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Autore: Argento    29/09/2013    3 recensioni
La voce di John risuonò alle orecchie di Sherlock fredda e dura come una lama. Sentendosi soffocare nel suo stesso respiro, John sentì che non avrebbe potuto resistere oltre, in quella casa dove era stato felice, con la sua presenza, che ora lo opprimeva.
Lo superò a passi rapidi e decisi, senza voltarsi indietro. Quando si ritrovò a pochi passi dalla porta, tuttavia, si fermò, dandogli ancora le spalle.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Where I Should Be?


“Desidera altro, signore?”
Il dottor Watson si voltò a guardare il cameriere compiaciuto.

Va bene così, grazie.”
Aspettò che l’uomo si fosse allontanato prima di sorridere tra se. Percepì il leggero pizzicorio dei baffi al contatto con il suo labbro inferiore e si sentì percosso da una breve ondata di energia.
Notò, seppure con piacevole rassegnazione, che Mary era nuovamente in ritardo. Allargò il suo sorriso, pregustando il momento in cui le avrebbe chiesto di sposarlo.
Aveva predisposto tutto quasi tre settimane prima e aveva aspettato con pazienza il momento giusto. Si era preoccupato di cercare un anello semplice e raffinato, come gli era stato consigliato dalla signora Hudson; poté quasi affermare di essersi divertito un mondo facendosi accompagnare da lei nelle migliori gioiellerie della città, ascoltando i suoi appassionati consigli. E poi, quando quella mattina si era svegliato e aveva sentito che avrebbe dovuto essere oggi, aveva chiamato Mary col cuore pulsante d’eccitazione e aveva fissato un appuntamento al Royal per le 20.30 di quella sera.
Controllò meticolosamente ogni millimetro del tavolo da cena, assicurandosi che tutto fosse in ordine; un’azione superflua, poiché si trovava in uno dei migliori ristoranti di Londra.
 
Assaggiava il vino nell’attesa, quando lo vide.

Sherlock Holmes era lì, davanti a lui. Aveva un’espressione così strana, pensò John. Gli sembrò disperata, ma poi capì che altro non era se non la sua, di disperazione.
Gliel’aveva detto anche la sua analista, sebbene non ne avesse avuto veramente bisogno: ogni volta che vedeva il volto di Sherlock leggeva in esso le sue emozioni.
Chiuse gli occhi, respirò forte.
Di nuovo. Pensò.
Si stropicciò piano gli occhi, cercando di scacciare l’immagine di lui dalla mente, ma quando sollevò le palpebre lo vide ancora. Lo guardò intensamente, provando una tristezza che aveva sperato di non sentire più. Gli sembrò quasi che si muovesse, che aprisse la bocca per dire qualcosa, come quando capiva al volo la soluzione di un caso e non tardava nel farlo sapere a chiunque fosse a portata d’orecchie.
Sorrise amaramente a quel ricordo, ma quando avvertì le prime lacrime che si raggrumavano ai lati degli occhi, li serrò con decisione. Non voleva pensare a lui. Non in quel momento.
Quella serata avrebbe dovuto cambiargli la vita, non poteva permettere che il suo ricordo gli guastasse la serenità.
 
“John!”

Il dottore si riscosse sentendo la voce di Mary alle sue spalle. Aprì gli occhi, le sorrise e la invitò al tavolo. L’immagine di Sherlock Holmes non riaffiorò più per quella sera.

*

“Oh, John!”
La donna lo guardò con occhi ricolmi d’affetto e di lacrime.
“Sì.”
John si sporse verso di lei e l’abbracciò forte, sentendo scoppiare il petto dalla gioia. La baciò con dolcezza e desiderio, sfiorandole  le labbra e gli zigomi con le dita, vedendola più bella che mai, sperando che un momento così felice potesse durare per sempre. Mary baciò l’anello e lo indossò, sussurrando emozionata che era il più bel gioiello che avesse mai visto, che il suo valore era per lei superiore ai tesori della corona. Brindarono con il migliore champagne che Londra potesse vantare tra gli applausi dei presenti e, quando lasciarono il ristorante, John ebbe la fondata sensazione che il caposala gli facesse l’occhiolino.
Quella notte, nella casa di lei, John la amò per ore, con passione ed impazienza, nel buio, con solo l’incosciente desiderio di colmare un vuoto dentro sé.

*

La mattina dopo John si svegliò con Mary abbracciata a lui, mentre un uragano di emozioni lo investiva. La accarezzò con delicatezza, sentendo sotto le sue dita callose - da soldato - la pelle morbida e calda di lei. Sorrise al contatto, desiderando proteggerla, allontanarla da ogni male.

Come se fosse per espiare gli errori commessi, come se fosse il suo pegno per chi non aveva saputo proteggere prima.

Questo pensiero gli attraversò la mente, affondò nel suo cuore come un coltello nella piaga e sparì, com’era venuto. D’improvviso sentì su di sé la stanchezza della rassegnazione, pensando con un brivido come lui riuscisse a essere sempre presente anche con la sua assenza.
Non si accorse che il fugace tremore del suo corpo aveva sollecitato Mary, ancora appoggiata a lui, che alzò lo sguardo nella sua direzione e sorrise con vivacità.
Era rimasta spiazzata dalla proposta di John e aveva attribuito l’impeto di quella notte all’emozione che aveva pervaso entrambi. Pensò che sarebbe stata felice, che sarebbero stati felici.
Si alzò, lasciò un bacio a fior di pelle sulla guancia di lui e indossando la vestaglia annunciò che avrebbe preparato la colazione. John la guardò più divertito che mai, seguendola con lo sguardo.

*

Quando fu sazio e rivestito la baciò tre volte ancora, prima di incamminarsi verso Baker Street, un sorriso ebete sul volto. Durante il tragitto immaginò la faccia della signora Hudson quando le avrebbe raccontato del successo della serata, premurandosi di evitare i dettagli più piccanti e ridendo di cuore al pensiero di ciò.

*

Arrivò al 221B sentendosi felice e leggero, ma salendo le scale per il suo appartamento sembrò incupirsi un po’; come tutte le altre volte, dopotutto.
Non salì fino alla sua stanza. Come attratto da un doloroso moto di nostalgia, si affacciò ancora una volta all’ingresso del loro appartamento, respirando forte e avendo la sensazione di vederlo ancora, seduto lì sulla poltrona, la poltrona di John, mentre gli dava le spalle, le mani giunte sotto il mento, immerso nei suoi ragionamenti.
Immaginò che, una volta sposati, lui e Mary avrebbero vissuto in una nuova casa e che lui sarebbe stato costretto a salutare la loro per sempre.
Entrando in cucina trovò, con stupore, la signora Hudson. Aveva un’espressione sconvolta, che sul momento non riuscì a decifrare.
“John…”
“Signora Hudson, cos’è successo?”
Per qualche breve attimo la signora Hudson non si mosse. Nei lineamenti contratti del suo viso riconobbe i segni evidenti di uno shock.
John temette il peggio, immaginando fosse stata minacciata o magari ipotizzando la presenza di qualche ladro in casa, ma quando fu sul punto agire, per cercare la rivoltella in uno dei cassetti, notò solo in quel momento che la direzione del suo sguardo non era cambiata da quando era entrato. Seguendolo, lo vide posato sulla poltrona, e d’improvviso capì.
La scrutò, inorridito.

Lo vede anche lei?”

Il suo non fu che un mormorio sommesso, ma l’uomo seduto parve sentirlo. Lo vide agitarsi sulla propria poltrona.
 NO!, pensò John; la sua mente, gli stava facendo credere di vederlo, perché lui non lo stava vedendo, non lo stava vedendo affatto. Fece un passo indietro, terrorizzato.
I morti non camminano, pensò quando con crescente orrore vide l’uomo alzarsi e voltarsi verso di lui.
Avvertì indistintamente dell’aria spostata vicino a se, accorgendosi a malapena che la signora Hudson non era più nella stanza. Si guardò intorno, disperato, cercando qualcosa, qualsiasi cosa a cui aggrapparsi, per salvarsi dal mare di emozioni in cui affogava.
I suoi occhi erano incastonati in quelli di lui azzurri e glaciali, gli occhi di un uomo che doveva essere morto.
Sentì chiamare il suo nome come da lontano, dalla voce che credeva non avrebbe udito più.
“John.”
John abbassò di colpo le palpebre e premette le mani sulle orecchie, concentrandosi solo su di sé, ricordandosi che seguiva ancora la terapia, che quella quindi non era che una ricaduta, come la sera prima.
A quel pensiero fu invaso da un dubbio atroce.
È tutto nella mia mente. Deve per forza essere così.
Si ripeté più volte nel tentativo di convincersi.
Nel volto dell’uomo aveva visto la paura, ma non era che il sentimento che stava vivendo lui stesso, dunque la prova che fosse un’allucinazione causata dalla sua mente instabile.
“John.”
Dopo istanti che sembrarono non finire mai, John alzò finalmente la testa e, impiegando più tempo possibile, fissò i propri occhi nei suoi, facendo appello a tutta la sua determinazione per non sciogliere il contatto visivo, così doloroso.
Non poté impedire alle sue lacrime di scendere copiose, non tentò neanche di reprimerle.
E dunque lo vide, mai stato cosi vicino e cosi lontano, con il braccio teso nella sua direzione, come l’ultima volta che l’aveva visto vivo, sul tetto dell’ospedale...
Gli sfuggì un gemito, l’uomo tentò un passo avanti.
John non l’aveva mai visto così. Per la prima volta, riuscì a decifrare con assoluta certezza l’espressione sul suo volto. Vide quegli occhi così intensi, spalancati, in preda ad un terrore cieco, come non li aveva visti mai - mai, così spaventati, neanche per il caso Baskerville.
Gridavano a John in una lingua che non capiva o che, forse, non voleva capire. Non si commosse di fronte a quello sguardo, ma sentì crescere dentro di lui la furia di chi è stato umiliato e, quando lo vide in procinto di avvicinarsi ancora, parlò.
“Non avvicinarti.” Emise in un sussurro roco.
Sherlock si fermò. Lo guardò come in attesa di qualcosa, combattuto nel desiderio di spiegare senza ferire.
“Sei.. Vivo.”
La sofferenza con cui John sputò quelle parole sembrò tangibile e Sherlock la sentì forte e tagliente, con l’uguale chiarezza che avrebbe avvertito se gli avessero puntato una pistola alla tempia.
“Sì.”
Non riuscì ad aggiungere altro, o forse comprese che quello non era il momento adatto. Vide l’amico asciugarsi le lacrime e si sentì colpevole di quelle.
“John, ho molto da spiegarti.” Cominciò deglutendo impercettibilmente, tentando di mantenere il suo solito autocontrollo, di non lasciarsi trasportare. Aprì nuovamente la bocca per continuare a parlare, ma lo sguardo duro e ferito di John lo gelò.
“Non pronunciare il mio nome. Tu sei morto, Sherlock Holmes.”
La voce di John risuonò alle orecchie di Sherlock  fredda e dura come una lama. Sentendosi soffocare nel suo stesso respiro, John sentì che non avrebbe potuto resistere oltre, in quella casa dove era stato felice, con la sua presenza, che ora lo opprimeva.
Lo superò a passi rapidi e decisi, senza voltarsi indietro. Quando si ritrovò a pochi passi dalla porta, tuttavia, si fermò, dandogli ancora le spalle.
“Chi lo sapeva?”
Ogni parola pronunciata con una sfumatura sempre maggiore di rabbia repressa.
“Molly. Mycroft.”
Sherlock vide con chiarezza il pugno di John farsi più teso, vide la pelle tendersi e sbiancare sulle nocche. Capì forse ancora prima di lui cosa il dottore avesse intenzione di fare, ma non tentò di fermarlo, sapendo di meritare il gesto. E il pugno partì. Non colpì il viso di Sherlock, come il detective aveva immaginato e intimamente sperato che facesse, ma il muro. E colpì così forte che l’intonaco e la carta da parati caddero a terra lacerati, mentre la mano di John si ridusse ad una massa sanguinolenta.
Sherlock si sporse verso di lui, ma John non gli permise di toccarlo.
“Sono un medico” disse, con voce piatta, senza alcuna espressione. “So curare queste ferite.”
E se ne andò. La delusione che ancora aleggiava nella sala.

*

Stordito, incurante del dolore alla mano, con una gran confusione in testa ed incapace di ragionare logicamente, John si lasciò portare dalle sue gambe per le strade di Londra, senza meta. Camminava per le strade della città che aveva sempre amato, ma non provò alcuna gioia nell’attraversare il Kensington Garden, né alla visione spettacolare del Cambio della Guardia, sentendo crescere invece dentro se una fastidiosa sensazione di malessere e nausea.
Ritrovandosi in una delle tante strade secondarie della città, in preda ad un conato vomitò tutto quello che aveva mangiato al mattino. La ricca colazione che Mary gli aveva preparato con amore sembrava appartenere ad un ricordo lontano, incredibile che fosse avvenuto poche ore prima.
Quando sentì di non avere più nulla di cui liberarsi si alzò lentamente, lasciando scrocchiare le ossa, disgustandosi di se stesso. Senza esitazioni si diresse svelto verso l’ospedale, dove si chiuse a chiave nel suo studio.
Si lavò il viso più e più volte, sperando di riuscire a cancellare i segni della stanchezza e minuscole rughe che non si era mai accorto di avere. Rinunciò presto al perseverare e con movimenti affaticati si lasciò cadere sulla scomoda sedia da lavoro, scaricando tutto il suo peso su di essa, staccandosi da tutte le sensazioni causate dai sensi, dimentico del contatto tra la pelle del suo braccio e il legno duro della sedia, del dolore ancora pulsante alla mano sinistra, dei rumori delle barelle trascinate per il corridoio al di fuori dello studio e dai commenti concitati degli infermieri sotto stress.
Si ritrovò a fissare la parete bianca in fronte a sé senza vederla davvero, lo sguardo vacuo. E poi non percepì più nulla che avvenisse all’infuori della sua sfera emozionale.
Tutto quello che riuscì a pensare, l’unico pensiero logico che riuscì a formulare, prima di essere invaso dai ricordi, fu che non se lo meritava.

*

Prima di abituarsi all’idea che Sherlock Holmes non sarebbe più tornato al 221B di Baker Street, John aveva passato mesi vagabondando per ogni stanza, fermandosi talvolta ad osservare qualche particolare strumento scientifico di cui l’amico si serviva durante i suoi casi. Aveva preteso che la sua camera non venisse toccata, impedendo anche alla signora Hudson di entrare. Per quasi nove mesi, ogni giorno prima di andare a dormire, passava da quella stanza immacolata, dove il letto era rimasto intatto dal fatidico giorno, perfettamente rifatto. John vi si sedeva spesso, mentre ispirava trattenendo le lacrime, quel profumo, il suo. La vestaglia ancora appesa dietro la porta.
Per tutto quel tempo John aveva finto che Sherlock fosse ancora lì, in qualche modo. Si sedeva nella propria poltrona sorseggiando il the, gli occhi puntati in quella di fronte a sé. Gli mancavano le note del violino che suonavano alle ore più strane; spesso si chiedeva se avrebbe mai trovato il coraggio di sfiorarne le corde, almeno una sola volta. Ma non lo faceva mai.
Aveva smesso di scrivere sul blog. E non aveva voluto più aprire il suo: non sarebbe mai stato in grado di reggere gli insulti scritti per il detective, il mondo che lo credeva solo un bugiardo. Era diventato lui il cattivo delle fiabe. E John si struggeva per questo.
Avrebbe dovuto dare ascolto alle sue parole? Quelle soffiate attraverso un telefono, ad una lontananza disarmante per entrambi, dette per fargli credere che Sherlock fosse stato davvero falso. Ma dentro di se, John non aveva ceduto mai, neanche per un secondo, a tutto questo. John conosceva davvero Sherlock, ne era certo. Era il suo migliore amico, non abbastanza bravo da mentire così anche a lui.
Ed era così che il dottore aveva vissuto, dilaniato dentro, in cerca di una verità che nessuno poteva offrirgli.
 
Poi, un giorno, la signora Hudson si era presentata alla sua porta e gli aveva detto che era arrivato il momento di liberarsi delle sue cose. Che gli avrebbe fatto bene. E così, dopo intense discussioni che avevano fatto tremare le pareti, si erano accordati per portare alcune delle sue attrezzature al liceo del quartiere. John aveva tenuto le cose che, in vita, gli erano state più vicine. Le aveva riposte nella sua stanza, dove aveva chiuso a chiave anche i suoi ricordi e il suo dolore.
Fu in quel liceo che incontrò Mary Morstan la prima volta. Era una professoressa di scienze, si occupava del laboratorio: era stata lei ad accoglierli. Aveva ispezionato ogni strumento, assicurandosi della funzionalità e della manutenzione, potendo appurare come fossero in ottimo stato.
Lei e la signora Hudson rimasero a parlare per un po’, mentre John perlopiù cercava di fissare in mente ogni singolo oggetto cui stava mentalmente dicendo addio, annuendo ogni tanto. Quando si prepararono ad andare, Mary si rivolse a John, salutandolo come se avesse parlato a lui tutto il tempo. Fu probabilmente in quel frangente che John ne notò il sorriso e il giorno dopo tornò e anche quello successivo, finché non trovò più alcuna ragione per non invitarla a cena. Così, di punto in bianco, quella che aveva vissuto come una lenta agonia cominciava a trasformarsi anche in qualcosa di bello. Stare con Mary lo aiutava a stare meglio, riuscendo a sorridere di nuovo; sentiva come se stesse iniziando una nuova fase della sua vita.
All’inizio risultò comunque difficile, perché spesso si dimenticava degli appuntamenti, o di rispondere a messaggi e chiamate. Ma Mary non disse mai una sola parola al riguardo.
Con stupore di entrambi, un pomeriggio, durante una passeggiata nel parco, John le aveva confidato della sua perdita, che ancora ne soffriva e che avrebbe compreso se lei avesse deciso di lasciarlo a causa delle sue mancanze. Ma anche Mary, dalla sua, non aveva una bella storia da raccontare. Il suo precedente fidanzato era morto per un incidente e prima che lei riuscisse a metabolizzare la cosa aveva lasciato scorrere tanti anni; aggiunse che capiva, che avrebbe accettato, se fosse stato lui a chiedere spazio.
A quella rivelazione la sua opinione su Mary non poté fare altro che migliorare.
E John, nonostante la sofferenza che ancora provava, nonostante le allucinazioni che quest’ultima provocava e nonostante avesse ripreso le sedute dall’analista, credette di aver dato nuovamente un senso alla sua vita.

*

Il dottore si toccò le guance, piano. Aveva sentito qualcosa cadere sul suo petto e bagnargli la camicia, scoprì di aver pianto. Ancora.
Pensò che avrebbe voluto distendersi e dormire, ma il solo pensiero di tornare a Baker Street gli faceva salire di nuovo la nausea. Si chiese cosa dovesse fare. Lo sfiorò l’ipotesi di tornare da Mary, ma in realtà non aveva voglia di vederla, di guardarla negli occhi. Controllò l’orologio e notò che erano da poco passate le tre del pomeriggio.
John voleva risposte, voleva capire. Era stato un soldato ed un medico, aveva visto morire i compagni al fronte, aveva visitato persone che non avrebbero più avuto
molto tempo. Era rimasto traumatizzato dalla morte dell’amico, ma non per la questione della morte in sé, piuttosto perché non riusciva a comprendere il motivo, la morte di Sherlock non aveva senso, era priva di significato. Ed era per questo che John non aveva mai potuto accettarla: non l’aveva capita.
Si ricordò delle visite di condoglianze, lasciandosi investire da un rabbioso moto d’ira verso Mycroft e Molly; loro erano stati presenti al funerale, erano passati a trovarlo per informarsi della sua salute, lo avevano ingannato per tre anni.
Ed era perché loro sapevano, che avevano mostrato così tanta compassione per lui,pensò stringendo forte i pugni.
Lui, che piangeva sommessamente, Molly che gli preparava un the, tutte le visite di Mycroft, che per cercare di distrarlo parlava degli affari di borsa, aggiungendo a intermittenza qualcosa che suonava come un “mi dispiace”. Ora John capiva a cosa si riferisse sul serio, e anche perché aveva contribuito a pagare l’affitto di Baker Street.
Tutto questo gli tornò in mente in un lampo dolorosissimo, pensando che sarebbe stato capace di ucciderlo se gli si fosse trovato vicino.
John asciugò con determinazione l’ultima lacrima che ancora gli solcava il viso. Non avrebbe pianto più. Decise che qualcuno gli avrebbe dato le risposte che voleva.
Si catapultò all’esterno, sulla strada dove aveva visto il corpo schiantato di Sherlock… Cercò con tutte le sue forze di non guardare da quella stessa parte, concentrandosi sull’obiettivo. Si portò sulla strada principale, dove aspettò con impazienza un taxi. L’incapacità di aspettare, in quel momento, lo stava logorando, portandolo a muoversi in modo convulso e disarticolato, lasciando scrocchiare le braccia e stiracchiando i muscoli. Sapeva perfettamente dove avrebbe dovuto cercarlo e, quando il taxi passò e John salì a bordo disse al tassista, senza la minima esitazione “Diogenes Club”.

*

Mycroft Holmes spiegò il giornale davanti a sé, pronto a leggere l’edizione del pomeriggio dopo un’estenuante conversazione col primo ministro britannico, quando la porta del suo studio si spalancò, lasciando entrare un affaticato e arrabbiatissimo dottor Watson.
Mycroft, dopo un iniziale, brevissimo istante di confusione, si alzò, avvicinò il vassoio con il brandy al tavolo da the e si sporse a prendere due bicchieri di vetro in cui versò la bevanda alcolica, poi si risedette al suo posto.
“John, ero certo che sarebbe venuto. La stavo aspettando.”
Esclamò con un gesto d’invito verso l’uomo ancora in piedi, scatenando l’irritazione dello stesso, che non si sedette.
“Lei sapeva.”
“Sì, sapevo. Mio fratello aveva bisogno di soldi ed io ero l’unico nelle condizioni di aiutarlo.”
Mycroft sembrò portare gli occhi al cielo, ma rispose con voce controllata.
“Lei? L’unico?” E John esplose. Scaraventò a terra il tavolo col vassoio e il liquido macchiò la moquette, il vetro del calice e dei bicchieri si ruppe.
Mycroft non si sconvolse più di tanto, si era aspettato una reazione del genere. Assolutamente prevedibile. Si dispiacque per il tappeto però, era persiano e l’aveva pagato caro. Si alzò dirigendosi verso la porta, dove con voce ed espressione rilassatissima, disse agli inservienti accorsi a causa del rumore di non preoccuparsi, richiudendo successivamente la porta.
“Cosa vuole sapere esattamente? Prima di distruggermi lo studio.”
Così per la seconda volta in quel giorno, l’altro degli Holmes vide i pugni di John farsi tesi, la pelle sbiancarsi sulle nocche. Ma non partì alcun pugno. John rilassò le dita, inspirò prendendo il suo tempo, poi rispose, lentamente.
“Perché? Perché lei e non me?”
Mycroft sorrise, per la prima volta da quando John lo aveva conosciuto, con dolcezza.
“Alla prima domanda, non sono io a dover dare risposta. Per la seconda, era più sicuro per tutti, che fossi io.” Notando lo sguardo più che mai confuso del dottore, aggiunse. “Le ha salvato la vita, John.”
“Cosa?”
“Non è con me che deve parlare.”
“Ha detto che mi stava aspettando! Quindi sapeva, il che è sufficiente!”
“Ero certo che sarebbe venuto, perché mio fratello aveva espresso, ormai da un po’, il desiderio di tornare e poiché questa mattina non l’ho trovato in casa… In ogni caso, dottore, vorrei specificarle che Sherlock si è appoggiato a me perché non aveva scelta, non l’ha fatto di propria volontà.”
“E Molly! Anche lei era coinvolta!”
“John, la prego, non tiri in mezzo quella povera ragazza, se deve prendersela con qualcuno meglio me che lei.”
John si voltò sbuffando, confuso e nuovamente desideroso di piangere e sfogarsi. Cosa avrebbe dovuto fare? Si diede mentalmente dello stupido per aver passato delle ore chiuso nel suo studio non considerando, minimamente, che Molly lavorava solo due piani più giù, che avrebbe potuto dirgliene di tutti i colori e che lei avrebbe certamente parlato.
Dopo le parole di Mycroft però, non trovò la forza di arrabbiarsi anche con lei, si pentì di averne pensato così male. Sapeva che Molly avrebbe fatto per Sherlock qualsiasi cosa.
 
“Arrivederci.”  Borbottò uscendo.
 
*

John Watson camminò per ore per le strade di Londra, con il vento freddo che gli sferzava il viso. Rifletté e ricordò intensamente in quei momenti, trovando confortante l’aria gelida sulla sua pelle. Quando arrivò a Baker Street, più che mai consapevole di quanto stesse per fare, entrò e prese a salire le scale, senza fretta, dando un ritmo e un peso preciso ad ogni passo. Sentì il violino echeggiare per le pareti, incapace di capire se provasse gioia o dolore per quel suono così familiare. Non lo sentiva da tre anni.
 
Sherlock fece finta di non sentirlo, come se fosse il modo migliore per concedergli un po’ di privacy, per rispettare i suoi spazi. Ma quando percepì lo scricchiolio delle scarpe sull’ingresso dell’appartamento non riuscì più a continuare la melodia.
“Voglio la verità.” Disse John sulla soglia d’ingresso.
“L’avrai, John.” Rispose Sherlock rivolto verso la finestra, il violino ancora in mano.
“Sono stato da Mycroft, mi ha detto di venire da te. Voglio sapere il perché di tutto questo.”
Sherlock respirò silenziosamente tenendo gli occhi chiusi. Sotto le sue palpebre rivide tutto quello che aveva vissuto come fosse un film.
“È cominciato tutto con Moriarty. Ha infangato il mio nome, la mia reputazione. Voleva che anche la mia morte fosse coperta di vergogna. Sul tetto dell’ospedale, mi disse che tre uomini avevano il compito di uccidere te, Lestrade e la signora Hudson e che niente li avrebbe fermati, se non vedermi morire.”
John fu grato che Sherlock  gli stesse dando le spalle, non avrebbe sopportato di farsi vedere da lui con gli occhi umidi.
“E il corpo di Moriarty?”
“Finché lui fosse stato in vita avrei potuto fermare gli assassini. Si sparò in gola.”
“E tu fosti costretto a buttarti.”
“Sì...” Sherlock si fermò per una frazione di secondo, poi azzardò. “John.”
Ma il sussurro fu sopraffatto dalla domanda del dottore, che straziò entrambi.
“Perché sei ancora vivo?”
Sherlock si voltò verso John, scioccato. Il violino cadde a terra.
John seppe, in quel momento, di avergli fatto del male. John Watson aveva fatto del male a Sherlock Holmes. Questo pensiero lo mandò in estasi. Tutto quello che voleva era che soffrisse, che sentisse il dolore spaccargli il cuore e la mente, fargli provare ciò che aveva vissuto lui in quegli anni.
“Non dovresti esserlo.” 
Continuò, un passo avanti. Vendetta. Per John, era vendetta. Nella più vile forma, aveva bisogno di godere della sofferenza negli occhi di Sherlock. Voleva vederli umidi, voleva vedere lacrime scorrere sulle sue guance, voleva che gli bruciassero la pelle.
“Perché sei vivo, Sherlock Holmes?”
“Era un trucco, Molly mi ha aiutato. Il corpo sull’asfalto non era il mio e la bici che ti investì non fu casuale, era stato progettato per far si che tu mi vedessi morto e che lo credesse anche il cecchino che avrebbe dovuto ucciderti.”
John chiuse gli occhi. Fugace segno di debolezza che un soldato non può concedersi. Li riaprì.
“Perché sei tornato? Perché ora? Tre anni, Sherlock. Tre anni.”
Sherlock era un consulente investigativo. Il migliore esistente. Ma non seppe mai dire se quello che lesse tra le righe fosse dovuto alla sua mente geniale o a qualcos’altro, qualcosa che faceva male dentro di se, in punti che neanche sapeva di avere. Capì di aver perso qualcosa di importante. Deglutì, prima di rispondere.
“Dopo il mio falso suicidio, scoprì che Moriarty non era l’unico a volermi morto. Ho dovuto nascondermi da coloro che miravano al medesimo obiettivo, sapendomi vivo. Li ho cercati e li ho affrontati e per farlo ho avuto bisogno di tempo; sarei tornato prima, se avessi potuto… Ma non potevo non accertarmi che costoro fossero definitivamente fuori gioco. Appresi poi che un altro nemico mi stava ancora aspettando, qui a Londra. Mi ha minacciato di-” Ma qui Sherlock si fermò, fissando il volto di John. Non voleva che lo costringesse a dirlo. Ma il suo sguardo freddo lo indusse a continuare.
“Di ucciderti, se non avessi rispettato le sue condizioni.”
Sherlock sperò che bastasse, ma non servì a nulla.
“Io ero già morto, Sherlock.” Sussurrò John più a se stesso che al detective.
“Non potevo rischiare, ho dovuto aspettare il momento giusto per intervenire.”
“Il. Momento. Giusto.” E John rise, di una risata fredda e roca che aumentò il vuoto.
“Io mi sto sposando! Il momento giusto. Sì, il migliore!”
Sherlock si terrorizzò nel vederlo in quello stato, sembrava fosse pazzo. Gli ricordò dolorosamente Moriarty, incredulo di aver riscontrato qualcosa di così simile in lui.
Ma a quel punto ormai aveva parlato troppo, non avrebbe omesso altro, sarebbe stata una mossa poco saggia.
“Ti ho sempre tenuto d’occhio John, per accertarmi che tu fossi al sicuro. Sono tornato perché ho capito che avrei potuto proteggerti meglio, se ti fossi stato fisicamente più vicino. E poi John, non ne potevo più.”
“Hai fallito nell’intento allora, Sherlock. Hai fallito dall’inizio. Non mi hai aiutato, né protetto dagli incubi in cui ti vedevo morire ogni notte, dal dolore che ho provato ogni giorno, ogni ora! Dal vuoto, Sherlock! Non mi hai protetto dal vuoto, in questa casa troppo grande per me!”
John si calmò, respirò profondamente. Osservò Sherlock con compiacimento e provò infinita soddisfazione nel vederlo piangere, lì, davanti a sé.
“Avevo bisogno di sapere. Dovevo capire. Ma per me, tu sei morto. Sei morto quando ti sei buttato dal tetto dell’ospedale e il dottore John Watson che conoscevi è morto con te tre anni fa. Addio, Sherlock.”
E andò via, troppo in fretta per vedere il corpo di Sherlock Holmes accasciarsi sul pavimento, schiacciato dal peso delle sue stesse lacrime e in preda alle convulsioni.

*

Salve a tutti, o meglio, a chiunque sia arrivato fin qui. Questa è la mia prima fanfiction riguardante l'universo di Sherlock Holmes, vorrei specificare che l'idea di un John Watson che vede/non vede Sherlock Holmes non è del tutto mia, ma tratta da alcuni spunti che ho trovato su Tumblr.
Riguardo la storia, ho immaginato John come un uomo distrutto dalla vita: prima l'esperienza in Afghanistan e la rinascita con Sherlock, poi la sua morte, che io interpreto come la 'morte della speranza' per John, poichè al ritorno dalla guerra è stato proprio Sherlock a riportarlo in vita coinvolgendolo nei casi (ricordate come John non tornò dall'analista in quel periodo? E di come si dimenticò velocemente del bastone e della ferita di guerra?). Secondo me, dopo aver vissuto tutto questo, John dimostra di essere un uomo forte per essere riuscito ad andare avanti e cercando di ricostruirsi una vita. Dunque il ritorno di Sherlock è per lui destabilizzante, impossibile da concepire. Inoltre, io sono sostenitrice della coppia - anzi, in realtà questa storia era nata per farli tornare insieme - ho sempre visto il loro legame come solidissimo e trascendente dal rapporto fisico, almeno, non ancora; perchè proprio non riesco a immaginare Sherlock arrivare a tanto! Adoro la serie anche per il loro continuo flertare, perchè lo fanno eccome, pieno di sottintesi e di frasi a doppio significato, che lasciano spazio all'immaginazione ma di cui ho una chiara visione: li vedo innamorati, ma non di quell'amore che necessita di essere espresso, come se lo sapessero e basta, senza dubbi e senza incertezze; dovrebbe venire naturale pensarlo anche senza effusioni ecc.
Riguardo Mary, per quanto la consideri un ostacolo non posso fare a meno di provare simpatia per lei, dopotutto, si innamora sinceramente di John, non è colpa sua se si ritrova in una situazione più grande di lei. Per quanto riguarda il coinvolgimento di Mycroft e la spiegazione data da Sherlock, cioè, la non spiegazione, dato che non l'ho propriamente spiegata, ma anche questa ha un suo perchè: semlicemente non volevo scrivere cazzate, quindi ho cercato di sorvolare i dettagli. Ho cercato di ispirarmi al racconto di Arthur Conan Doyle per il ritorno di Sherlock, ma è davvero difficile riuscire ad adattare gli eventi alle circostanze della serie TV.
Ho cercato di rendere i personaggi più IC possibile (o almeno, nella mia contorta visione di essi) ma vi pregherei di farmi notare mancanze o comportamenti che non si addicono al loro carattere.
Per concludere, mio dio, ho scritto un romanzo, non so cosa potrebbe essere meglio, se continuare la fic (e farla finire bene cercando di non cadere nel banale) o lasciarla così (dolorosa e definitiva). Cosa mi consigliate? 

 
  
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