Capitolo
2.
Alle otto in punto, arrivai davanti la scuola. Andavo ogni mattina a scuola a
piedi, oppure prendevo l'autobus. La mia scuola non era tanto lontana da casa
mia, e fare due passi la mattina era piacevole. Mio fratello frequentava il mio
stesso liceo; ma di solito arrivava a scuola molto tardi. Il cortile della
scuola era già gremito di ragazzi che aspettavano la campanella. Mi guardai
attorno, cercando qualche faccia familiare, ma era fatica sprecata. I ragazzi
chiacchieravano allegri: altri, magari destinati ad un'interrogazione,
esibivano facce spaventate, e ripassavano con il libro in mano, girando
febbrilmente le pagine. Io ero un'ottima studentessa: ma avevo un metodo di
studio decisamente strano, poiché stavo attenta in classe, ma a casa non facevo quasi niente. Ma possedevo
un'ottima memoria fotografica, e mi bastava leggere qualcosa solo una volta, e
memorizzavo tutto con facilità. Mia madre diceva che ero una ragazza che sarebbe
andata lontano. Mi sedetti sopra il muretto, incrociando le gambe, e posando lo
zaino accanto a me. Mi aggiustai i capelli, sbuffando. Tutti quei ragazzi
sembravano mille miglia lontani da me. Io ero diversa da tutti gli altri, ero
invisibile. Sì, era come se non ci fossi. A nessuno importava se stessi bene,
se fossi felice, oppure se non lo fossi, solo perché ero diversa. Ero
diversa, e la diversità, al giorno d'oggi, era un male.
"Ehilà." qualcuno mi chiamò, con una voce bassa. Mi voltai, e
d'istinto sorrisi.
Un ragazzo alto, magro, con dei lunghi capelli neri e degli occhi nocciola, era
accanto a me. Portava dei jeans sformati, una felpa nera, e vecchie e consumate
scarpe da ginnastica.
"Ciao." ricambiai, guardandolo. Lui si avvicinò, e prese posto
accanto a me, facendo penzolare le gambe lungo il muretto.
"Come va?" mi chiese, sorridendomi.
Mi piaceva quando sorrideva: era come se tutto il suo corpo gioisse con lui.
Gli si illuminavano gli occhi, e gli spuntava una fossetta appena sotto il
mento.
"Si sopravvive. E tu?"
Fece spallucce, e lasciò andare lo zaino accanto al mio. Distolse lo sguardo,
poi cominciò a frugare nelle tasche dei jeans, e ne uscì un pacchetto di
sigarette, e un accendino. Ne prese una e se la mise in bocca, poi l'accese
riparandola con una mano. Cominciò a fumare, tenendo la sigaretta tra l'indice
e il medio. Poi mi guardò.
"Pensavo avessi smesso." dissi con voce atona, guardandolo con
severità, la fronte corrugata. Il mio sguardo diceva tutto. Lui guardò davanti
a sé, mentre inspirava dalla sigaretta. "Non ci riesco."
"Be’, dovresti. Ogni sigaretta che fumi è un giorno in meno della tua
vita."
Fece di nuovo spallucce. "Allora immagino che morirò presto."
Io sbuffai sonoramente. "Già. E vogliamo parlare del fumo passivo..?"
Lui ridacchiò. "Senti, mi hai già fatto questa ramanzina trilioni di
volte; piantala." Buttò la sigaretta quasi finita a terra, e la spense,
schiacciandola con un piede.
"Sei un insensibile. E se non fossi il mio migliore amico, ti avrei già
scaricato tempo fa." gli dissi, incrociando le braccia al petto, mentre
lui tornava finalmente a guardarmi.
Mi fece una smorfia. "Sei sempre così adorabile. Che carattere sensibile,
dolce. E adesso, fammi copiare i tuoi compiti."
Lui si chiamava Alessandro. Solo per me era Alex. Non avevo molta
fantasia nei soprannomi, questo dovevo ammetterlo. Ci eravamo conosciuti due
anni fa, a scuola. Era l'unico amico che avevo. Con lui potevo parlare di tutto
-be’, quasi- ed era diverso dalla maggior parte dei quindicenni maschi. Era
intelligente, divertente, e conoscevo alcune ragazze che si sarebbero anche
vendute l'anima per essere al mio posto. Alex era un ragazzo carino, sì. Aveva
come un alone di mistero attorno a sé, ma tutti gli volevano bene. Riusciva a
socializzare bene, a differenza di me, e mi stupiva che tra tutte le persone
che avrebbe potuto farsi come amico, avesse scelto me. Insomma, era un ragazzo
quasi perfetto. Peccato per quella storia del fumo, che non mi piaceva per
niente.
Posò i suoi quaderni dentro lo zaino, e mi scompigliò i capelli. "Grazie,
sei un angelo."
"Guarda che la prossima volta non ti faccio copiare più niente."
"Tanto so che lo farai."
Mi fece la linguaccia, e io scoppiai a ridere. Quando era rilassato prendeva
tutte le cose così come gli venivano, e mi faceva ridere. Mi faceva stare bene.
"Sai una cosa?" mi chiese, sorridendomi.
"Cosa?"
"Dovresti provare a fumare anche tu."
La mia risposta venne coperta dal suono della campanella. Forse era meglio
così, perché consigliai ad Alex di fare una cosa molto maleducata, e
fisicamente impossibile.
***
Alex prese posto accanto a me. Nascose il pacchetto di sigarette nelle tasca
dello zaino, assieme all'accendino.
"Che abbiamo a prima ora?"
Lo fissai. "Dopo tre mesi di scuola, non lo sai ancora?"
Rise, e scosse la testa.
"Latino, per nostra sfortuna." risposi in un tono triste. Alcuni
nostri compagni di classe cominciarono ad entrare nell'aula, a sedersi, a
chiacchierare, e a confrontare le versioni che la professoressa aveva lasciato
per casa. Quando, all'improvviso, la vidi entrare.
Melissa.
Melissa era una nuova arrivata nella nostra classe. Aveva nobili origini
inglesi ed era alta, magrissima, con dei lunghissimi capelli biondi, e con
degli occhi azzurro cielo. Era terribilmente bella, e come se non bastasse era
anche ricca. Spesso partiva per lunghi viaggi oltreoceano, e non indossava
niente che non fosse firmato. Una di quelle smorfiose uscita da qualche film
americano? Ebbene, no: Melissa era anche simpatica, gentile con tutti e
allegra. Io le avevo parlato poche volte, forse perché era talmente perfetta
che quasi mi metteva paura. E poi era così diversa da me.
Entrò in classe con una camminata da modella. Oltre allo zaino, portava tra le
mani un sacchetto nero, lucido. La scritta Christian Dior esaltava in tutto il
suo splendore.
Alex la fissò intensamente.
"Non capisco come possa piacerti." dissi, voltandomi verso di lui. In
realtà lo capivo benissimo, non potevo biasimarlo.
"Ma infatti non mi piace."
"Seh, come no."
Lui rise. Ero sempre stata gelosa di Alex, e non mi sforzavo di nasconderlo.
Avevo una paura tremenda che qualcuno me lo portasse via. E allora sì, che
sarei rimasta sola. E non volevo che succedesse.
Alex mi diede una gomitata nelle costole, che mi risvegliò dai miei pensieri.
"Ma cosa..?" esclamai, voltandomi; e mi accorsi che Melissa era
davanti a me.
"Ehm, scusa" mi disse, con una voce angelica. Aveva tra le mani un
libro, e i capelli le scendevano morbidi lungo le spalle. "Credo che
questo sia tuo. Me l'hai prestato l'altro giorno, e per sbaglio ho creduto che
fosse mio e l'ho portato a casa."
Mi porse il libro, e io lo presi. Era il mio libro di scienze. "Grazie
mille." dissi, guardandola, e poi guardando Alex con la coda dell'occhio.
Lui la fissava.
"Non c'è di che." sorrise, e ritornò al suo posto.
Io appoggiai il libro sul banco, poi guardai Alex.
"Magari vuole fare amicizia."
"Forse."
***
"Perché quella faccia?"
Era l'una, e io correvo spedita verso i cancelli aperti, facendomi spazio tra
gli altri ragazzi, che spingevano e sgomitavano. Alex era alle mie calcagna, e
cercava di raggiungermi.
"Ehi, fermati!" lo sentii chiamarmi, ma non mi voltai. Finché,
inevitabilmente, lui riuscì a raggiungermi e mi prese per il polso sinistro,
costringendomi a fermarmi.
"Perché ce l'hai con me?"
Non volevo guardarlo, e non volevo neanche parlargli. Ma il modo in cui mi aveva
inseguita per tutta la scuola, in cui aveva corso a perdifiato per le scale e
per il cortile, mi faceva sorridere. Forse significava che ci teneva a me.
Almeno un po'.
"Senti, preferirei non parlarti. D'accordo?" dissi, irritata, e
spingendolo all'indietro, tentando inutilmente di allentare la sua presa sul
mio polso. Ma lui era chiaramente più forte di me, e non si mosse di un
centimetro, tanto meno mi lasciò andare il braccio. Con la mano libera, mi
prese il viso dal mento, costringendomi a guardarlo. Mi fissava dritto negli
occhi; e il suo sguardo arrabbiato mi fece rabbrividire. Non si era mai
arrabbiato con me, e questo mi provocò una sensazione di paura, di panico.
"E invece tu mi parli, e mi ascolti, chiaro?" domandò, parlandomi con
violenza. Eravamo in mezzo alla folla di ragazzi che usciva dalla scuola.
Alcuni ci fissavano preoccupati, altri incuriositi. Molta gente, però, ci
spingeva di qua e di là. A me mancava l'aria, mi sentivo un groppo in gola, e
soprattutto sentivo le guance andarmi letteralmente in fiamme. Non aveva nessun
diritto di parlarmi in quella maniera, anche se probabilmente io ero in torto
marcio.
"No! E lasciami stare." esclamai, spingendolo con più forza e
decisione. Questa volta mi lasciò andare. Mi aveva stretto il polso talmente
forte, che mi era diventato rosso, e si era indolenzito. Me lo massaggiai con
l'altra mano, sospirando. Ero incandescente di rabbia, e da lì a pochi secondi
sarei scoppiata a piangere. E se c'era una cosa che odiavo, era piangere
davanti alla gente, specialmente davanti agli sconosciuti. O davanti a lui, il
che era ancora peggio: mi faceva sentire in imbarazzo, e totalmente ridicola.
"Sei solo.." iniziò lui, a voce bassa, infilando le mani in tasca e
guardandosi i piedi.
Io strinsi gli occhi, ricacciando indietro le lacrime, per quanto mi era
possibile.
"..sei solo una bambina. Ecco, cosa sei." concluse lui, voltando il
viso di lato, mentre sospirava profondamente, le mani ancora in tasca.
Una lacrima dispettosa mi rigò la guancia, e morì sul mio mento. Singhiozzai in
silenzio, chiudendo gli occhi, e stringendo le mani a pugno. Le strinsi
talmente forte che le unghie mi penetrarono nella pelle. Ma cosa si facevo
ancora lì? E Alex, lui, il mio migliore amico, mi stava facendo piangere. Forse
avrei dovuto odiarlo, ma non potevo. Era più forte di me; non avevo mai pensato
male di lui. Lo trovavo sempre perfetto in tutto, qualsiasi cosa facesse, in
qualsiasi occasione si trovasse. Persino quando fumava, anche se sapevo che era
sbagliato e, soprattutto, che gli faceva maledettamente male. Ma era una
sensazione strana: era come se ci fosse un'armonia perfetta tra lui e le cose
che faceva. E vedevo quell'armonia perfetta anche tra lui e una sigaretta. Sì,
tenevo a lui: forse un po’ troppo. Cadevo nelle illusioni, e sapevo che se
anche lui mi definiva sempre la sua migliore amica, non provava quello che
provavo io. Quello che provavo io per lui era una cosa a cui non avrei mai
potuto rinunciare. Qualcosa che mi faceva sorridere se vedevo il suo nome, la
sua calligrafia, una sua foto. Qualcosa che mi faceva avere un disperato
bisogno di sentirlo, di sentire la sua voce. La sua voce. Mi
rassicurava. E anche la sua voce, per me, sembrava essere in armonia con tutto
il resto, con tutte le cose che appartenevano a lui. Io sentivo sempre queste
sensazioni, che mi facevano impazzire. Non sapevo che nome dare a tutto questo,
ma c'era, ed era davvero grande. Ed io, quando mi affezionavo troppo alle
persone, ne diventavo possessiva e gelosa. Ed era per questo, per colpa mia, se
mi trovavo lì in lacrime davanti a lui. Ed era per questo, che lui mi aveva
chiamato 'bambina'. Sa che detesto essere chiamata così, eppure l'ha fatto. Io
sentivo che se lui mi avesse abbandonata, sarei morta soffocata.
"Adri.." chiamò lui, ancora davanti a me. Aveva un tono di voce più
dolce, più mansueto. Ma questo non servì a calmarmi, per niente. Piansi, più
forte, quasi disperatamente. Lui rimase a qualche passo da me, scrutandomi,
mentre piangevo. C'era una forza misteriosa che mi impediva di andarmene via,
come se i miei piedi fossero inesorabilmente attaccati al suolo. O forse la
realtà era che mi sentivo un po’ in colpa, e volevo fare qualcosa. Ma cosa?
Non ebbi il tempo di pensarci, ad ogni modo: Perché quella cosa misteriosa in
me si sbloccò, e scappai via. Mi allontanai piangendo, spingendo con violenza
le persone attorno a me, per farmi spazio velocemente. Perché provavo odio per
me stessa. perché un pensiero si era insinuato in me, dopo quella breve
riflessione, e dovevo fare di tutto, per scacciarlo via; e per uccidere l'idea
sul nascere. Lui era il mio migliore amico, e sarebbe stato questo. Forse non
lo sarebbe stato per sempre, ma sarebbe stato solo questo. Un mio amico. Il migliore.
Niente di più.