costruzione originaria, quasi sicuramente un castello cinquecentesco, che a sua volta si era trasformato nel cuore pressoché irraggiungibile del maniero dal quale avevano iniziato a dipanarsi altre gallerie, ali, scalinate, torri e saloni – ognuno appartenente alla propria epoca; ciò dava l’impressione di compiere un inquietante viaggio nel tempo man mano che ci si addentrava nel nucleo di Pemberley, e ci si allontanava allo stesso tempo dalla luce del sole e dalla zona sicura.
Appena messo piede nel primo corridoio disabitato, una strana sensazione di pericolo parve gelarle il sangue che le scorreva nelle vene: aveva l’impressione di essersi spinta troppo in là, di aver varcato quasi la soglia di un altro mondo o di un’altra abitazione, e peggio ancora, di un’abitazione che non apparteneva a lei, ma a qualcosa di maligno e infido. L’istinto la portò a guardarsi intorno, a lanciare un’occhiata alle proprie spalle: ma, come avrebbe dovuto immaginare, era da sola.
Passeggiare per i corridoi deserti del maniero era come attraversare un vecchio cimitero abbandonato: nessuno ci passava più da tempo, ma la presenza di chi lo aveva abitato era tangibile in ogni angolo, e lasciava l’inquietante sensazione che la pressante ombra degli abitanti passati, cupa e minacciosa, si annidasse alla stregua di ragnatele tra i candelabri opachi e i quadri impolverati che pendevano dalle pareti, incancellabile come le impronte ovali o rettangolari sulla tappezzeria – segno che davvero tutti gli specchi erano spariti. C’era un forte odore di muffa e chiazze di umidità sulla tappezzeria, laddove essa non era strappata e i lembi non penzolavano come vecchi stracci abbandonati sulle pareti; le tende rimaste erano ingrigite dalla polvere, mangiucchiate dalle termiti e appesantite dall’acqua che colava dagli spifferi degli infissi. Emma stentava quasi a credere di trovarsi ancora a Pemberley – la differenza tra questa ala e quella dove stava abitando insieme ai domestici era indescrivibile.
Quando Mrs. Duncan le aveva descritto Pemberley come un labirinto, lei non ci aveva creduto; ma adesso, mentre percorreva lunghe gallerie che sembravano non voler portare da nessuna parte se non nel punto da cui era partita, dovette accettare l’errore e ammettere di essersi persa. Forse, se avesse trovato una finestra, avrebbe potuto capire in che ala si trovava e provare a tornare indietro di conseguenza, ma finora tutti i corridoi erano rigorosamente privi di qualsiasi fenditura, e l’unica luce era quella della piccola lanterna che aveva pensato bene di portarsi appresso nell’eventualità che una sola candela non fosse abbastanza.
Sollevò il braccio, illuminando uno dei quadri appesi alla parete alla sua destra: al di sotto dello strato di polvere, riuscì ad intravedere i resti del ritratto di un signore elegante e distinto, in abiti militari, del quale non si vedeva la testa – in quel punto la tela era stata squarciata, probabilmente da una lama affilata – e che teneva sotto ad un braccio un elmo piumato. Aggrottando la fronte davanti allo scempio incomprensibile di un’opera d’arte – a giudicare dalla divisa da ufficiale ritratta, infatti, il dipinto doveva avere almeno una settantina d’anni – Emma avanzò e passò oltre, portando la luce su un altro quadro. Anche qui, tutto ciò che rimaneva integro era il corpo del signore, mentre il viso era stato accuratamente squarciato; e così pure, come scoprì alla fine, in tutti gli altri quadri raffiguranti quelle che parevano essere state figure importanti. Neppure un solo ritratto era integro, ed Emma non poté fare a meno di domandarsi chi diavolo potesse avercela avuta così a morte con quei poveri soldati di epoche passate – ah, ma non c’erano solo soldati, bensì anche dame e qualche elegante ritratto di famiglia, con cinque o sei persone insieme – da distruggere l’unica immagine che di loro sarebbe potuta rimanere. E, soprattutto, perché nessuno dei domestici aveva mai pensato di ritirare in soffitta quei tristi dipinti, oppure di portarli da qualche restauratore d’arte per farli aggiustare? Un’abile mano sarebbe di certo riuscita a riparare quei danni…
Forse i signori Duncan non avevano abbastanza denaro per affrontare simili spese, e considerando che erano solo loro ad occuparsi di Pemberley non poteva neppure biasimarli. Ne avrebbe parlato con suo padre nella prossima lettera, decise – di certo il conte di Grantham non si sarebbe lasciato scappare l’opportunità di fare una simile buona azione per il mondo dell’arte.
Proseguendo la sua perlustrazione, Emma aveva sceso e salito delle piccole gradinate così spesso da farle dimenticare in quale piano si fosse trovata effettivamente. Quando ebbe la fortuna di trovare delle finestre, tanto per assicurarsi che fuori fosse ancora giorno, esse erano sprangate o inchiodate – insomma, impossibili per lei da aprire. Dopo un lento girovagare iniziò dunque ad avvertire la stanchezza, e l’infido seme del dubbio e della paura attecchì nel suo animo facendole venire un’idea inquietante: come avrebbe fatto a tornare indietro, se non aveva la più pallida idea di dove si trovasse?
Preoccupata, si fermò in mezzo al corridoio e sollevò la lampada sopra la propria testa, ruotando su sé stessa per individuare una qualche via d’uscita o un punto abbastanza familiare che l’aiutasse a tornare indietro. Come avrebbe dovuto aspettarsi, non trovò nulla.
Stava già pensando di ricorrere a metodi estremi e provare a urlare, nella speranza che qualcuno dei domestici potesse sentirla, quando, nel terribile silenzio che l’avvolgeva, all’improvviso, udì un rumore. Era un leggero strisciare, come di chi cerca di camminare in punta di piedi e fallisce miseramente, limitandosi a trascinarsi goffamente sulla pietra del pavimento per evitare i tonfi di una camminata normale. Emma era impietrita, e se avesse avuto un briciolo di autocontrollo in meno avrebbe strillato; ma fortunatamente aveva ricevuto una diversa educazione ed era stata tenuta accuratamente lontana da qualsivoglia superstizione campagnola impedisse ai Duncan di vivere in modo sereno nel castello.
«Chi è là?» Chiamò ad alta voce, sollevando il braccio che reggeva la lanterna per illuminare laddove i suoi occhi non arrivavano. «Mrs. Duncan? Lydia?»
Dall’oscurità non giunse alcuna risposta. Il rumore comunque era cessato, ma proprio nel momento in cui la giovane tirava un sospiro di sollievo il brusco stridio di una porta che veniva aperta la fece sobbalzare e rabbrividire come una qualsiasi bambina timorosa della sua stessa ombra.
Emma non faticò a trovare la porta che si era misteriosamente aperta: era l’unica dalla quale pareva provenire un bagliore di luce, che fendeva come una lama il muro opposto del corridoio, ed era a pochi passi da lei. Osservò la maniglia per un tempo che le parve infinito, mentre decideva se entrare o proseguire e lasciarsi alle spalle qualunque fosse il mistero celato dietro quell’uscio.
Quando infine trovò il coraggio di varcare la soglia, si sorprese di vedere che qui le finestre erano completamente spalancate: non c’erano tende, che giacevano strappate sul pavimento, e neppure assi di legno inchiodate alle intelaiature. Dal vetro sporco degli scuri entrava la luce arancione del sole che tramontava in lontananza, dietro le colline, inondando piacevolmente la stanza. Emma allora sobbalzò, rendendosi conto finalmente di dove si trovava: era nell’ala Ovest.
Istintivamente preoccupata si guardò intorno, come se si aspettasse di venire aggredita da un momento all’altro, ma il silenzio tombale che la circondava la rincuorò sul suo destino, e poté darsi mentalmente della sciocca per aver avuto paura anche solo per un istante.
Di nuovo padrona di sé stessa, Emma prese a curiosare nella stanza, che pareva il vero e proprio studio di un pittore. C’erano cavalletti, pennelli sporchi, stracci macchiati di pittura, vasi contenenti fiori secchi e fogli zeppi di schizzi fatti a carboncino appesi in ogni angolo vuoto delle pareti.
Emma posò la lampada su un tavolino sgombro, e passò ad ammirare le tele poggiate le une sulle altre contro ogni mobile presente nella stanza. Trovò numerosi paesaggi, scorci dei boschi e delle colline che circondavano Pemberley, e quadri incompiuti di oggetti – gioielli, guanti, maschere, in un tripudio di colori o semplicemente in bianco e nero – ma il soggetto principale sembrava essere il castello stesso. Una torre era stata disegnata e dipinta fino al più piccolo particolare, e così pure una stanza, o un corridoio, o una scalinata; e qui non c’erano colori vivaci, ma tonalità cupe, soffocanti, terribili, tanto inquietanti che Emma cessò di osservare le tele e indietreggiò di qualche passo, improvvisamente infreddolita.
Riconosceva la bravura dell’autore – e, chiunque fosse stato il proprietario di quel piccolo tesoro dipinto, di certo non era lo stesso che si era occupato dei quadri del corridoio – ma quelle opere la mettevano a disagio; non sapeva bene dire perché. Si riappropriò dunque della lampada e lasciò la stanza, chiudendo con cura la porta alle proprie spalle e ripiombando nella penombra del corridoio. I suoi occhi faticarono un po’ a riabituarsi all’assenza di luce, ma quando accadde Emma fece un sospiro e cercò di tornare indietro.
Non dovette gironzolare a lungo, stavolta, prima di trovare il laboratorio.
La porta, una delle poche che non erano chiuse a chiave, si aprì con facilità, scivolando silenziosa sui cardini come se non fosse rimasta in disuso a lungo. Sfortunatamente qui le finestre erano ben serrate, così fu la luce giallognola della lampada a posarsi su tavoli sporchi e impolverati, su ampolle di vetro e cristallo e piccoli decanter in cui sembrava esserci ancora qualche sostanza verde, di un verde brillante, magnetico; Emma rabbrividì istintivamente – per qualche strano motivo aveva sempre associato il verde a qualcosa di tossico e velenoso.
Su una scrivania abbastanza sgombra, occupata soltanto da fogli, penne e calamai che un tempo dovevano aver contenuto dell’inchiostro blu, Emma trovò un quaderno grosso e spesso, con la copertina in pelle consunta e sporca – erano impronte di grasso o di olio? – e che tuttavia non doveva essere così vecchio come sembrava. Sul frontespizio, infatti, si poteva ancora leggere l’anno in cui era stato stampato – doveva essere una di quelle agende che utilizzavano gli studiosi, o i ragazzi dell’università: la data era 1889.
Sulla prima pagina interna, dietro la copertina ammuffita, lesse: Proprietà del dottor J. H. Murray, scritto in eleganti lettere corsive. Più sotto, una citazione in latino scritta a mo’ di epigrafe dal medesimo pugno: alterius non sit qui suus esse potest [1].
Incuriosita, Emma aprì il diario e lo sfogliò, fermandosi poi su di una pagina a caso, tra le ultime.

2 settembre 1889, ore 19:23.
Primo esperimento su soggetto umano.
Dose leggera della formula – dispensata per via orale.
Dopo pochi secondi, il soggetto A. inizia a mostrare i primi effetti: calore diffuso, gola secca, fatica a respirare, arrossamento del volto e della superficie della pelle in generale. Il soggetto ha un crollo e perde conoscenza. Diagnostico febbre nervosa.
Rimandare i successivi esperimenti.

Gli appunti del 2 settembre si concludevano in quel modo. Le annotazioni seguenti erano del 7 dello stesso mese, ma riportavano grosso modo le stesse informazioni: probabilmente l’esperimento non era andato a buon fine neppure la seconda volta.
Notò che qualcuno aveva strappato con furia dei fogli, ma questi erano stati raccolti e infilati in mezzo al diario come per paura di perderli – forse quel qualcuno si era pentito di aver rovinato il diario. Alcune pagine erano più accartocciate di altre, altre erano più leggibili, qualcuna era addirittura macchiata di una qualche sostanza non meglio identificata. Sangue, forse? Con quella luce non avrebbe saputo dirlo.

22 ottobre 1889, ore 23:45.
Quarto esperimento su soggetto umano.
Dose tripla – due grammi di sale in più. Ho iniettato cinque centilitri della formula per via endovenosa.
Il soggetto mostra gli effetti consueti: calore diffuso, gola secca, fatica a respirare, arrossamento del volto e della superficie della pelle, vene ingrossate, inconsueto (e singolare) attacco d’euforia…

Da quel momento in poi gli appunti diventavano frenetici, confusi, difficoltosi da decifrare, ed Emma dovette stringere gli occhi per capire cosa ci fosse scritto sotto le sbavature di inchiostro secco.

…il soggetto da segni di insofferenza, dolore. Emette versi animali, ringhia, si graffia, in un barlume di lucidità chiede aiuto, no!, chiede di morire, di ucciderlo, ride e piange, ulula, si dimena all’interno della gabbia…

Le pagine successive erano bianche. Perplessa, Emma sfogliò il diario all’indietro, saltando le parti che aveva già letto e tornando al principio. Qui, il diario sembrava contenere ancora semplici pensieri di colui che lo possedeva – evidentemente doveva essersi trasformato solo in seguito in una raccolta caotica di dati e indagini scientifiche.
Nella pagina del 12 agosto, Emma lesse:

Finalmente vedo un barlume di possibilità per i miei studi. Il mio caro amico Edgar mi ha promesso che mi avrebbe fornito tutto il necessario per il mio esperimento, e benché al momento non riesca a capire come diavolo faccia a pensare di potermi aiutare, nutro comunque un profondo sentimento di gratitudine nei suoi confronti, poiché è l’unico a non avermi bollato come folle e visionario quando gli parlai per la prima volta della mia approfondita analisi dell’animo umano.

Sarebbe di certo rimasta a leggere, se non si fosse accorta che la lanterna che si era portata appresso iniziava a indebolire la sua luce, segno che l’olio stava per finire. Temendo di rimanere al buio in quella zona sconosciuta del castello, Emma prese il diario e si diresse frettolosamente verso la porta, guardandosi intorno un’ultima volta come per memorizzare quello strano laboratorio. Chissà se sarebbe riuscita a ritrovarlo l’indomani, pensò dispiaciuta.
Quando tornò nuovamente nell’ala Est – dovette ammettere di aver trovato il percorso inverso abbastanza facile da percorrere – Emma trovò tutti e tre i domestici in uno stato di profonda agitazione, mentre la cercavano in lungo e in largo da quando, dopo pranzo, era “scomparsa”. Mrs. Duncan e Lydia avevano gli occhi rossi come se avessero pianto a lungo, mentre il signor Duncan sembrava solo molto invecchiato. Emma prese a scendere le scale con una strana prudenza, la fronte aggrottata dinnanzi al comportamento dei domestici, e per chissà quale motivo ebbe la premura di nascondere dietro le spalle il diario del dottor Murray. «C’è qualche problema, signora Duncan?» Domandò ad alta voce, in modo da attirare la loro attenzione.
La donna si voltò con uno scatto nervoso verso di lei, sgranando gli occhi e facendosi rapidamente il segno della croce, quasi che avesse visto un’apparizione. «Oh, buon Dio, milady, vi abbiamo cercata tutto il pomeriggio!» Esclamò ansimante, facendo qualche passo nella sua direzione. «Eravamo così spaventati, pensavamo che… che…» Mrs. Duncan tacque, imbarazzata, incapace di spiegarsi e innervosita dallo sguardo interrogativo della giovane padrona.
«Che mi fossi persa?» Offrì quest’ultima, dubbiosa; non comprendeva il loro affanno, dato che non si era di certo avventurata da sola nei boschi. Era nel suo pieno diritto esplorare il maniero, no? «Sì, in effetti ho girato a vuoto per un po’, ma come vedete sono di nuovo qui sana e salva. Novità su miss Radcliffe?» Chiese, arrivando finalmente in fondo alla scalinata e fermandosi accanto all’anziana custode.
«Nessuna, purtroppo. Ma, milady, non potete sparire così, all’improvviso…» Insisté la signora Duncan, con una strana vocetta lamentosa che stonava con il suo aspetto da matrona imperscrutabile.
«Inizio a credere che mi sia vietato gironzolare a mio piacimento nella mia stessa casa, Mrs. Duncan», la interruppe Emma, così freddamente da mettere a tacere ogni protesta sul nascere. «C’è qualcosa di cui non sono a conoscenza? Il castello è forse un luogo pericoloso per chi lo esplora senza accompagnatore?»
Il signor Duncan spostò lo sguardo dalla moglie alla padrona e viceversa, in silenzio, come se fosse in fremente attesa di una risposta al pari di Emma; Lydia, dal canto suo, teneva gli occhi bassi e le mani strette in grembo, come se temesse di venire punita da un momento all’altro. Emma si concentrò nuovamente sulla governante, impassibile, decisa a non farsi muovere a compassione dall’aria smarrita della donna. Le era sempre stato insegnato di trattare in modo giusto ed equo i suoi inferiori, e di rispettare coloro che erano più anziani di lei, ma al momento si ritrovava a dover ricoprire da sola il ruolo di signora del maniero nonché di fare le veci del padre, e che fosse dannata se si fosse lasciata mettere i piedi in testa da un piccolo stuolo di domestici misteriosi!
«Allora, Mrs. Duncan? Dovete dirmi qualcosa?» La spronò, gelida.
La donna sospirò piano, prima di scuotere lentamente il capo. «No, milady. Non c’è nulla che io vi debba dire», fu la sua pacata risposta.
I suoi occhi parevano voler sfuggire quelli di Emma, che però non glielo permise. «Ne siete sicura?»
Mrs. Duncan impallidì impercettibilmente a quel tono sferzante che non le aveva mai sentito usare, e quando la fissò lo fece con un’espressione che la giovane poté solo definire intimorita. «Ah, volevo dire… volevo aggiungere… che sono profondamente mortificata per il mio, il nostro, comportamento. Vi chiedo perdono, milady. Ovviamente siete padrona del castello, e potete andare dove volete». Sembrò che ciascuna di quelle parole le costasse infinitamente, eppure non esitò un solo istante nel pronunciarle.
«Bene. Siete liberi di andare, adesso», li congedò poi, come se fosse stata lei a convocarli. Fece per risalire le scale, ma si interruppe a metà di un passo e tornò a voltarsi verso i domestici. «Ah, signora Duncan?»
«Sì, milady?»
«Non disturbatevi a preparare la sala da pranzo per la cena di stasera. Mangerò nella mia stanza», ordinò, imitando alla perfezione il tono che più volte aveva udito utilizzare dalla contessa sua madre.
Dopodiché, senza aspettare la risposta della governante, le diede le spalle e salì le scale come chi ha tutto il tempo del mondo a disposizione. Aveva finito di lasciare che i signori Duncan governassero la casa, e lei.
Pemberley Manor era sua.




*




Basse nuvole grigie erano così ammassate sull’orizzonte da rendere l’aria soffocante come in un afoso giorno d’estate; affacciandosi alla finestra era impossibile vedere altro che non fosse la fitta nebbia che circondava il castello e lo strano cupo colorito arancione e grigio che tingeva il cielo. La pioggia picchiava incessantemente sui vetri da quel mattino, e aveva smesso solo per pochi minuti verso l’ora di pranzo: sembrava che volesse venir giù l’intera volta celeste. Malgrado questo, il signor Duncan era andato al villaggio solo per spedire le lettere della padrona, e se qualche giorno prima lei glielo avrebbe impedito – non era il caso che uscisse di casa con quella tempesta, e alla sua età, poi – adesso che si stava sforzando di mostrarsi severa e determinata come una decente padrona di casa non credeva che mostrarsi pietosa potesse giovare alla sua persona.
Eppure ciò non le impediva di sentirsi intimamente in colpa.
Emma, seduta su di una poltroncina accanto al letto di miss Radcliffe, con Aramis accucciato ai suoi piedi, cercava di trovare una distrazione nella sempre più interessante lettura del diario del misterioso dottor Murray, immergendovisi pagina dopo pagina.

…Questa mattina ho presentato la mia ricerca ai governatori dell’ospedale di St. Jude per la terza volta: inutile dire che, come già accaduto in passato, non sono stato preso sul serio e, anzi, sono stato denigrato e umiliato da coloro che dovrebbero accogliere con entusiasmo ogni idea nuova e rivoluzionaria. Ma niente: sono stato tacciato ancora una volta di blasfemia, sacrilegio e – udite udite, sono un eretico!, questa mi giunge nuova!
Ero così furioso che, temo, avrei potuto aggredire qualcuno se non ci fosse stato il dottor Utterson a placare gli animi e trascinarmi via da quel maledetto ufficio.
Ciò che i miei colleghi non comprendono, o forse semplicemente faticano ad accettare, è che siamo all’alba di una nuova era, alle soglie di una rivoluzione, e che ciò che faccio potrebbe essere in grado di modificare di sana pianta il mondo come oggi lo conosciamo! Chi sono loro per giudicare il mio lavoro? Quei vecchi dottori – ormai stento a definirli scienziati – non vedono ciò che io vedo, non sanno niente delle infinite possibilità che questi studi ci pongono innanzi, e quel che è peggio è che non permettono a chi ha una mente più aperta della loro di progredire, di superarli!
Quel che mi prefiggo di fare mi appare così chiaro davanti agli occhi, con la stessa intrigante bellezza di una visione; è così semplice! Se avessi il loro benestare, se avessi la loro fiducia, potrei davvero dimostrare in modo concreto come scindere i due lati dell’animo umano: potrei sgravare chiunque del peso di quel fardello di sentimenti bestiali che ci spingono a compiere orride malefatte e azioni riprovevoli, e lasciare intatta solo la parte buona, gentile, compassionevole propria dell’uomo. Ciascuno di noi è custode di un lato benigno e uno maligno – non lo insegnano forse anche ai bambini? Ebbene, non sarebbe forse più semplice la vita se quest’ultimo aspetto, questa sordida entità, fosse estirpata per sempre? Dopo anni di ricerche e, lo ammetto, numerosi fallimenti, io ho infine trovato un modo per far sì che una simile utopia diventi reale, eppure a causa della cecità di chi tiene le redini del progresso scientifico sono interdetto dal renderla reale, e per cosa!, perché le mie idee vengono ritenute sciocche, avanguardistiche e prive di fondamenta!
Forse dovrei prendere delle altre strade; ricorrere a mezzi alternativi. E allora, una volta messi davanti al fatto compiuto, quei vecchi stolti non potranno fare altro che riconoscere il mio genio, e darmi il posto che mi spetta…!

Emma voltò pagina, mordicchiandosi un dito nella concentrazione della lettura.

C’è qualcosa di glorioso e sublime nel possedere la capacità di dividere l’uomo dal demone maledetto che ne infetta l’anima, e di vedere quel sottile confine ch’egli supera ogniqualvolta permette al male di trascinarlo con sé nel baratro, rendendolo monco, rendendolo meno umano. Non ci è dato sapere per quale motivo l’uomo possegga queste due tendenze comportamentali così differenti – l’una votata al bene in tutta la sua grandezza, l’altra al male assoluto – così è, e con questo bisogna convivere. Ma ciò non ci impedisce di trovare una soluzione, di scoprire una medicina, chiamiamola così, capace di riportarci sulla retta via!
Si pensi per un istante a ciò che comporterebbe questa formula, una formula che guarisce lo spirito!
Come dice lo stesso Paracelso, “Chi vuole conoscere l'uomo deve guardarlo nel suo complesso e non come una struttura messa su alla meglio. Se trova malata una parte del corpo, deve cercare le cause che producono tale malattia e non limitarsi a trattare gli effetti esterni”; ebbene, ciò è il fulcro stesso della mia opera!
A livello teorico, si potrebbe riassumere la mia operazione con un’immagine semplice e allo stesso tempo terribilmente concisa: ecco, si tratta di tagliare via la parte marcia di una mela.
E dare così vita alla prima creatura di una nuova specie!

Saltò a piè pari pagine e pagine di calcoli, formule, disegni geometrici e disegni di organi umani – in particolar modo di cervelli tagliati a metà e accuratamente sezionati, come se per ricopiarli avesse usato dei soggetti reali – per poi passare a nuove pagine di quegli appunti filosofeggianti che trovava tanto curiosi.

Forse non è esattamente corretto affermare che in ogni uomo vi sia la stessa quantità di bene e male: può darsi che esse varino da individuo a individuo, o altrimenti non sarebbe possibile spiegare per quale motivo certuni sono più propensi ad operare il bene di altri. Si tratta solo di un forte senso dell’onore, di una radicata morale da cui è impensabile distaccarsi? O è, come io ipotizzo, dipendente dalla misura in cui vengono distribuite queste due “personalità”?
Ritengo che sia una questione di genetica: così come i figli di un maschio moro e di una femmina bionda possono essere a loro volta o biondi o scuri, allora possono anche essere o più buoni e meno malvagi, o meno buoni e più malvagi, in base a ciò che i genitori possiedono nel loro animo.
Rileggendo il mio diario, mi accorgo da me come in alcuni punti io possa sembrare assolutamente folle; eppure sono sicuro e privo di dubbio su ciò che dico – non sono vaneggiamenti, questa è pura scienza!

«Caro dottor Murray, mi permetto di contraddirvi…» Mormorò Emma aggrottando la fronte con aria perplessa, per poi voltare ancora pagina.

Il mio siero funziona come una normale medicina: non ho ancora deciso in quale modo sia più facile somministrarlo – per via orale o per via endovenosa? In quale dei due casi ci sono più possibilità che faccia effetto? – mi riservo la facoltà di prendere una decisione all’ultimo minuto.
Nel frattempo, ecco una lista di alcuni ingredienti che mi saranno indispensabili, io credo, per il mio esperimento…

Seguivano altri dati e quantità di sostanze che Emma non conosceva, così saltò quella parte, ma ormai aveva letto tutto ciò che poteva comprendere. C’erano anche parecchie pagine mancanti, si vedeva dai lembi di carta rimasti miracolosamente attaccati al quaderno dopo la furia dello strappo, e si domandò se fosse stato il dottore a toglierli, magari appallottolandoli e gettandoli tra le braci del camino per eliminare ogni prova dei suoi macabri esperimenti, o se potesse essere stato qualcun altro. Ma chi? Con un sospiro chiuse il quaderno, tenendovi un dito in mezzo a mo’ di segnalibro. Non riusciva a capire che cosa potesse farci un diario del genere a Pemberley Manor – dubitava che fosse appartenuto a qualcuno dei vecchi proprietari, dato che da quello che era riuscita a scoprire sull’uomo che lo aveva redatto con così tanta folle cura si trattava di un personaggio comune, un dottore o uno scienziato, che non aveva legami con i conti di Rochester.
E poi, che cos’erano tutti quegli esperimenti? Era riuscito davvero a trovare qualcuno a cui iniettare la sua assurda formula? E il modo in cui la scrittura del diario si interrompeva così bruscamente aveva forse qualcosa a che vedere con l’esito sfortunato di quegli esami?
Si domandò se i signori Duncan conoscessero questo dottor Murray – ma poi, rifletté da sé, era probabile che anche se avessero saputo qualcosa al riguardo non gliene avrebbero parlato.
Sollevò lo sguardo su miss Radcliffe, che da due giorni ormai giaceva a letto senza dar segno di migliorare in alcun modo: era ancora pallida e incosciente, ma sembrava deperita e sotto gli occhi si erano formate delle ombre scure che non le piacevano per niente. Come avrebbe dovuto supporre, il dottore non era ancora andato al maniero – adducendo la scusa del tempo avverso e di numerosi pazienti più gravi che richiedevano la sua presenza al villaggio. Era più che sicura che se fosse stato sir Carlisle a richiedere una visita a domicilio del medico, egli non avrebbe fatto tutte quelle storie.
Emma sbuffò, innervosita, tamburellando le dita sul bracciolo della poltrona. Che cosa ridicola, aver paura di una casa…














[1] Locuzione latina, tratta dalla favola esopiana De ranis (Delle ranocchie, serpente e legno) il cui autore è un anonimo medievale che si potrebbe identificare con Gualtiero Anglico; ha il significato di: Chi sa appartenere a se stesso non sia di nessun altro.



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Angolo Autrice.
Ed eccoci di nuovo qui, dopo un mese dall'ultimo aggiornamento! Chiedo umilmente scusa per avervi fatto aspettare, ma questo capitolo, come avrete immaginato leggendolo (che malloppone pesante!), è stato un po' arduo da scrivere. Prometto che dal prossimo tornerà un po' d'azione!
Intanto, facciamo l'indiretta conoscenza di un altro personaggio (spuntano come funghi!), che in passato ha avuto un ruolo decisivo: tale dottor Murray, il cui diario è davvero parecchio strano... / stranezza resa ancora più acuta dalla mia incapacità di partorire pensieri abbastanza filosofici, indi per cui chiedo perdono per non essere riuscita a renderli come avrei voluto. D:
[Uh uh, visto che siete approdate su queste rive suppongo che vi piaccia il noir e il macabro in generale, per cui se non sono troppo indiscreta vorrei farvi leggere una one-shot che ho scritto recentemente, ispirata da una puntata della serie TV Hannibal, ma sul fandom del Phantom of the Opera: Circunderunt me fluctus mortis. *___* Sì, ultimamente mi prende così.]
Okay, spazio auto-pubblicitario terminato, torniamo alle cose serie.
Ringrazio infinitamente Homicidal Maniac, SnowFlakes8D, Sylphs e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - grazie, fanciulle, grazie mille! Mi ispirate e mi spronate a continuare ♥ E grazie mille anche ai miei cari lettori silenziosi! Lo so che siete timidi ma che ci siete, e lovvo tanto anche voi ♥
[Ps: un applauso alla spina dorsale ritrovata di Emma! Yeeeah.]
Baci e abbracci come al solito, tanto amore dalla vostra
Niglia.
   
 
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