4.
The Strange Journal of Dr. Murray
Come
promesso, Emma rimase tutta la notte accanto a miss Radcliffe. Di tanto
in
tanto scivolava in un sonno leggero, spossante, e a un certo punto,
durante
questi intermezzi, le parve di vedere – ma non poteva dire di
esserne sicura –
nel dormiveglia, un’ombra scura curva sul letto della sua
istitutrice, come a
volerne controllare il respiro, con l’aria miasmatica
dell’incubo; doveva
comunque essersi trattato di una visione, perché la figura
era scomparsa tanto
in fretta da farle dubitare addirittura che ci fosse stata –
e non sembrava,
peraltro, appartenere a nessuno dei domestici. Ma a un certo punto
della notte
le candele si erano consumate e la stanza era precipitata nel buio, se
si
escludeva un lieve bagliore proveniente dalle braci della stufa, ed
Emma si
convinse di aver solo sognato.
Fu
una mano gentile a scuoterla piano fino a svegliarla,
l’indomani mattina. Lydia
le aveva portato del caffè con un goccio di latte, e, mentre
Emma si sforzava
di riprendersi dalla posizione scomoda in cui aveva dormicchiato per
tutta la
notte, la ragazza si affaccendò ad aprire le tende,
schiudere appena la
finestra per cambiare l’aria, aggiungere dei ciocchi di legno
alla stufa e
andare a svuotare il vaso da notte. Prima che sparisse fuori dalla
stanza per
quest’ultima incombenza, però, Emma
attirò la sua attenzione.
«Dov’è
Mrs. Duncan?» Domandò, con la voce ancora
impastata dal sonno. Ormai aveva
imparato a comunicare con la giovane, così quando Lydia
iniziò a gesticolare
Emma comprese che la donna era da qualche parte al pianterreno,
probabilmente
in cucina.
Bene, pensò. «Vado un momento
nella
mia stanza a vestirmi e a prepararmi, allora… No, Lydia, non
c’è bisogno che
venga anche tu, ma grazie lo stesso», aggiunse con un mezzo
sorriso,
interrompendo i gesti della ragazza. Lasciò la camera di
miss Radcliffe così in
fretta che la domestica non poté trattenerla in alcun modo,
limitandosi a
fissare sconsolata la porta dalla quale Emma era uscita: la signora
Duncan le
aveva ripetuto all’infinito che non bisognava lasciar sola la
padrona per alcun
motivo e in nessun momento, ma ciò che la governante non
sapeva non poteva
turbarla, giusto?
Rassegnata
e impotente, Lydia tornò alle sue faccende.
Quando
più tardi Emma scese al pianterreno per la colazione,
trovò Mrs. Duncan intenta
a preparare la tavola e a disporre le varie pietanze. Aramis le venne
incontro
scodinzolando – era probabile che l’avessero tenuto
fuori, nelle stalle, per
tutta la notte, dato che la sua padrona era impegnata con
l’istitutrice – e la
sua fu l’unica accoglienza festosa che ricevette. La
governante era
incredibilmente pallida e aveva un’aria stanca e provata,
come se a sua volta
non avesse chiuso occhio.
«Avete
chiamato il dottore per miss Radcliffe, signora Duncan?»
Chiese Emma prendendo
posto a capotavola, piluccando dei crostini da un piatto e porgendoli
con due
dita ad Aramis.
«Dolph
è andato in paese questa mattina, milady. Dovrebbe essere di
ritorno per l’ora
di pranzo», fu la risposta della donna, impegnata a versarle
il tè. «Tuttavia,
milady, c’è la possibilità…
Ecco, che possa non venire nessuno.»
Emma
sollevò gli occhi su di lei, perplessa. «E per
quale motivo, se posso chiedere?»
«Sono
anni che viviamo a Pemberley in solitudine, milady, da quando sono
morti i
vecchi padroni… Al villaggio non ci vedono di buon occhio, e
tendono ad
evitarci. Nessuno ha più messo piede al castello da quando
ci vivevano i conti.
Per questo il signor Duncan deve fare continuamente avanti e indietro
da qui a
Heatherfield.»
«Ma
questo è ridicolo», proruppe Emma, accigliata.
«E neanche la presenza di una
nuova padrona di casa potrebbe far loro cambiare idea? Non possiamo
rimanere isolati
a Pemberley a causa delle superstizioni di un gruppo di contadini
ignoranti!»
«Purtroppo
questa non è la città a cui siete abituata,
milady», obiettò Mrs. Duncan con un
mezzo sorriso di scusa. «In campagna vigono leggi differenti.
Ad ogni modo vi
prometto che faremo del nostro meglio per far arrivare qui il
dottore.»
«Bene»,
mormorò Emma, benché poco convinta.
«Non vorrei che le condizioni di miss
Radcliffe peggiorassero. Non si è mai ammalata prima
d’ora.»
«Potrebbe
aver preso un’infreddatura ieri mattina»,
ipotizzò la governante, riempiendo d’acqua
la ciotola di Aramis posta accanto al camino. Il cucciolo
ringhiò appena,
avvicinandosi a bere solo quando la donna si fu allontanata.
La
giovane lady era così sovrappensiero da non accorgersi
neppure dello strano
comportamento del suo cane, e continuò a sbocconcellare una
tartina al salmone
con lo sguardo perso nel vuoto. Quando ebbe finito – doveva
ammettere di non
avere poi così tanto appetito – scostò
la sedia e si alzò, sistemandosi con un
gesto abituale la gonna del vestito. «Rimarrò in
biblioteca tutta la mattina,
signora Duncan, devo portarmi avanti con lo studio anche senza
l’aiuto di miss
Radcliffe. Chiamatemi per il pranzo, e se dovessero esserci
miglioramenti o
peggioramenti delle condizioni della nostra paziente»,
dispose, attirando
Aramis con uno schiocco delle dita.
«Certo,
milady. Buon lavoro», le augurò la governante.
Quando Emma abbandonò la sala da
pranzo, Mrs. Duncan liberò un lungo sospiro di sollievo.
Emma
approfittò della mattinata per scrivere finalmente una
lettera al padre e una a
Caledon, che malgrado tutto meritava di ricevere almeno una parola da
parte sua
– dopotutto si trattava pur sempre del suo fidanzato. Al
padre accennò dell’infreddatura
di miss Radcliffe ma lo assicurò di non preoccuparsi, gli
raccontò di sir
Carlisle – l’affabile e disponibile gentiluomo che
potevano vantare come vicino
di casa – e parlò brevemente anche dei domestici,
senza tuttavia entrare troppo
nei particolari: sapeva che di loro doveva avergliene già
parlato abbondantemente
la sua istitutrice nella lettera precedente, e non voleva in alcun modo
allarmare il genitore. Per questo tacque anche la faccenda
dell’incidente dei
vecchi proprietari di Pemberley: in primo luogo confidava che suo padre
ne
fosse già a conoscenza, e inoltre temeva che, prendendo lei
l’argomento, lord
Grantham potesse desumere che lei non si trovasse del tutto a suo agio
con l’idea.
Gli domandò per quanto tempo ancora gli affari lo avrebbero
trattenuto a
Londra, e quando contava di raggiungerla in campagna; concludeva
ammettendo di sentire
la sua mancanza, e che desiderava trascorrere del tempo insieme a lui.
La
lettera per Caledon fu invece molto più breve, e richiese un
maggiore impegno
da parte sua per essere redatta. Era una di quelle lettere che la
società le
imponeva di scrivere – doveva mantenere i contatti con il suo
futuro marito, e
inoltre non si era ancora giustificata di persona per la sua partenza
brusca e
improvvisa dopo il funerale della madre – ma che lei non
aveva idea di come
fare. Gettò nel fuoco parecchi tentativi abortiti di quella
maledetta lettera,
prima di riuscire a trovare qualcosa di interessante e affettuoso da
dirgli; e,
quando ciò accadde, mise per iscritto tutto d’un
fiato ciò che le danzava sulla
punta della lingua. Il risultato fu una versione più corta,
fresca e
leggermente imbarazzata della lettera che aveva scritto per suo padre,
ma come
inizio poteva andare. La rilesse un paio di volte, aggiunse qualche
frase e
qualche carineria, poi posò la stilografica –
regalo di Cal, che sapeva quanto
la sua fidanzata amasse scrivere – e passò a
sigillare entrambe le lettere. Le avrebbe
consegnate al signor Duncan quando fosse rientrato dal villaggio, in
modo che
le spedisse il giorno dopo.
Visto
che dopo pranzo non c’era altro che potesse fare per miss
Radcliffe, che
continuava a sonnecchiare e alternare momenti di allucinazioni a
momenti di
gemiti sofferenti, se non sperare che il dottore trovasse un
po’ di coraggio
per raggiungere Pemberley Manor a visitarla, Emma decise di mettere a
frutto il
tempo libero che l’assenza delle sue lezioni e delle ore di
studio quotidiane
le avevano procurato.
Adesso
che poteva ispezionarla in tutta calma, Emma capita finalmente che cosa
aveva
voluto intendere Mrs. Duncan quando le aveva detto che Pemberley Manor
non era
stata costruita secondo un modello architettonico unico e calcolato
come una
qualsiasi magione seicentesca – non aveva, come Hambleton
Abbey, delle ampie
vetrate poste ad illuminare saloni e gallerie così vaste da
dare quasi
l’impressione di trovarsi all’aria aperta, e
neppure un ordine ragionato per la
disposizione delle stanze e degli ambienti. La sua nuova casa,
contrariamente a
ciò che le era stato detto dalla governante, sembrava molto
più vecchia e
antica – specialmente nelle parti disabitate, dove non era
stato portato il
restauro del progresso – costruita più per
confondere e distrarre gli eventuali
nemici che vi si sarebbero potuti infiltrare che non per rendere
agevole la
vita degli abitanti. Era probabile che l’abitazione attuale
fosse nata da un
precedente ampliamento della costruzione originaria, quasi sicuramente
un
castello cinquecentesco, che a sua volta si era trasformato nel cuore
pressoché
irraggiungibile del maniero dal quale avevano iniziato a dipanarsi
altre gallerie,
ali, scalinate, torri e saloni – ognuno appartenente alla
propria epoca; ciò
dava l’impressione di compiere un inquietante viaggio nel
tempo man mano che ci
si addentrava nel nucleo di Pemberley, e ci si allontanava allo stesso
tempo
dalla luce del sole e dalla zona sicura.
Appena
messo piede nel primo corridoio disabitato, una strana sensazione di
pericolo parve
gelarle il sangue che le scorreva nelle vene: aveva
l’impressione di essersi
spinta troppo in là, di aver varcato quasi la soglia di un
altro mondo o di un’altra
abitazione, e peggio ancora, di un’abitazione che non
apparteneva a lei, ma a
qualcosa di maligno e infido. L’istinto la portò a
guardarsi intorno, a
lanciare un’occhiata alle proprie spalle: ma, come avrebbe
dovuto immaginare,
era da sola.
Passeggiare
per i corridoi deserti del maniero era come attraversare un vecchio
cimitero
abbandonato: nessuno ci passava più da tempo, ma la presenza
di chi lo aveva
abitato era tangibile in ogni angolo, e lasciava
l’inquietante sensazione che
la pressante ombra degli abitanti passati, cupa e minacciosa, si
annidasse alla
stregua di ragnatele tra i candelabri opachi e i quadri impolverati che
pendevano dalle pareti, incancellabile come le impronte ovali o
rettangolari
sulla tappezzeria – segno che davvero
tutti gli specchi erano spariti. C’era un forte odore di
muffa e chiazze di
umidità sulla tappezzeria, laddove essa non era strappata e
i lembi non
penzolavano come vecchi stracci abbandonati sulle pareti; le tende
rimaste
erano ingrigite dalla polvere, mangiucchiate dalle termiti e
appesantite dall’acqua
che colava dagli spifferi degli infissi. Emma stentava quasi a credere
di
trovarsi ancora a Pemberley – la differenza tra questa ala e
quella dove stava
abitando insieme ai domestici era indescrivibile.
Quando
Mrs. Duncan le aveva descritto Pemberley come un labirinto, lei non ci
aveva
creduto; ma adesso, mentre percorreva lunghe gallerie che sembravano
non voler
portare da nessuna parte se non nel punto da cui era partita, dovette
accettare
l’errore e ammettere di essersi persa. Forse, se avesse
trovato una finestra,
avrebbe potuto capire in che ala si trovava e provare a tornare
indietro di
conseguenza, ma finora tutti i corridoi erano rigorosamente privi di
qualsiasi
fenditura, e l’unica luce era quella della piccola lanterna
che aveva pensato
bene di portarsi appresso nell’eventualità che una
sola candela non fosse
abbastanza.
Sollevò
il braccio, illuminando uno dei quadri appesi alla parete alla sua
destra: al
di sotto dello strato di polvere, riuscì ad intravedere i
resti del ritratto di
un signore elegante e distinto, in abiti militari, del quale non si
vedeva la
testa – in quel punto la tela era stata squarciata,
probabilmente da una lama
affilata – e che teneva sotto ad un braccio un elmo piumato.
Aggrottando la
fronte davanti allo scempio incomprensibile di un’opera
d’arte – a giudicare
dalla divisa da ufficiale ritratta, infatti, il dipinto doveva avere
almeno una
settantina d’anni – Emma avanzò e
passò oltre, portando la luce su un altro
quadro. Anche qui, tutto ciò che rimaneva integro era il
corpo del signore,
mentre il viso era stato accuratamente squarciato; e così
pure, come scoprì
alla fine, in tutti gli altri quadri raffiguranti quelle che parevano
essere
state figure importanti. Neppure un solo ritratto era integro, ed Emma
non poté
fare a meno di domandarsi chi diavolo potesse avercela avuta
così a morte con
quei poveri soldati di epoche passate – ah, ma non
c’erano solo soldati, bensì
anche dame e qualche elegante ritratto di famiglia, con cinque o sei
persone
insieme – da distruggere l’unica immagine che di
loro sarebbe potuta rimanere.
E, soprattutto, perché nessuno dei domestici aveva mai
pensato di ritirare in
soffitta quei tristi dipinti, oppure di portarli da qualche
restauratore d’arte
per farli aggiustare? Un’abile mano sarebbe di certo riuscita
a riparare quei
danni…
Forse
i signori Duncan non avevano abbastanza denaro per affrontare simili
spese, e
considerando che erano solo loro ad occuparsi di Pemberley non poteva
neppure
biasimarli. Ne avrebbe parlato con suo padre nella prossima lettera,
decise –
di certo il conte di Grantham non si sarebbe lasciato scappare
l’opportunità di
fare una simile buona azione per il mondo dell’arte.
Proseguendo
la sua perlustrazione, Emma aveva sceso e salito delle piccole
gradinate così
spesso da farle dimenticare in quale piano si fosse trovata
effettivamente.
Quando ebbe la fortuna di trovare delle finestre, tanto per assicurarsi
che
fuori fosse ancora giorno, esse erano sprangate o inchiodate
– insomma,
impossibili per lei da aprire. Dopo un lento girovagare
iniziò dunque ad
avvertire la stanchezza, e l’infido seme del dubbio e della
paura attecchì nel
suo animo facendole venire un’idea inquietante: come avrebbe
fatto a tornare
indietro, se non aveva la più pallida idea di dove si
trovasse?
Preoccupata,
si fermò in mezzo al corridoio e sollevò la
lampada sopra la propria testa,
ruotando su sé stessa per individuare una qualche via
d’uscita o un punto
abbastanza familiare che l’aiutasse a tornare indietro. Come
avrebbe dovuto
aspettarsi, non trovò nulla.
Stava
già pensando di ricorrere a metodi estremi e provare a
urlare, nella speranza
che qualcuno dei domestici potesse sentirla, quando, nel terribile
silenzio che
l’avvolgeva, all’improvviso, udì un
rumore. Era un leggero strisciare, come di
chi cerca di camminare in punta di piedi e fallisce miseramente,
limitandosi a
trascinarsi goffamente sulla pietra del pavimento per evitare i tonfi
di una
camminata normale. Emma era impietrita, e se avesse avuto un briciolo
di
autocontrollo in meno avrebbe strillato; ma fortunatamente aveva
ricevuto una
diversa educazione ed era stata tenuta accuratamente lontana da
qualsivoglia
superstizione campagnola impedisse ai Duncan di vivere in modo sereno
nel castello.
«Chi
è là?» Chiamò ad alta voce,
sollevando il braccio che reggeva la lanterna per
illuminare laddove i suoi occhi non arrivavano. «Mrs. Duncan?
Lydia?»
Dall’oscurità
non giunse alcuna risposta. Il rumore comunque era cessato, ma proprio
nel
momento in cui la giovane tirava un sospiro di sollievo il brusco
stridio di
una porta che veniva aperta la fece sobbalzare e rabbrividire come una
qualsiasi bambina timorosa della sua stessa ombra.
Emma
non faticò a trovare la porta che si era misteriosamente
aperta: era l’unica
dalla quale pareva provenire un bagliore di luce, che fendeva come una
lama il
muro opposto del corridoio, ed era a pochi passi da lei.
Osservò la maniglia
per un tempo che le parve infinito, mentre decideva se entrare o
proseguire e
lasciarsi alle spalle qualunque fosse il mistero celato dietro
quell’uscio.
Quando
infine trovò il coraggio di varcare la soglia, si sorprese
di vedere che qui le
finestre erano completamente spalancate: non c’erano tende,
che giacevano
strappate sul pavimento, e neppure assi di legno inchiodate alle
intelaiature.
Dal vetro sporco degli scuri entrava la luce arancione del sole che
tramontava
in lontananza, dietro le colline, inondando piacevolmente la stanza.
Emma
allora sobbalzò, rendendosi conto finalmente di dove si
trovava: era nell’ala Ovest.
Istintivamente
preoccupata si guardò intorno, come se si aspettasse di
venire aggredita da un
momento all’altro, ma il silenzio tombale che la circondava
la rincuorò sul suo
destino, e poté darsi mentalmente della sciocca per aver
avuto paura anche solo
per un istante.
Di
nuovo padrona di sé stessa, Emma prese a curiosare nella
stanza, che pareva il
vero e proprio studio di un pittore. C’erano cavalletti,
pennelli sporchi,
stracci macchiati di pittura, vasi contenenti fiori secchi e fogli
zeppi di
schizzi fatti a carboncino appesi in ogni angolo vuoto delle pareti.
Emma
posò la lampada su un tavolino sgombro, e passò
ad ammirare le tele poggiate le
une sulle altre contro ogni mobile presente nella stanza.
Trovò numerosi
paesaggi, scorci dei boschi e delle colline che circondavano Pemberley,
e
quadri incompiuti di oggetti – gioielli, guanti, maschere, in
un tripudio di
colori o semplicemente in bianco e nero – ma il soggetto
principale sembrava
essere il castello stesso. Una torre era stata disegnata e dipinta fino
al più
piccolo particolare, e così pure una stanza, o un corridoio,
o una scalinata; e
qui non c’erano colori vivaci, ma tonalità cupe,
soffocanti, terribili, tanto
inquietanti che Emma cessò di osservare le tele e
indietreggiò di qualche
passo, improvvisamente infreddolita.
Riconosceva
la bravura dell’autore – e, chiunque fosse stato il
proprietario di quel
piccolo tesoro dipinto, di certo non era lo stesso che si era occupato
dei
quadri del corridoio – ma quelle opere la mettevano a
disagio; non sapeva bene
dire perché. Si riappropriò dunque della lampada
e lasciò la stanza, chiudendo
con cura la porta alle proprie spalle e ripiombando nella penombra del
corridoio. I suoi occhi faticarono un po’ a riabituarsi
all’assenza di luce, ma
quando accadde Emma fece un sospiro e cercò di tornare
indietro.
Non
dovette gironzolare a lungo, stavolta, prima di trovare il laboratorio.
La
porta, una delle poche che non erano chiuse a chiave, si
aprì con facilità, scivolando
silenziosa sui cardini come se non fosse rimasta in disuso a lungo.
Sfortunatamente
qui le finestre erano ben serrate, così fu la luce
giallognola della lampada a
posarsi su tavoli sporchi e impolverati, su ampolle di vetro e
cristallo e
piccoli decanter in cui sembrava esserci ancora qualche sostanza verde,
di un
verde brillante, magnetico; Emma rabbrividì istintivamente
– per qualche strano
motivo aveva sempre associato il verde a qualcosa di tossico e
velenoso.
Su
una scrivania abbastanza sgombra, occupata soltanto da fogli, penne e
calamai
che un tempo dovevano aver contenuto dell’inchiostro blu,
Emma trovò un
quaderno grosso e spesso, con la copertina in pelle consunta e sporca
– erano
impronte di grasso o di olio? – e che tuttavia non doveva
essere così vecchio
come sembrava. Sul frontespizio, infatti, si poteva ancora leggere
l’anno in
cui era stato stampato – doveva essere una di quelle agende
che utilizzavano gli
studiosi, o i ragazzi dell’università: la data era
1889.
Sulla
prima pagina interna, dietro la copertina ammuffita, lesse: Proprietà
del dottor J. H. Murray, scritto
in eleganti lettere corsive. Più sotto, una citazione in
latino scritta a mo’
di epigrafe dal medesimo pugno: alterius
non sit qui suus esse potest [1].
Incuriosita,
Emma aprì il diario e lo sfogliò, fermandosi poi
su di una pagina a caso, tra
le ultime.
2 settembre 1889,
ore 19:23.
Primo esperimento
su soggetto umano.
Dose leggera della
formula – dispensata per via orale.
Dopo pochi secondi,
il soggetto A. inizia a mostrare i primi effetti: calore diffuso, gola
secca,
fatica a respirare, arrossamento del volto e della superficie della
pelle in
generale. Il soggetto ha un crollo e perde conoscenza. Diagnostico
febbre
nervosa.
Rimandare i
successivi esperimenti.
Gli
appunti del 2 settembre si concludevano in quel modo. Le annotazioni
seguenti erano
del 7 dello stesso mese, ma riportavano grosso modo le stesse
informazioni:
probabilmente l’esperimento non era andato a buon fine
neppure la seconda volta.
Notò
che qualcuno aveva strappato con furia dei fogli, ma questi erano stati
raccolti e infilati in mezzo al diario come per paura di perderli
– forse quel
qualcuno si era pentito di aver rovinato il diario. Alcune pagine erano
più
accartocciate di altre, altre erano più leggibili, qualcuna
era addirittura
macchiata di una qualche sostanza non meglio identificata. Sangue,
forse? Con
quella luce non avrebbe saputo dirlo.
22 ottobre 1889,
ore 23:45.
Quarto esperimento
su soggetto umano.
Dose tripla – due
grammi di sale in più. Ho iniettato cinque centilitri della
formula per via
endovenosa.
Il soggetto mostra
gli effetti consueti: calore diffuso, gola secca, fatica a respirare,
arrossamento del volto e della superficie della pelle, vene ingrossate,
inconsueto (e singolare) attacco d’euforia…
Da
quel momento in poi gli appunti diventavano frenetici, confusi,
difficoltosi da
decifrare, ed Emma dovette stringere gli occhi per capire cosa ci fosse
scritto
sotto le sbavature di inchiostro secco.
…il soggetto da
segni di insofferenza, dolore. Emette versi animali, ringhia, si
graffia, in un
barlume di lucidità chiede aiuto, no!, chiede di morire, di
ucciderlo, ride e
piange, ulula, si dimena all’interno della gabbia…
Le
pagine successive erano bianche. Perplessa, Emma sfogliò il
diario
all’indietro, saltando le parti che aveva già
letto e tornando al principio.
Qui, il diario sembrava contenere ancora semplici pensieri di colui che
lo
possedeva – evidentemente doveva essersi trasformato solo in
seguito in una
raccolta caotica di dati e indagini scientifiche.
Nella
pagina del 12 agosto, Emma lesse:
Finalmente vedo un
barlume di possibilità per i miei studi. Il mio caro amico
Edgar mi ha promesso
che mi avrebbe fornito tutto il necessario per il mio esperimento, e
benché al
momento non riesca a capire come diavolo faccia a pensare di potermi
aiutare,
nutro comunque un profondo sentimento di gratitudine nei suoi
confronti, poiché
è l’unico a non avermi bollato come folle e
visionario quando gli parlai per la
prima volta della mia approfondita analisi dell’animo umano.
Sarebbe
di certo rimasta a leggere, se non si fosse accorta che la lanterna che
si era
portata appresso iniziava a indebolire la sua luce, segno che
l’olio stava per
finire. Temendo di rimanere al buio in quella zona sconosciuta del
castello,
Emma prese il diario e si diresse frettolosamente verso la porta,
guardandosi
intorno un’ultima volta come per memorizzare quello strano
laboratorio. Chissà
se sarebbe riuscita a ritrovarlo l’indomani, pensò
dispiaciuta.
Quando
tornò nuovamente nell’ala Est – dovette
ammettere di aver trovato il percorso
inverso abbastanza facile da percorrere – Emma
trovò tutti e tre i domestici in
uno stato di profonda agitazione, mentre la cercavano in lungo e in
largo da
quando, dopo pranzo, era “scomparsa”. Mrs. Duncan e
Lydia avevano gli occhi
rossi come se avessero pianto a lungo, mentre il signor Duncan sembrava
solo
molto invecchiato. Emma prese a scendere le scale con una strana
prudenza, la
fronte aggrottata dinnanzi al comportamento dei domestici, e per
chissà quale
motivo ebbe la premura di nascondere dietro le spalle il diario del
dottor
Murray. «C’è qualche problema, signora
Duncan?» Domandò ad alta voce, in modo
da attirare la loro attenzione.
La
donna si voltò con uno scatto nervoso verso di lei,
sgranando gli occhi e
facendosi rapidamente il segno della croce, quasi che avesse visto
un’apparizione. «Oh, buon Dio, milady, vi abbiamo
cercata tutto il pomeriggio!»
Esclamò ansimante, facendo qualche passo nella sua
direzione. «Eravamo così
spaventati, pensavamo che… che…» Mrs.
Duncan tacque, imbarazzata, incapace di
spiegarsi e innervosita dallo sguardo interrogativo della giovane
padrona.
«Che
mi fossi persa?» Offrì quest’ultima,
dubbiosa; non comprendeva il loro affanno,
dato che non si era di certo avventurata da sola nei boschi. Era nel
suo pieno
diritto esplorare il maniero, no? «Sì, in effetti
ho girato a vuoto per un po’,
ma come vedete sono di nuovo qui sana e salva. Novità su
miss Radcliffe?»
Chiese, arrivando finalmente in fondo alla scalinata e fermandosi
accanto
all’anziana custode.
«Nessuna,
purtroppo. Ma, milady, non potete sparire così,
all’improvviso…» Insisté la
signora Duncan, con una strana vocetta lamentosa che stonava con il suo
aspetto
da matrona imperscrutabile.
«Inizio
a credere che mi sia vietato gironzolare a mio piacimento nella mia
stessa casa,
Mrs. Duncan», la interruppe Emma, così freddamente
da mettere a tacere ogni
protesta sul nascere. «C’è qualcosa di
cui non sono a conoscenza? Il castello è
forse un luogo pericoloso per chi lo esplora senza
accompagnatore?»
Il
signor Duncan spostò lo sguardo dalla moglie alla padrona e
viceversa, in
silenzio, come se fosse in fremente attesa di una risposta al pari di
Emma;
Lydia, dal canto suo, teneva gli occhi bassi e le mani strette in
grembo, come
se temesse di venire punita da un momento all’altro. Emma si
concentrò
nuovamente sulla governante, impassibile, decisa a non farsi muovere a
compassione dall’aria smarrita della donna. Le era sempre
stato insegnato di
trattare in modo giusto ed equo i suoi inferiori, e di rispettare
coloro che
erano più anziani di lei, ma al momento si ritrovava a dover
ricoprire da sola
il ruolo di signora del maniero nonché di fare le veci del
padre, e che fosse dannata
se si fosse lasciata mettere i piedi in testa da un piccolo stuolo di
domestici
misteriosi!
«Allora,
Mrs. Duncan? Dovete dirmi qualcosa?» La spronò,
gelida.
La
donna sospirò piano, prima di scuotere lentamente il capo.
«No, milady. Non c’è
nulla che io vi debba dire», fu la sua pacata risposta.
I
suoi occhi parevano voler sfuggire quelli di Emma, che però
non glielo permise.
«Ne siete sicura?»
Mrs.
Duncan impallidì impercettibilmente a quel tono sferzante
che non le aveva mai
sentito usare, e quando la fissò lo fece con
un’espressione che la giovane poté
solo definire intimorita. «Ah, volevo
dire… volevo aggiungere… che sono profondamente
mortificata per il mio, il
nostro, comportamento. Vi chiedo perdono, milady. Ovviamente siete
padrona del
castello, e potete andare dove volete». Sembrò che
ciascuna di quelle parole le
costasse infinitamente, eppure non esitò un solo istante nel
pronunciarle.
«Bene.
Siete liberi di andare, adesso», li congedò poi,
come se fosse stata lei a
convocarli. Fece per risalire le scale, ma si interruppe a
metà di un passo e tornò
a voltarsi verso i domestici. «Ah, signora Duncan?»
«Sì,
milady?»
«Non
disturbatevi a preparare la sala da pranzo per la cena di stasera.
Mangerò nella
mia stanza», ordinò, imitando alla perfezione il
tono che più volte aveva udito
utilizzare dalla contessa sua madre.
Dopodiché,
senza aspettare la risposta della governante, le diede le spalle e
salì le
scale come chi ha tutto il tempo del mondo a disposizione. Aveva finito
di
lasciare che i signori Duncan governassero la casa, e lei.
Pemberley
Manor era sua.
*
Basse
nuvole grigie erano così ammassate sull’orizzonte
da rendere l’aria soffocante
come in un afoso giorno d’estate; affacciandosi alla finestra
era impossibile
vedere altro che non fosse la fitta nebbia che circondava il castello e
lo
strano cupo colorito arancione e grigio che tingeva il cielo. La
pioggia
picchiava incessantemente sui vetri da quel mattino, e aveva smesso
solo per
pochi minuti verso l’ora di pranzo: sembrava che volesse
venir giù l’intera
volta celeste. Malgrado questo, il signor Duncan era andato al
villaggio solo
per spedire le lettere della padrona, e se qualche giorno prima lei
glielo
avrebbe impedito – non era il caso che uscisse di casa con
quella tempesta, e
alla sua età, poi – adesso che si stava sforzando
di mostrarsi severa e determinata
come una decente padrona di casa non credeva che mostrarsi pietosa
potesse
giovare alla sua persona.
Eppure
ciò non le impediva di sentirsi intimamente in colpa.
Emma,
seduta su di una poltroncina accanto al letto di miss Radcliffe, con
Aramis
accucciato ai suoi piedi, cercava di trovare una distrazione nella
sempre più
interessante lettura del diario del misterioso dottor Murray,
immergendovisi
pagina dopo pagina.
…Questa mattina ho
presentato la mia ricerca ai governatori dell’ospedale di St.
Jude per la terza
volta: inutile dire che, come già accaduto in passato, non
sono stato preso sul
serio e, anzi, sono stato denigrato e umiliato da coloro che dovrebbero
accogliere con entusiasmo ogni idea nuova e rivoluzionaria. Ma niente:
sono
stato tacciato ancora una volta di blasfemia, sacrilegio e –
udite udite, sono
un eretico!, questa mi giunge nuova!
Ero così furioso
che, temo, avrei potuto aggredire qualcuno se non ci fosse stato il
dottor
Utterson a placare gli animi e trascinarmi via da quel maledetto
ufficio.
Ciò che i miei colleghi
non comprendono, o forse semplicemente faticano ad accettare,
è che siamo
all’alba di una nuova era, alle soglie di una rivoluzione, e
che ciò che faccio
potrebbe essere in grado di modificare di sana pianta il mondo come
oggi lo
conosciamo! Chi sono loro per giudicare il mio lavoro? Quei vecchi
dottori –
ormai stento a definirli scienziati – non vedono
ciò che io vedo, non sanno
niente delle infinite possibilità che questi studi ci
pongono innanzi, e quel
che è peggio è che non permettono a chi ha una
mente più aperta della loro di
progredire, di superarli!
Quel che mi
prefiggo di fare mi appare così chiaro davanti agli occhi,
con la stessa
intrigante bellezza di una visione; è così
semplice! Se avessi il loro
benestare, se avessi la loro fiducia, potrei davvero dimostrare in modo
concreto come scindere i due lati dell’animo umano: potrei
sgravare chiunque
del peso di quel fardello di sentimenti bestiali che ci spingono a
compiere
orride malefatte e azioni riprovevoli, e lasciare intatta solo la parte
buona,
gentile, compassionevole propria dell’uomo. Ciascuno di noi
è custode di un
lato benigno e uno maligno – non lo insegnano forse anche ai
bambini? Ebbene,
non sarebbe forse più semplice la vita se
quest’ultimo aspetto, questa sordida
entità, fosse estirpata per sempre? Dopo anni di ricerche e,
lo ammetto,
numerosi fallimenti, io ho infine trovato un modo per far sì
che una simile
utopia diventi reale, eppure a causa della cecità di chi
tiene le redini del
progresso scientifico sono interdetto dal renderla reale, e per cosa!,
perché
le mie idee vengono ritenute sciocche, avanguardistiche e prive di
fondamenta!
Forse dovrei
prendere delle altre strade; ricorrere a mezzi alternativi. E allora,
una volta
messi davanti al fatto compiuto, quei vecchi stolti non potranno fare
altro che
riconoscere il mio genio, e darmi il posto che mi spetta…!
Emma
voltò pagina, mordicchiandosi un dito nella concentrazione
della lettura.
C’è qualcosa di
glorioso e sublime nel possedere la capacità di dividere
l’uomo dal demone
maledetto che ne infetta l’anima, e di vedere quel sottile
confine ch’egli
supera ogniqualvolta permette al male di trascinarlo con sé
nel baratro,
rendendolo monco, rendendolo meno umano. Non ci è dato
sapere per quale motivo
l’uomo possegga queste due tendenze comportamentali
così differenti – l’una
votata al bene in tutta la sua grandezza, l’altra al male
assoluto – così è, e
con questo bisogna convivere. Ma ciò non ci impedisce di
trovare una soluzione,
di scoprire una medicina, chiamiamola così, capace di
riportarci sulla retta
via!
Si pensi per un
istante a ciò che comporterebbe questa formula, una formula che
guarisce lo
spirito!
Come dice lo stesso
Paracelso, “Chi vuole conoscere l'uomo deve guardarlo nel suo
complesso e non
come una struttura messa su alla meglio. Se trova malata una parte del
corpo,
deve cercare le cause che producono tale malattia e non limitarsi a
trattare
gli effetti esterni”; ebbene, ciò è il
fulcro stesso della mia opera!
A livello teorico,
si potrebbe riassumere la mia operazione con un’immagine
semplice e allo stesso
tempo terribilmente concisa: ecco, si tratta di tagliare via la parte
marcia di
una mela.
E dare così vita
alla prima creatura di una nuova specie!
Saltò
a piè pari pagine e pagine di calcoli, formule, disegni
geometrici e disegni di
organi umani – in particolar modo di cervelli tagliati a
metà e accuratamente sezionati,
come se per ricopiarli avesse usato dei soggetti reali – per
poi passare a
nuove pagine di quegli appunti filosofeggianti che trovava tanto
curiosi.
Forse non è
esattamente corretto affermare che in ogni uomo vi sia la stessa
quantità di
bene e male: può darsi che esse varino da individuo a
individuo, o altrimenti
non sarebbe possibile spiegare per quale motivo certuni sono
più propensi ad
operare il bene di altri. Si tratta solo di un forte senso
dell’onore, di una
radicata morale da cui è impensabile distaccarsi? O
è, come io ipotizzo,
dipendente dalla misura in cui vengono distribuite queste due
“personalità”?
Ritengo che sia una
questione di genetica: così come i figli di un maschio moro
e di una femmina
bionda possono essere a loro volta o biondi o scuri, allora possono
anche
essere o più buoni e meno malvagi, o meno buoni e
più malvagi, in base a ciò
che i genitori possiedono nel loro animo.
Rileggendo il mio
diario, mi accorgo da me come in alcuni punti io possa sembrare
assolutamente
folle; eppure sono sicuro e privo di dubbio su ciò che dico
– non sono
vaneggiamenti, questa è pura scienza!
«Caro
dottor Murray, mi permetto di contraddirvi…»
Mormorò Emma aggrottando la fronte
con aria perplessa, per poi voltare ancora pagina.
Il mio siero funziona
come una normale medicina: non ho ancora deciso in quale modo sia
più facile
somministrarlo – per via orale o per via endovenosa? In quale
dei due casi ci
sono più possibilità che faccia effetto?
– mi riservo la facoltà di prendere
una decisione all’ultimo minuto.
Nel frattempo, ecco
una lista di alcuni ingredienti che mi saranno indispensabili, io
credo, per il
mio esperimento…
Seguivano
altri dati e quantità di sostanze che Emma non conosceva,
così saltò quella
parte, ma ormai aveva letto tutto ciò che poteva
comprendere. C’erano anche
parecchie pagine mancanti, si vedeva dai lembi di carta rimasti
miracolosamente
attaccati al quaderno dopo la furia dello strappo, e si
domandò se fosse stato
il dottore a toglierli, magari appallottolandoli e gettandoli tra le
braci del
camino per eliminare ogni prova dei suoi macabri esperimenti, o se
potesse
essere stato qualcun altro. Ma chi? Con un sospiro chiuse il quaderno,
tenendovi un dito in mezzo a mo’ di segnalibro. Non riusciva
a capire che cosa
potesse farci un diario del genere a Pemberley Manor –
dubitava che fosse
appartenuto a qualcuno dei vecchi proprietari, dato che da quello che
era
riuscita a scoprire sull’uomo che lo aveva redatto con
così tanta folle cura si
trattava di un personaggio comune, un dottore o uno scienziato, che non
aveva
legami con i conti di Rochester.
E
poi, che cos’erano tutti quegli esperimenti? Era riuscito
davvero a trovare
qualcuno a cui iniettare la sua assurda formula? E il modo in cui la
scrittura
del diario si interrompeva così bruscamente aveva forse
qualcosa a che vedere
con l’esito sfortunato di quegli esami?
Si
domandò se i signori Duncan conoscessero questo dottor
Murray – ma poi,
rifletté da sé, era probabile che anche se
avessero saputo qualcosa al riguardo
non gliene avrebbero parlato.
Sollevò
lo sguardo su miss Radcliffe, che da due giorni ormai giaceva a letto
senza dar
segno di migliorare in alcun modo: era ancora pallida e incosciente, ma
sembrava deperita e sotto gli occhi si erano formate delle ombre scure
che non
le piacevano per niente. Come avrebbe dovuto supporre, il dottore non
era
ancora andato al maniero – adducendo la scusa del tempo
avverso e di numerosi
pazienti più gravi che richiedevano la sua presenza al
villaggio. Era più che
sicura che se fosse stato sir Carlisle a richiedere una visita a
domicilio del
medico, egli non avrebbe fatto tutte quelle storie.
Emma
sbuffò, innervosita, tamburellando le dita sul bracciolo
della poltrona. Che cosa
ridicola, aver paura di una casa…
[1]
Locuzione
latina, tratta dalla favola esopiana De
ranis (Delle ranocchie, serpente e legno) il cui autore
è un anonimo
medievale che si potrebbe identificare con Gualtiero Anglico; ha il
significato
di: Chi sa appartenere a se stesso non
sia di nessun altro.
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Angolo Autrice.
Ed eccoci di nuovo qui, dopo un mese dall'ultimo aggiornamento! Chiedo umilmente scusa per avervi fatto aspettare, ma questo capitolo, come avrete immaginato leggendolo (che malloppone pesante!), è stato un po' arduo da scrivere. Prometto che dal prossimo tornerà un po' d'azione!
Intanto, facciamo l'indiretta conoscenza di un altro personaggio (spuntano come funghi!), che in passato ha avuto un ruolo decisivo: tale dottor Murray, il cui diario è davvero parecchio strano... / stranezza resa ancora più acuta dalla mia incapacità di partorire pensieri abbastanza filosofici, indi per cui chiedo perdono per non essere riuscita a renderli come avrei voluto. D:
[Uh uh, visto che siete approdate su queste rive suppongo che vi piaccia il noir e il macabro in generale, per cui se non sono troppo indiscreta vorrei farvi leggere una one-shot che ho scritto recentemente, ispirata da una puntata della serie TV Hannibal, ma sul fandom del Phantom of the Opera: Circunderunt me fluctus mortis. *___* Sì, ultimamente mi prende così.]
Okay, spazio auto-pubblicitario terminato, torniamo alle cose serie.
Ringrazio infinitamente Homicidal Maniac, SnowFlakes8D, Sylphs e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - grazie, fanciulle, grazie mille! Mi ispirate e mi spronate a continuare ♥ E grazie mille anche ai miei cari lettori silenziosi! Lo so che siete timidi ma che ci siete, e lovvo tanto anche voi ♥
[Ps: un applauso alla spina dorsale ritrovata di Emma! Yeeeah.]
Baci e abbracci come al solito, tanto amore dalla vostra
Niglia.