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Autore: vikvanilla    10/10/2013    1 recensioni
"L'Apocalisse degli Zombi è ufficialmente cominciata. Questa è la storia di come le Nuove Direzioni sono riuscite a sopravvivere, e di chi non ce l'ha fatta, a seconda dei casi. FABERRY, Brittana, Samcedes, Klaine, Tike, Wilma e ogni altro tipo di romance o bromance mai immaginata."
Genere: Avventura, Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuove Direzioni, Quinn Fabray, Rachel Berry, Sue Sylvester, Will Schuester | Coppie: Blaine/Kurt, Brittany/Santana, Quinn/Rachel
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Grazie a tutti per l'attenzione dedicatami, e scusate il ritardo di pubblicazione. Spero che ne sia valsa l'attesa.
 
SECONDA PARTE

22 giugno, 2012
Base Madre
Ore 10.18

 
Rachel parcheggiò il furgone in giardino e si slacciò la cintura. Lei e Kurt smontarono dalla cabina di guida e abbassarono il portellone mentre Mike, Sam, Brittany e Santana andavano ad aiutarli a scaricare le provviste che avevano raccolto in mattinata.
 
“Bel bottino” disse Mike, stringendo brevemente la mano sulla spalla di Kurt al loro passaggio. Kurt esibì un sorriso torvo, perché non era un bel bottino. Era a malapena un bottino decente.
 
Erano a corto di provviste vegane, e Rachel aveva compreso che occorreva adattarsi (dopotutto, era l'apocalisse), e tuttavia si rifiutava di arrendersi senza lottare. Di conseguenza, lei e Kurt erano partiti presto quella mattina per mettere a soqquadro le drogherie locali in cerca di opzioni culinarie fattibili, o quel che n’era rimasto.
 
Le opzioni si erano rivelate, amaramente, scarse.
 
E sulla via del ritorno alla Base Madre, si era accesa una luce accanto alla spia della benzina.
 
Per far sembrare meno deprimente la loro spedizione, si erano fermati ad un negozio di vestiti di seconda mano lungo la strada. “Ti sorprenderesti dei tesori vintage che si possono trovare da queste parti, Kurt” aveva detto Rachel inoltrandosi nell’edificio, rivolta al compagno, al suo mento sollevato e alle sue labbra incurvate.
 
Oltretutto, i mercatini dell’usato non erano necessariamente il genere di posto che attirava gli sciacalli. Quindi Rachel e Kurt non dovevano preoccuparsi di affrontare avversari ancora vivi, ma solo quelli morti.
 
Rachel stava facendo un altro viaggio dal furgone alla cucina con una scatola di vestiti quando Brittany le passò accanto. “Oooh!” esclamò la ragazza, infilando le mani nella scatola che Rachel aveva tra le braccia ed estraendone un colbacco di un arancione sfavillante, con tanto di pelliccia. “Posso?” le domandò.
 
Con un sorriso, Rachel replicò, “Pensavo a te quando l’ho preso.”
 
Brittany le depositò un bacio sulla guancia prima di infilarsi il cappello sopra i capelli sciolti e saltellare via per farsi vedere da Santana. Rachel ridacchiò sottovoce e dalla cucina si diresse al Quartier Generale.
 
“Ehi Artie,” disse, in tono addirittura esuberante. “Come stai?”
 
“Bene Rachel. Com’è andata con Kurt?”
 
Rachel afferrò un’altra sedia girevole e vi si sedette, incrociando le gambe. “E’ andata bene. Nel complesso ci siamo imbattuti solo in cinque cadaveri, per cui non è stato difficile. Uno ricordava molto il signor Ryerson, ma non era facile a dirsi con tutte quei tagli in faccia.” Artie annuì. “Anche se il completo rosa non lasciava adito a molti dubbi.”
 
I due si scambiarono una risatina; quella di Rachel risuonava vivace tra le mura del posto, spesso deprimente, che avevano finito per chiamare casa.
 
“E Finn e Puck sono già tornati?”
 
Artie si prese un momento per esaminare le affinità e le differenze tra Rachel e Quinn. Entrambe chiedevano sempre degli altri; per loro era quasi una seconda natura sottoporsi a controlli ed effettuarne altrettanti. Ma mentre Quinn non mancava mai di andare dritta al punto, Rachel faceva sempre due chiacchiere prima di addentrarsi nella conversazione vera e propria.
 
Era diventato parte della loro normalità, e arrivati a questo punto, Artie apprezzava davvero un senso di normalità.
 
“No, ma sono certo che torneranno a momenti. Hanno scoperto alcune informazioni preziose mentre erano a casa della Sylvester." Il viso di Rachel si illuminò. “Uno dei suoi diari menzionava una specie di dispositivo, nascosto in una stanza segreta del suo ufficio a scuola. È il genere di tecnologia avanzata che potrebbe attirare l’attenzione dei militari, o quantomeno, di chiunque sia attrezzato per salvarci meglio di, beh, noi stessi .“
 
“Ma è fantastico!” disse Rachel. Poi gli occhi le si incupirono. “Ma, la scuola…”
 
“Lo so,” replicò Artie. “Ma Quinn è…”
 
“Aspetta,“ lo interruppe Rachel alzando una mano. “Quinn è…Quinn…Si sta dirigendo a scuola? Da sola?”
 
Artie deglutì. “In realtà”, fece una pausa, e Rachel si allungò sulla sedia, in un silenzioso invito a continuare. “E’ già dentro. Ho appena intercettato una sua comunicazione all’incirca…”, guardò il suo orologio, “sei minuti fa, e da allora ha spento la radiotrasmittente.”
 
Rachel era un’artista. Era un’attrice di talento che sapeva come esprimere le proprie emozioni. Però in quel momento, la attraversavano così tanti pensieri e sentimenti che non riusciva nemmeno a stare seduta. Saltò giù dalla sedia e portò una mano sul viso di Artie per impedirgli di parlare quando lui aprì la bocca per spiegarle. “Non…non farlo." Pronunciò quelle parole serrando la mascella, le labbra increspate.
 
Prima che Artie potesse anche solo azzardarsi a dire altro Rachel si stava già precipitando fuori dalla porta, passando nuovamente per la lavanderia e diretta al garage. Non si era neanche tolta le pistole che teneva appese intorno alla vita, né aveva rimosso la mazza da baseball dal vano bagagli del furgone, per cui era già pronta ad andare e bella carica.
 
Marciando verso l'entrata del garage, per poco non finì addosso a Sam che stava trasportando una grossa cassa di cibi in scatola.
 
“Ooh!” disse, “Cos’è che non va?”
 
Ma lei non rispose. Semplicemente non poteva. Perché le sue emozioni erano tutt’altro che stabili. Rachel provava un sacco di cose: era stracolma di sentimenti, a dirla tutta. E alle volte doveva semplicemente allontanarli come se fossero un’entità tangibile. Ma in questo momento, Rachel non era n grado di fare nient'altro anche solo per esistere, senza tornare dentro a discutere aspramente con Artie, mazza alla mano, su quanto fosse stato stupido a permettere a Quinn di avventurarsi a scuola.
 
Da sola.
 
Rachel si era accorta che Quinn aveva sviluppato un suo metodo personale di sistemare le cose. Ma ciò non significava che lei dovesse assecondarla per metà del tempo, o in generale, seriamente.
 
Il garage era ancora aperto, e Rachel salì sul furgone allacciandosi la cintura, con il motore già avviato prima che Kurt si decidesse finalmente ad accompagnarla, raggiungendola in cabina. “Cavolo, Rachel! Che sta succedendo?”
 
La ragazza si voltò verso di lui, riuscendo finalmente a guardare qualcuno negli occhi. “Quinn è dentro la scuola. Proprio ora.”
 
Kurt sollevò un sopracciglio ben curato e annuì. “Quindi immagino di non poter fare niente per dissuaderti dal seguirla?” Rachel sollevò appena un sopracciglio e assestò la mandibola. “E va bene, diamo inizio allo spettacolo.”
 
Ore 10.24
 
Mentre il furgone attraversava il cancello dissolvendosi in strada, gli altri, rimasti alla Base, si riunirono nel Quartier Generale. Avevano ammonticchiato le casse lungo le pareti, e Tina e Brittany stavano ordinando i vestiti uno per un uno. Sam lanciava a Mike confezioni di cereali e piselli e quant’altro dall'ingresso fino in cucina, dove l’asiatico le disponeva negli scaffali.
 
E Artie si era spinto fino alla finestra, scrutando la scia di Rachel con un’espressione curiosa in viso. “Perché Rachel è così sconvolta all’idea che Quinn vada al McKinley? È l’occasione giusta per andarcene finalmente di qui. E Quinn è, beh, la nostra spaccaculi di fiducia a questo punto. Se c’è qualcuno che può entrare e uscire dalla scuola, quella è lei”.
 
“Perché Rachel è così sconvolta?” chiese piano Sam, continuando a lanciare diligentemente barattoli a Mike. “Vuoi dire a parte il fatto che è strapericoloso? Sì, Quinn è la nostra scelta migliore. Non mi azzardo neanche a metterlo in dubbio. Ma ciò non significa che non esistano ottime possibilità che possa morire.“
 
Artie ruotò via dalla finestra, voltandosi a guardarli dritti in faccia. “Ok, mi sembra giusto. E tutti sappiamo che Rachel ha sempre assunto una sorta di ruolo materno, ma…”
 
Santana lo schernì ad alta voce, interrompendolo. “Materno? Spero che tu stia scherzando. Rachel è volata via di qui come un pipistrello dalla caverna perché lei e Quinn trombano come pazze da tre settimane. E lei non vuole perdere la sua scopamica. È semplice logica.”
 
Sam lanciò un barattolo e Mike lo mancò. Il barattolo rotolò sul pavimento della cucina, e tutti quelli nelle vicinanze si voltarono a fissare Santana come se le fosse cresciuta una seconda testa.
 
“E’ vero,” interloquì Brittany, continuando a frugare fra i vestiti di seconda mano. “La camera di Quinn è proprio accanto alla nostra. Possiamo sentire quasi tutto.” La bionda tirò fuori un paio di scaldagambe arcobaleno con un sorriso appagato, e prontamente se li portò alle mani e agli avambracci. Li ammirò per un secondo prima di rituffarsi nello scatolone, completamente ignara di essere al centro dell’attenzione. “E’ talmente eccitante. Vero, San?”
 
L’attenzione generale si spostò di nuovo su Santana, come un colpo di racchetta carico di imbarazzo.
La latina aveva estratto una lima per le unghie dalla tasca e se la stava passando sulla mano sinistra, appoggiandosi casualmente alla parete più vicina come se una manicure perfetta fosse la prima delle sue preoccupazioni. “Già” strascicò lentamente. “Fa venire voglia.”
 
 
22 giugno, 2012
Liceo William McKinley

Ore 10.32
 
Quasi quattro anni al liceo McKinley avevano aiutato Quinn a prendere confidenza con ogni angolo e ogni curva, con ogni corridoio, con ogni fila di armadietti, con ogni aula. 
 
Quinn conosceva la strada.
 
Perciò, quando svoltò in una direzione diversa da quella delll’ufficio della Sylvester, ne era pienamente consapevole. Ma qualcosa la stava attirando lungo un altro corridoio, fiocamente illuminato dalla luce solare del mattino che traspariva dalle sporadiche finestre.
 
Non appena oltrepassò la vecchia aula della signorina Carlisle, uno zombi balzò fuori inciampando. Con calma ma in fretta la ragazza indietreggiò, piantò saldamente i piedi a terra e una pallottola in mezzo agli occhi del cadavere vagante.
 
Bastava solamente un colpo. Un secondo, sarebbe stato come trastullarsi.
La carcassa zombificata crollò a terra con un suono smorzato che le echeggiò nelle orecchie in modo strano, e per un attimo rimase immobile, per vedere se il rumore aveva attirato altri cadaveri. Ma non c’era nessun movimento, nessun segnale, nessun arto putrido e strascicante, nessun lamento disturbante e desideroso di carne.
 
Proseguì per il corridoio.
 
Finalmente, cominciò ad avvertire qualcos’altro oltre ai leggeri colpetti dei suoi stivali contro il pavimento in linoleum, il che era a suo modo confortante. Sapeva che l’orda di zombie che popolava la scuola era da qualche parte nelle vicinanze, e il fatto che non ne avesse ancora visto uno iniziava a sconcertarla.
 
Era l’eco tintinnante e familiare di un qualcosa che proveniva da un luogo ancora più familiare.
 
Fermandosi proprio all'angolo della sua vecchia aula canto, Quinn premette la schiena contro la parete e con un occhio solo, lanciò uno sguardo furtivo oltre l'entrata.
 
E lì, nell’oscurità in cui questa zona della scuola era immersa a causa della sua posizione centrale, risiedeva un muro di zombi. Erano premuti l’uno sull’altro, in un’orgia di sudiciume e marciume e disperazione, che avanzava alla velocità di un bradipo e che per lo più oscillava sul posto.
 
Quinn udì il leggero scampanellio dei tasti del pianoforte, di nuovo, e non poté fare a meno di ghignare disgustata all’immagine che si stava formando autonomamente nella sua testa con cruda chiarezza. Centinaia di zombi che si riversavano in aula canto e che circondavano i corridoi, calamitati in massa dalla melodia del pianoforte: tutti quei cadaveri purulenti che spingevano in quello spazio pieno di spartiti, piedistalli, e ricordi. E probabilmente, dentro era così pieno che un cadavere a caso sarebbe finito addosso al pianoforte, e sarebbe accaduto ancora e ancora finché non ci fossero entrati tutti.
 
Quel dannato pianoforte, come una sorta di dolce campanello che annunciava l’ora di pranzo, che stregava i nonmorti nell’oscurità.
 
Con le punte della dita Quinn sfiorò l’unica granata che aveva attaccata alla cintura intorno alla vita. Sarebbe stato semplice tirare la linguetta e gettare la bomba in faccia all’orda di zombi. Sarebbe stato così semplice, eppure così complicato. Perché in che modo intendeva affrontare quelli che sarebbero sopravvissuti inevitabilmente?
 
Allontanò la mano dall’esplosivo e fece un silenzioso, delicato, passo indietro.
 
Quando si trovò alla distanza di tre intere file di armadietti dall’aula canto, e quando ottenne conferma di non essere stata udita o fiutata o avvistata, Quinn riprese a camminare. Doveva raggiungere l'ufficio della Sylvester, e aveva bisogno di trovare quel dannato congegno che serviva-dio-solo-sa-a-che-cosa.
 
Avanzando velocemente lungo l’atrio, rammentò a sé stessa, non per la prima volta nel corso di quei cinquantotto giorni, che non si trattava di fare gli eroi.
 
Davvero, si trattava di qualcosa di dannatamente più grande.
 
 22 giugno, 2012
Centro settentrionale di lima, nei pressi del McKinley
Ore 10.41

 
Rachel andava così veloce da far praticamente volare il furgone del dottor Jones sopra le buche stradali, tanto che un’accellerata li aveva catapultati in aria per una manciata di secondi.  
 
Kurt ringraziò Rachel per averlo abituato all’uso della cintura di sicurezza.
 
“Rachel…” Kurt pronunciò il suo nome lentamente, con il preciso scopo di attirarne l’attenzione. “Se permetti, posso chiederti perché sei così sconvolta?”
 
Una delle attività preferite di Kurt era formulare domande di cui conosceva già le risposte. E questa particolare domanda lo aveva tenuto inchiodato, approssimativamente, per trentasette giorni. Perché Rachel era così fissata con Quinn? E il fatto che la cosa fosse reciproca rendeva la domanda più che lecita, siccome Quinn aveva certamente fatto la sua parte, specialmente da quando aveva salvato Rachel dalle grinfie del suo paparino zombi.
 
Dopo quell’episodio eclatante, c’erano volute un paio di settimane per iniziare finalmente a considerare l’eventualità che tra le due ragazze ci fosse qualcosa di più di un’amicizia. Qualcosa di non tanto platonico, e al contempo disturbante e adorabile. Tra tutti quelli del glee, forse con la sordida eccezione di Quinn e Puck, Rachel Berry e Quinn Fabray avrebbero potuto facilmente vincere il premio per la convivenza più problematica.
 
 Era una notte di pattuglia. Kurt stava percorrendo le stanze del secondo piano da finestra a finestra, intento a sorvegliare il perimetro in caso di attacco quando le aveva sentite.
 
Ecco spiegata l’inquietantosità del tutto.
 
Per cui Kurt sapeva che, se non altro, Quinn e Rachel trovavano conforto l’una nelle braccia dell’altra nel cuore della notte, quando credevano che nessuno potesse sentirle. Era piuttosto dolce e romantico, in una sorta di terrificante maniera post-apocalittica, certo, perciò Kurt non aveva detto niente alla sua partner. Ormai era ciò che Rachel era diventata: la sua partner nella battaglia per la sopravvivenza. E ora Kurt la stava chiamando a gran voce. E si ritrovò a trattenere le parole che avrebbero potuto sfuggirgli dalle labbra, dal momento che Rachel fissava determinata la strada che avevano di fronte.
 
Rachel si rosicchiò l’interno della guancia per qualche istante, mentre pensava a come rispondergli. Non che non sapesse la risposta, che invece fluttuava nella sua mente almeno ogni ora di ogni dannato giorno. Piuttosto, stava riflettendo su quanto rivelargli. Un rapido sguardo con la coda dell’occhio per poter comprendere la sua espressione, comunque, era tutto ciò di cui Rachel aveva bisogno, perché poteva vedere chiaramente che il ragazzo sapeva più di quanto lasciasse intendere. Perciò inspirò ed espirò un paio di volte prima di arrendersi e fornirgli una spiegazione.
 
“Perché lei mi ha salvato la vita, Kurt. E mi incazzerei a morte se si facesse divorare dai nonmorti prima che io abbia l’opportunità di sistemare le cose.”
 
22 giugno, 2012
Sudovest di Lima, Tra la Residenza di Sue Sylvester e la Base Madre
Ore 10.45

 
La Jeep sbatacchiò sotto di loro dato che Finn non aveva esitato a spingerla a tutta birra per strade secondarie vecchie e malridotte. La zona di Lima che stavano percorrendo era inquietante, e non soltanto perché poteva esserci uno zombi a ogni angolo. Era vicina ai confini della città, e Finn non aveva mai conosciuto alunni del McKinley che avessero il coraggio di abitarvi con le loro famiglie, fatta eccezione per Sylvester, ovviamente. Era fetida e improvvisata e (Santana se l’era lasciato sfuggire in più di un’occasione) borghese.
 
Da queste parti, c’era una stradetta a quattro corsie che conduceva dritto dritto al cuore della città. Finn si fermò allo stop (era la forza dell’abitudine), e si stava preparando a infilarsi in quella particolare stradetta quando lo avvertì.
 
Fu abbastanza sicuro che per un istante, un unico, singolo istante, il cuore smise di pompare sangue nel suo corpo.
 
Era un suono diverso da qualunque cosa Finn avesse mai udito in diciotto anni di vita. Lui era un ragazzone, alto e atletico (anche se con una costituzione imbarazzante), tuttavia le mani gli tremarono sul volante quando voltò la testa a destra. Afferrò il volante serrandovi le dita in una stretta quasi dolorosa.
 
“Amico,” disse Puck, sollevando un sopracciglio preoccupato in direzione di Finn. “Che ti prende? Andiamo”.
 
Ma Finn era congelato dal terrore, e giustamente: sebbene li avesse sentiti in anticipo, adesso li aveva praticamente di fronte.
 
Senza distogliere lo sguardo dal lungo tratto di strada in lontananza, Finn allungò una mano, facendo voltare Puck.
 
“Ma che…” Puck si affacciò fuori dal finestrino della Jeep. Inclinò l’orecchio che la doppietta di Finn gli aveva fatto esplodere verso le sagome che ora poteva distinguere all’orizzonte. E malgrado il suo udito non funzionasse neanche lontanamente bene, riuscì a decifrare a malapena il ringhio smorzato e monotono di un'orda di zombi che gemeva famelica nell’aria del mattino. “Figli di puttana,” sibilò.
 
“Già,” concordò Finn. “Porca miseria.”
 
Puck cercò a tastoni la radio collegata al quadro comandi del veicolo. Non riusciva a staccare gli occhi da quell’immagine martellante, scintillante, quasi un miraggio che, con tutta probabilità, gli avrebbe marchiato a fuoco il cervello per sempre.
Era un fottuto esercito di nonmorti.
 
E si stava dirigendo proprio a Lima. E sebbene Finn e Puck avessero molta più dimestichezza con le mappe dei videogiochi che con quelle reali, sapevano che quest’autostrada conduceva dritto in città e alla Base Madre. Per cui era automatico che se la fottutissima orda di zombi famelici, dai piedi pesanti e le mandibole fragorose avesse proseguito per quella rotta, avrebbe finito per approdare nel mezzo di ciò che era rimasto delle Nuove Direzioni.
 
“Ragazzi!” esclamò Puck attraverso il walkie talkie. Le sue labbra sfiorarono la plastica, calda contro la luce solare, mentre attendeva una risposta.
 
“Puck.” La voce di Artie giunse ai canali, ma anziché sentirsi rincuorati, Finn e Puck se la fecero sotto nelle mutande. 
 
La voce vibrante di Artie e il suono lontano e smorzato del suo nome spronarono Puck all’azione. Schiacciò nuovamente il pulsante e disse, “Abbiamo un problema.”
 
22 giugno, 2012
Base Madre
Ore 10.47

 
Brittany era distesa tra le gambe di Santana. Le due si trovavano all’ingresso della veranda. Il contatto reciproco contro i caldi mattoni dell’esterno della casa le rasserenava.
 
Dentro c’era troppa roba, troppa aspettativa nei confronti di Quinn per un suo successo. Oppure per un potenziale fallimento.
 
“Sei emozionata per domani?” Le parole di Brittany le scivolarono dolcemente dalle labbra, in tono basso e quasi roco.
 
Santana si allungò per darle un bacio sulla tempia, appena accanto il risvolto del colbacco, respirando il suo dolce profumo. Con gli occhi percorse la pelle soffice e liscia di Brittany e si prese un momento per stupirsi dell’esemplare perfetto che aveva tra le braccia. “Cos’è domani?” rispose infine.
 
Brittany si voltò verso di lei, schiacciando insieme i loro nasi. Aveva gli occhi spalancati per lo stupore e Santana cominciò a scavare nel suo cervello, cercando di rammentare anniversari o qualunque altra cosa per la quale Brittany voleva che si sentisse eccitata.
“Santana,” disse Brittany, con quel tono melodioso e provocante da cui Santana non riusciva a disintossicarsi. “E’ il tuo compleanno.”
 
La latina sollevò le sopracciglia appoggiandosi al muro, assimilando le parole della sua ragazza con una leggera risata e un mezzo ghigno. “Ah, tutto qui?”
 
Con un bel sorriso stampato e uno sguardo ambiguo, Brittany si spinse in avanti e cominciò a tempestare di baci il collo di Santana. Quando la latina cominciò a ridacchiare, cercando debolmente di sfuggirle, Sam uscì fuori dalla porta principale.
 
“Signore,” disse, ed entrambe si voltarono in sincrono.
 
“Sì?”
 
Cosa?”
 
Parlarono contemporaneamente. Brittany senza un'ombra di frustrazione, dal momento che Santana stava palesemente svuotando quella particolare emozione.
 
“Artie ha delle novità,” replicò Sam, per niente scoraggiato dall’atteggiamento di Santana. In fondo era tipico di lei. Aveva sempre avuto un carattere forte, benché si fosse incredibilmente inacidita da quando gli zombi avevano cominciato a vagare per la città.
 
“Su Quinn?” domandò Brittany, rimettendosi in piedi e aiutando Santana a fare lo stesso.
 
Sam scosse la testa. “Non lo so per certo, non ho ascoltato la conversazione.”
 
Santana si spolverò il sedere e oltrepassò la porta principale, intrecciando i mignoli con Brittany. Sam le seguì all’interno.
 
Dopo che ebbero varcato l’ampio passaggio ad arco del Quartier Generale, Artie li accolse con un cenno del capo e si spinse gli occhiali su per il setto nasale. C’erano tutti, Santana e Brittany, Tima, Sam, Mike, per cui non perse tempo a riferire loro la conversazione avuta con Puck e Finn. Puck aveva urlato così forte nella radio (colpa di un intoppo che non era ancora riuscito a comprendere appieno) al punto che Finn era stato costretto a prendere possesso del dispositivo e a illustrargli la situazione.
Le sue parole erano più calme di quelle di Puck, eppure avevano terrorizzato Artie oltre ogni immaginazione.
 
“C’è una gigantesca folla di zombi diretta a Lima da sudovest. Dalla traiettoria, possiamo presumere che provenga dalla più popolosa area di Indianapolis, anche se non ne siamo certi. Ma il fatto più importante, è che questa traiettoria ci mette proprio sul loro cammino.”
 
I singhiozzi di Tina vennero facilmente ignorati da tutti, incluso Mike. Si limitò a tamburellare le dita sul braccio della sua ragazza, cercando di riflettere (come gli altri del resto) su cosa avrebbero dovuto fare di conseguenza.
 
Un pesante silenzio misto a sottile disperazione e angoscia li sommerse per qualche istante. Con il mignolo ancora intrecciato a quello di Brittany, Santana prese finalmente parola. “Dobbiamo essere pronti al peggio. Dobbiamo affrontare la situazione come se Quinn non dovesse farcela.”
 
“Abbi un po’ di fede,” disse Mike, in tono fermo ed energico, il solito, insomma. Ciononostante, sulla sua fronte corrugata, fece capolino una piega di incertezza.
 
“Io ho fede in Quinn, zuccone,” ribattè Santana, con il suo miglior tono alla ti-sembro-per-caso-un’idiota? “Ma qui si parla di una mostruosa folla zombi che si sta dirigendo verso di noi. E lo steccato è carino e tutto quanto, ma non ci terrà al riparo da centinaia di migliaia di nonmorti. Siete tutti degli illusi se credete che sia possibile. Perciò sì, forse la ragazza è ancora viva. E sì, forse riuscirà a trovare quel dannato coso. E forse, c’è la possibilità che faccia ritorno in tempo per chiedere aiuto via radio e per portare qui qualcuno che ci aiuti ad uscire prima che gli zombi riescano a entrare. Ma se anche solo una di queste cose non si realizza, se anche solo per un secondo la fortuna non ci sorride, siamo fottuti. Perciò dobbiamo fare qualcosa a riguardo.”
 
“E che cosa?” domandò Tina, tirando su con il naso e cercando di contrastare le lacrime. “Che cosa facciamo?”
 
“Fortifichiamo il perimetro,” disse Sam. “Non so ancora dove Rachel abbia preso quegli esplosivi C4, e ho un po’ paura a chiederglielo comunque… li abbiamo conservati in una di quelle case abbandonate giù in strada. Io e Mike potremmo metterne su un paio. Artie, tu potresti aiutarci con le esplosioni a distanza. Se per allora i cadaveri ci avranno raggiunti mentre noi siamo ancora intrappolati qui, possiamo perlomeno provare a decimarli prima che arrivino allo steccato.”
 
“Già,” replicò Artie, il viso che gli si illuminava al pensiero di poter fare effettivamente qualcosa anziché starsene seduto lì come un qualunque pezzo d'arredamento. “Possiamo farlo. Decisamente.”
 
“E se li decimiamo, sarà più facile abbatterli a distanza,” aggiunse Mike.
 
“Grande,” disse Santana, in tono piatto e palesemente indifferente nei confronti di quella sottospecie di circolo sentimentale per fanatici di bombe ed esplosivi spara-merda. “Iniziate pure. Io e Brit andiamo di sopra a preparare le postazioni da tiro o roba simile."
 
Con un braccio attorno alla vita di Brittany, la latina si diresse sopra le scale. Nel frattempo, i ragazzi avevano già cominciato a discutere strategie mentre Tina fissava gli scatoloni di vestiti ancora chiusi che Rachel e Kurt avevano portato in mattinata, chiedendosi se avrebbe avuto l’occasione di tirarli fuori, figuriamoci indossarli.
 
“Quanto manca all’arrivo della folla?” domandò Sam a voce bassa.
 
Artie deglutì pesantemente. “Finn ha detto che si muovevano a passi lenti ma incalzanti. In venti minuti hanno coperto quasi un quarto di miglio.”
 
“E noi ci troviamo tipo a…dodici miglia a distanza, con buona probabilità?” interloquì Mike, a braccia conserte, sollevandosi continuamente sulle punte dei piedi.
 
“A dodici miglia virgola cinque. Il che ci dà, all’incirca, un po’ meno di diciassette ore di vantaggio e almeno quattro in mattinata, prima che ci raggiungano,” lo corresse Artie. “Ammesso che, ecco, non ci fiutino prima e decidano di muoversi ancora più velocemente.”
 
Tina si sedette davanti al pianoforte e cominciò a premere i tasti di quel polveroso arnese dimenticato in un angolo, componendo una melodia malinconica.
 
Mike, Sam ed Artie cominciarono a effettuare la mappatura del sentiero che conduceva alla Base Madre, studiando i punti in cui piazzare gli esplosivi in modo da ottenere la massima efficienza.
 
Intanto, di sopra, Brittany e Santana fecero l’amore come se il mondo non fosse già finito.
 
22 giugno, 2012
Liceo William McKinley
Ore 11.00

 
Quinn rallentò il passo quando raggiunse finalmente l’ufficio della Sylvester. Una volta dentro notò le veneziane stirate, e il silenzio le tamburellò i timpani. Quinn si chiuse delicatamente la porta alle spalle. La porta emise un clic, e lei ne bloccò la serratura.
 
Una piccola precauzione che poteva offrile un piccolo vantaggio, in caso di necessità.
 
Quinn non perse tempo e si fiondò immediatamente alla meticolosa ricerca della presunta stanza segreta fatta costruire da Sue. Una parte di lei non era affatto sorpresa della sua esistenza. La coach era sempre stata un po’ squilibrata, e una camera blindata appariva come una necessità del tutto scontata per una come lei. Quindi la dommanda non era “Esiste una stanza segreta?” ma piuttosto “Dove diavolo si trova?”
 
Doveva scoprirlo. Di nuovo, i volti dei suoi compagni le turbinarono in testa. Questa stanza, ospitava qualcosa che avrebbe potuto trarli in salvo. E sebbene avesse preso seriamente il voto fatto a sé stessa sin dall’inizio di questo totale sbaraglio, proteggere i suoi amici, fosse anche stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua, Quinn era comunque stanca. 
Perché spaccare culi e salvare vite richiedeva un sacco di sforzi del cazzo.
 
Essere la capocheerleader non aveva niente a che vedere col trinciare zombi o con l’aprire il culo ai nonmorti.
 
Cominciò dalla scrivania della Sylvester. Scartabellò i cassetti, in cerca di indizi, scomparti segreti, doppifondi, qualunque cosa potesse condurla allo spazio segreto. Si imbatté nel fischietto preferito di Sue, e Quinn si meravigliò di come la coach fosse riuscita semplicemente a lasciarlo lì, accanto al suo diario. Dov’era finita Sue? Era morta, viva, una dei loro?
 
I suoi passi echeggiavano placidamente nell’ufficio alquanto vasto mentre procedeva verso uno dei quattro archivi a ridosso delle pareti. Ne estirpò completamente i cassetti senza trovarvi nulla. Nulla degno di nota, né dentro né dietro di essi.
Nessun tunnel segreto, nessun interruttore o indizio. E Quinn non aveva proprio il tempo di mettersi ad analizzare i file uno per uno, per cui sperò con tutte le sue forze che non ce ne sarebbe stato bisogno.
Tenendosi sulle ginocchia, Quinn iniziò a tastare i contorni delle piastrelle del pavimento. Era alla ricerca di incongruenze, difformità nella struttura, qualsiasi cosa bastasse a rivelarle che i conti non tornavano.
 
E mentre era piegata sulle ginocchia, nell’ufficio scarsamente illuminato da una luce che filtrava attraverso una finestra isolata, Quinn comprese…
 
La sua famiglia. I suoi amici. Costoro rappresentavano l’unico motivo per cui negli ultimi tempi era sempre valsa la pena di combattere. E la coach Sylvester, con tutte quelle parole pungenti e i suoi progetti pieni di pretese, coltivava da un’intera vita lo stesso sentimento che Quinn aveva sviluppato solo di recente. Sue aveva sempre protetto coloro che amava al di sopra di ogni sacrificio.
 
Sua sorella, Jean.
 
E poi Quinn si alzò frettolosamente in piedi con un movimento delle dita.   
Perché improvvisamente sapeva, semplicemente sapeva. E quante volte, nel corso degli anni, aveva visto quella foto, quel benedetto fottuto ritratto sulla parete di Sue, che ricordava a ogni membro atterrito dei Cheerios piombatole davanti alla scrivania (o a qualunque altro spirito errante avesse avuto la sfortuna di incrociarla) che, a dispetto della sua gelida facciata, Sue restava ancora molto umana?
 
Un ritratto di Sue e Jean campeggiava sulla parete opposta all’ingresso dell’ufficio. Quinn praticamente balzò in aria per afferrarlo e subito allungò una mano, tastando i bordi della solida cornice di legno. Era scura e calda al tatto, però non presentava alcuna irregolarità...
 
Finché Quinn non spostò il ritratto leggermente a sinistra e qualcosa fece clic, emettendo un fischio idrico nella quiete della camera: la cornice si spostò tutta in alto automaticamente.
 
Apparve un piccolo bottone luccicante. Era rosso, e Quinn non perse tempo a schiacciarlo.
 
La ragazza indietreggiò, stringendo le fondine delle pistole sui fianchi non appena qualcosa cominciò a vibrare, tra clic e rumori metallici, e la vetrina dei trofei dietro la scrivania di Sue si divise nettamente in due rivelando una fottuta stanza segreta.
 
E non appena una tenue luce si diffuse nella suddetta stanza, lo stomaco di Quinn fece una capriola, la sua mascella si spalancò e in quel momento non riuscì a fare altro che fissare. 
 
22 giugno, 2012
Centro settentrionale di Lima, nei pressi del McKinley
Ore 11.09

 
Più si avvicinavano a scuola, più Rachel rallentava la corsa. Meno baccano, meno attenzione. Non doveva fermarsi sbandando selvaggiamente davanti alle rovine del McKinley, anche se avrebbe voluto farlo. Perciò, a un paio di blocchi a est del liceo, il furgone traballò fino ad arrestarsi. Rachel lo parcheggiò e spense il motore, allungandosi verso il bagagli in cerca della mazza da baseball mentre Kurt saltava giù dal veicolo.
 
Si trattava della mazza di Quinn, quella che lei aveva usato contro gli zombi durante il loro primo giorno. Curiosamente morbida, forse. Tuttavia da allora, Rachel l’aveva stretta a sé. Durante le ultime tre settimane, lei e Quinn avevano cominciato a trascorrere le notti assieme, ma quello era solo un prolungamento della loro relazione. Per il momento. Sfortunatamente. Per cui ogni volta che era fuori, Rachel si assicurava di avere con sé la famosa mazza in spalla e le sue 6P9 (con tanto di silenziatori) ancorate ai fianchi.
 
Kurt, d’altro canto, per sbrigare le sue faccende, preferiva lame letalmente affilate alla forza bruta. Diceva che aiutavano a tenere più pulite le sue Versace. Quando si trattava di far fuori gli zombi a distanze ravvicinate lui era il migliore, sia che li decapitasse sia che li infilzasse bucandone il viso sino alla corrotta materia grigia del cervello, sia che essi zoppicassero, arrancassero, strisciassero o procedessero spediti. Una volta i ragazzi del glee lo avevano punzecchiato e, l’anno scorso, durante un fine settimana a casa Hummel, Kurt li aveva condotti tutti fuori per sfoggiare le sue abilità.
 
Nessuno lo canzonava al giorno d'oggi.
 
Rachel saltò giù dal furgone, riposizionando la mazza nella cinghia di fortuna che le attraversava il petto. Kurt tirò fuori entrambe le sue 6P9 e ne controllò le camere di scoppio, assicurandosi che fossero del tutto piene. Lo erano, naturalmente.
 
“Pronto?” gli chiese Rachel.
Sempre” le rispose Kurt.
 
Trotterellando, si avviarono verso il liceo. Quando girarono attorno al campo da football, l’edificio sembrò materializzarsi improvvisamente davanti ai loro occhi, ergendosi come una specie di spettro proveniente dal passato. Entrambi erano ossessionati dai ricordi sgradevoli legati a questo posto, perciò non era stato difficile dirvi addio. Nessuno dei due si era preso la briga di avvicinarsi alla scuola nel corso degli ultimi cinquantotto giorni.
 
Rachel rallentò, mantenendosi a passo spedito, e Kurt vi si adeguò con facilità. Le loro mani si incontrarono nel mezzo, strette l’una all’altra nell’abbraccio di due vecchi amici.
 
Immagini di Quinn assalirono Rachel non appena la ragazza si ritrovò davanti alle porte sfracellate e scardinate del liceo William McKinley. Quinn vestita di blu e avvolta in un cardigan bianco, con le mani sul pancione mentre Rachel le offriva qualcosa, qualsiasi cosa. Quinn che schiaffeggiava a sangue Rachel perché il mondo stava sbriciolandosi attorno a lei la sera del ballo del terzo anno. Quinn che riduceva in frantumi il cranio malandato di un cadavere. Quinn che riammazzava il papà di Rachel e dopo correva a stringerla, a cullarla tra le braccia, a baciarle la fronte facendo promesse che non dovrebbero essere formulate quando il mondo è già precipitato all’inferno. Quinn che nemmeno si preoccupò di protestare quando Rachel entrò in camera sua la prima di tante notti, con l’oscurità che inghiottiva le loro facoltà mentali accrescendo la passione che nessuna delle due, mai prima d’ora, aveva neanche sospettato potesse esistere, cazzo, tra loro…
 
O magari sì, lo avevano sospettato. Forse lo avevano saputo per tutto questo tempo. E forse era il motivo per cui non avevano mai preso una posizione. Perché quando si incontravano nel buio della notte, pelle contro pelle, labbra contro labbra, muovendosi sotto le lenzuola come un unico corpo nella blanda luce lunare che filtrava dalla finestra, erano magiche, insieme. Forse la Rachel del primo, del secondo e del terzo anno e la Quinn del primo, del secondo e del terzo anno non avrebbero potuto comprenderlo appieno. Ma adesso erano cresciute. Ed erano sopravvissute a qualcosa a cui moltissime persone non avevano trovato scampo. Perciò, magari, la cosa le aveva rese più forti, più sagge, più emotivamente disponibili.
 
Ed ecco perché, ora che Rachel era finalmente arrivata a comprendere la dinamica del loro rapporto, non poteva assolutamente permettere a questa scuola, a questa fottuta scuola, di mettersi in mezzo. Rachel aveva intenzione di arrivare a lei, dannazione. E nulla, nè gerarchie sociali, né insicurezze né questa cazzo di apocalisse degli zombi, le avrebbero sbarrato la strada.
 
Kurt le lanciò un’occhiata e osservò l’espressione determinata di Rachel. Essendo sempre l’unico a guardarle le spalle, sollevò una mano indicando la cupa entrata del McKinley. “Prima le signore.”
 
Rachel si prese mezzo secondo per rivolgergli un sorriso compiaciuto prima di dirigersi all'interno.
 
Per una volta nella vita, Rachel trovò facile ignorare il tintinnio del pianoforte.
Aveva un unico scopo: raggiungere Quinn.
 
Ed era esattamente ciò che stava per fare.
 
 22 giugno, 2012
Centro di Lima,
Ore 11.14

 
Dopo aver localizzato quell’orda di zombi oltremodo inquietante in lontananza, Finn aveva scelto un itinerario diverso per tornare alla Base Madre. Non avevano alcuna intenzione di finire nel presunto campo visivo delle creature, in caso avessero potuto incitarle, Dio non voglia, a seguirli per Lima o roba simile. Benché la distanza tra loro e l'orda fosse notevole, i due ragazzi erano ancora nel pieno della paranoia.
 
“Amico, siamo veramente fottuti,” mormorò Puck dal sedile per i passeggeri.
 
Finn scosse la testa. “Non siamo fottuti,” replicò.
 
Puck voltò la testa a lato e guardò di traverso il suo migliore amico, come se servisse a fargli ascoltare meglio o qualcosa del genere. “Che cosa hai detto?”
 
Finn si sforzò di non ridere. Perché nel complesso, la situazione non era neanche lontanamente divertente. Però forse, se fossero sopravvissuti, forse allora avrebbero potuto ridere di quella volta in cui Finn aveva fracassato il timpano di Puck per salvargli la vita e Puck aveva perso l'udito per tutto il giorno. Forse.
 
“Niente,” rispose Finn, premendo con più forza l’accelleratore, spronandoli verso il conforto e l’intimità di quel posto che avevano imparato a chiamare casa.
 
22 giugno, 2012
Base Madre
Ore 11.15

 
Artie terminò la registrazione del messaggio a cui stava lavorando e schiacciò il tasto play.
 
Qui è Artie Abrams. Siamo dodici sopravvissuti. Ci troviamo in un’abitazione sul fianco nordorientale di Lima, Ohio, ai confini della città. Siamo in cerca di aiuto o di qualunque altro sopravvissuto in zona. Nessuno di noi è infetto. Le nostre coordinate…”
 
 Soddisfatto, Artie montò il trasponditore per teletrasmettere il messaggio su tutte le frequenze disponibili. Nel corso di quei cinquantotto giorni, non aveva intercettato nulla da nessuno dei canali. Ma doveva provarci. In fondo, cosa gli costava?
 
All’esterno, in mezzo alla strada, Sam e Mike avevano cominciato ad occuparsi di esplosivi. Il padre di Mike lavorava nel settore edilizio, e il figlio gli aveva dato una mano nelle corso delle ultime estati. Quando non era al Campo Asiatico o a ballare, i lavoretti in cantiere lo aiutavano a mantenere i suoi addominali in uno stato di autentica perfezione. Non era un esperto, ma era il meglio che potessero permettersi. E Sam imparava in fretta. Così, con l’esperienza di Mike, le istruzioni di Artie e la determinazione di Sam, il gruppo cominciò ad allestire la prima difesa contro l’imminente esercito di nonmorti.
 
Al secondo piano, Santana e Brittany avevano finalmente smesso di godersela (letteralmente). Con l’aiuto di Tina, stavano piazzando le famose postazioni da tiro che Santana aveva menzionato come una semplice scusa per portarsi Brittany di sopra, e poterla ammirare nuda. La facciata frontale della Base Madre era larga, maestosa. Dotata di due diverse stanze per gli ospiti e di una smisurata camera in cima alle scale che si affacciava nella direzione giusta. Erano in dodici, come aveva sottolineato Artie. Tuttavia, il signor Schue non lo si contava più da molto tempo. Perciò le ragazze stavano allestendo undici postazioni lungo quel lato della Base.
 
Brittany le allungò una scatola contenente un’alta pila di munizioni. “San…”
Santana la depositò accanto al fucile appoggiato contro il davanzale che aveva di fronte. Il tono di Brittany catturò subito la sua attenzione, perciò voltò la testa. E il fatto che la fronte della sua ragazza fosse parzialmente aggrottata le strappò un piccolo frammento di cuore, sino a infrangerlo. “Che succede, Brit Brit?” le domandò, muovendosi verso di lei e avvolgendole la vita con un braccio.
 
Senza sforzo, Brittany coprì le spalle di Santana con le braccia, avvicinandole ancora di più. “Ho una brutta mira, S” disse, spostando lo sguardo sull’arma dietro Santana.
 
Un ghigno triste, spezzato, le si materializzò sul viso. Santana odiava il fatto che Brittany dovesse preoccuparsi per quello, su tutto il resto. “Non fa niente, tesoro,” replicò Santana. “Quando saranno abbastanza vicini perché tu possa colpirli, è lì che avremo bisogno di te.”
 
22 giugno, 2012
Ufficio della coach Sylvester
Ore 11.17

 
Quinn aveva assistito a un sacco di cazzate assurde da quando il mondo era precipitato all’inferno e gli zombi avevano iniziato a errare per le strade di Lima.
 
Aveva visto da lontano la folla dei nonmorti aggredire un povero cazzone durante un giretto veloce, mentre lo squartavano da parte a parte, per poi zoppicare via in cerca di un altro spuntino mattutino. Aveva visto uno zombi lento inciampare goffamente su una crepa del marciapiede, faccia a terra, lasciando una scia di pelle putrida e sangue marcio sul cemento. Aveva osservato da lontano la disperazione dei suoi compagni di classe quando ebbero conferma che le loro case deserte erano state abbandonate, o peggio, contenevano gli avanzi di quanti erano stati incapaci di gestire tutta quella follia, o di quanti si erano piegati al virus.
 
Aveva visto una delle sue migliori amiche, la ragazza che le aveva offerto una casa quando tutto ciò di cui lei aveva bisogno era amicizia, cadere vittima del morso. In un momento di distrazione, in un momento tra la porta principale di casa Fabray e la Jeep che stavano guidando quel giorno, in un momento in cui c’era soltanto un veicolo a separarle…Ma un intero veicolo a dividerle era praticamente un oceano in quella circostanza, e certamente bastò a impedirle di salvare la vita di Mercedes. Quinn aveva urlato “Mercedes!” nella fredda aria del mattino, e la ragazza si era voltata. Ma lo zombi, uno dei vicini per cui Quinn non aveva mai provato simpatia si era già attaccato alla carne di Mercedes. Le aveva azzannato la pelle, il tendine e interi strati di grasso arrivando fino alle fottute ossa, e allora non c’era stato niente che Quinn potesse fare. Aveva corso intorno alla Jeep per aggiustare il tiro e aveva fatto fuori il signor Thomas attraversando con una pallottola il tessuto purulento del suo cervello, ma non aveva fatto alcuna differenza. Quando Mercedes si voltò, in preda a una febbre bollente e a dolori e fitte e fiumi di lacrime e lamenti e tumefazioni piene di marcio che le colavano sulla pelle, nella scomodità dello scantinato dei Jones, Quinn era stata l’unica a porre termine alla sua nuova vita.
 
Perciò sì, Quinn aveva assistito a un bel po’ di merda. Aveva combinato le sue cazzate. E alla fine di questo casino (anche solo immaginando che sarebbe stato mai possibile) Quinn sapeva che non sarebbe mai più stata la capocheerleader, o quel membro delle Nuove Direzioni che oscilla sullo sfondo, o quella ragazza incinta presa a spinte nei corridoi, o quella bambina obbediente che ne sta seduta davanti alla scrivania di Sue Sylvester a chiederle “Quanto in alto?
 
Ma mentre se ne stava in piedi contro la vetrina dei trofei divisa a metà, mentre fissava l’interno della stanza segreta costruita da Sue, mentre fissava lo sguardo impassibile del suo mentore da quella che sembrava una dimensione parallela, Quinn avvertì le parole “Quanto in alto?”sulla punta della lingua. Represse l’urgenza di stringersi una coda di cavallo che non c’era, di raddrizzare le spalle e apparire a dir poco perfetta.
 
“Q,” la voce beffarda di Sue echeggiò nello spazio e nei timpani di Quinn. “Devo dire che non sono per niente impressionata dal tuo nuovo taglio.”
 
Indossava una tuta in materiale sportivo, piegata e avvolta intorno al fianchi, scoprendo una maglia bianca a tinta unita. Il volto, il collo e le braccia erano coperti da strisce di sudore piuttosto lucenti, e Quinn non le aveva mai visto portare i capelli così lunghi. Gli occhi di Quinn guizzarono dalla figura di Sue al piccolo spazio della camera blindata che conteneva una minuscola doccia, una branda, un forno a microonde e diversi ripiani di cibo in scatola. Su una mensola, c’era persino una confezione di twinkie1] non ancora aperta. Ma anche con un solo sguardo, Quinn si accorse che le provviste scarseggiavano.
 
Il che era bizzarro. Si aspettava che Sue si fosse organizzata meglio.
 
Ma, cosa ancora più importante, Quinn aveva scorto pile di strumenti sparsi ovunque, e una parte della considerevole attrezzatura a cui la donna stava apparentemente lavorando.
Fece qualche passo avanti, e Sue premette un bottone sulla parete. Quinn si girò di scatto a osservare la vetrina dei trofei che si ricomponeva di nuovo, rinchiudendole completamente all’interno. Cercò di scacciare il senso di claustrofobia rivolgendo l’attenzione a quel pasticcio di fili metallici e aggeggi con cui la coach stava giocherellando. Ma prima che potesse formulare una domanda, Sue interruppe il treno dei suoi pensieri.
 
“E’ bello averti finalmente in squadra, Fabray. Ero convinta che la mia pupilla mi avrebbe trovata con un po’ più di anticipo. In caso fosse ancora viva.” Sue analizzò lo sguardo vagante di Quinn. “Che c’è?” le domandò. “Pensavi che non fossi preparata per un evento così importante come un’istantanea epidemia zombi su scala mondiale?”
 
Quinn inclinò lievemente la testa a sinistra prima di corrugare la fronte con fare pensoso, e annuire. “Mi sembra giusto,” rispose. Dopotutto, aveva senso: si trattava di Sue Sylvester, perdio. E poi Quinn arrivò dritta al punto, perché non c’era motivo di aspettare e gli altri contavano su di lei per mettersi in salvo. E Sue aveva i mezzi per aiutarli. “Sono qui perché abbiamo saputo del dispositivo di segnalazione”, disse, “e mi hanno mandato a prenderlo.”
 
Sue sporse la mascella inferiore e annuì, esaminando la situazione. “Il fatto che tu abbia reagito da vero uomo date le circostanze, ha perfettamente senso. Fammi indovinare, la piccoletta con le labbra a canotto e la voce assordante non è durata più di una settimana?”
 
Con le narici che le bruciavano, Quinn replicò, “Rachel sta bene. Ora, per quel dispositivo.” Ancora una volta, gli occhi di Quinn tornarono alla camera. Un massiccio sistema informatico occupava una parete intera. Eppure i suoi pensieri erano a malapena distratti da tutto ciò. Perché c’era qualcosa riguardo quel pezzo di attrezzatura a cui Sue stava lavorando che continuava ad attrarre la sua attenzione, qualcosa capace di stringerle letteralmente lo stomaco e conficcarglielo in gola. 
 
E quando Sue parlò, Quinn si ritrovò a essere meno sorpresa di quanto avrebbe dovuto.
 
A un certo punto, tutte le energie che potrebbero sfociare in entusiasmo sono, semplicemente, spese meglio altrove.
“Bene Q, eccolo qua…”
 
 22 giugno, 2012
Liceo William McKinley
Ore 11.19

 
Fermandosi con grazia di fronte all’ufficio della coach Sylvester, Kurt e Rachel provarono subito a girare lievemente la maniglia.
 
“E’ chiusa a chiave,” sussurrò Kurt.
 
“Quinn deve essere dentro,” replicò Rachel. Premette il viso contro la finestra in vetro dell’ufficio, ma le veneziane erano abbassate e all’interno non vi era quasi alcuna luce. Se Quinn era lì, non poteva vederla. Ma doveva supporre che la ragazza fosse dentro l’ufficio.
 
Doveva…
 
“Forse ha trovato la camera della Sylvester,” disse Kurt. “O…Voglio dire, forse non si trova nemmeno lì. Forse tocca a noi trovare la camera adesso. Forse Quinn…”
 
“Non pensare neanche di finire quella frase, Kurt,” sibilò Rachel, rivolgendogli uno sguardo rovente. Il ragazzo chiuse immediatamente la bocca con uno scatto, il che fu saggio da parte sua. “Lo sapevo che avrei dovuto accettare quando Puck si è offerto di insegnarmi come forzare le serrature,” mormorò a se stessa. La sua voce si sparse per il corridoio deserto, e per un momento, entrambi studiarono l’atrio, aspettando di vedere se degli ospiti indesiderati sarebbero stati attratti dal loro odore, dai loro rumori, dalla loro presenza.
 
“Potrei sempre provare a buttarla giù,” propose Kurt con un alzata di spalle e incrociandole braccia. Si passò le dita su un ciuffo, rimettendolo a posto. Il che significava indubbiamente che il mondo stava girando nel senso giusto, o almeno quello di Kurt.
 
Rachel aggrottò entrambe le sopracciglia, pericolosamente. “Faresti troppo chiasso. E poi… ne sei davvero capace?”
 
Kurt agitò per aria la mano destra, con noncuranza. “Mike mi sta insegnando come farlo senza ferirmi.”
 
Muovendo un passo incerto (o due o tre) all’indietro, Rachel indicò la porta con un gesto drammatico. “Come vuoi, allora,” gli disse, “fa’ pure!”
 
La prima volta che Kurt batté il tacco dello stivale contro la porta, proprio sotto la maniglia, i due raddrizzarono immediatamente le spalle restando immobili, completamente paralizzati per un secondo o due. Rimasero in ascolto, in attesa di assistere alla propria probabile morte come conseguenza di un rumore tanto fragoroso, che ancora risuonava nell’aria statica del liceo. Ma non accadde nulla, pertanto Kurt si voltò e pestò di nuovo, due volte, finché non ebbe frantumato il telaio della porta, con tanto di serratura.
 
Non appena Kurt e Rachel misero piede nell’ufficio, la vetrina dei trofei cominciò a dividersi a metà. A mascelle spalancate, osservarono l’immagine, comica in qualunque altro contesto, di Quinn e Sue Sylvester che sporgevano la testa dalla fessura che emergeva dietro la scrivania della coach.
 
Ovviamente, Sue fu la prima a spezzare il silenzio disceso sugli astanti dopo la prodezza di Kurt. “Non potevi bussare?”
 
Kurt spalancò la bocca e la richiuse, alla vana ricerca di qualcosa da dire. Tuttavia, la ragionevolezza della domanda lo lasciò chiaramente allibito.
 
Quinn avanzò, passando in fretta accanto alla spalla sinistra di Rachel e sporgendosi dalla porta dell’ufficio di Sue. Tutti gli occhi erano su di lei mentre allungava il collo fuori dall’entrata e in direzione dell’atrio, concentrando l’udito. Infine, tornò dentro e si diresse nella stanza segreta di Sue.
 
“Dobbiamo andare,” disse, cacciando nel primo sacchetto libero quanti più strumenti poteva. Sue seguì immediatamente il suo esempio, richiudendo il pezzo dell’apparecchio a cui stava lavorando e attaccandovi dei nastri che le avrebbero consentito di portarlo in spalla come un grosso zaino metallico. Attraversò rapidamente la stanza e gettò il twinkie in una delle tasche della tuta sportiva. “Adesso” ripetè Quinn. “Ci avranno sentiti.”
 
Rachel aiutò Quinn a raccogliere il resto della strumentazione e se la sistemò lungo schiena, rimuovendo la mazza e stringendola tra le dita della mano destra.
 
Kurt sollevò un dito esitante. “So che probabilmente non è il momento più adatto per le domande –“
 
“E allora astieniti,” lo schernì Sue.
 
Roteando gli occhi, Kurt scelse di non far caso a qualunque autorità la coach Sylvester pensava di aver mantenuto dopo la fine del mondo. “Cos’ha sulla schiena?”
 
“Il dispositivo di segnalazione,” rispose Quinn per lei. “Ed è un cazzo di dispositivo rotto.”
 
“Ah,” replicò Kurt a occhi sgranati, pentendosi all'istante per aver fatto domande.
 
“Andiamo,” disse Quinn, chiudendo la porta dell’ufficio di Sue e schizzand via nell’atrio.
 
Rachel, Sue e Kurt si accalcarono fuori dall’ufficio, proprio dietro di lei. E poi cominciarono a correre tutti per l’atrio e verso l’uscita assurdamente lontana, come inseguiti dai mastini infernali.
 
E forse lo erano; non avevano neanche svoltato al primo angolo quando cominciarono a udire i lamenti affamati, bestiali e i passi sordi, solidi dei nonmorti che echeggiavano nell’oscurità.
 
 22 giugno, 2012
Centro nordorientale di Lima, nei pressi della Base Madre
Ore 11.24

 
Finn non poteva fare a meno di lanciare occhiate sporadiche allo specchio retrovisore mentre guidava furiosamente per le strade di Lima perlopiù deserte, diretto alla Base Madre. Non era c'era verso che la fottuta, terribile orda di zombi li stesse pedinando.
 
Nessuna possibilità.
 
Eppure…
 
Si sentiva turbato. Si sentiva così turbato che la testa gli girava.
 
Come attraversarono lo stretto lago artificiale, una specie di imbuto sfortunatamente in grado di gettarli dritti in pasto ai nonmorti, Puck prese parola.
 
“EHI BELLO!” esclamò, rivolgendosi a Finn con un ghigno, “PENSO CHE MI STIA TORNANDO L’UDITO!”
 
Finn sobbalzò e sollevò una mano in direzione di Puck, scuotendo la testa con fare palese.
 
“No?” chiese Puck, abbassando le spalle e arcuando le sopracciglia, nervoso.
 
“No”, replicò Finn, scuotendo le testa in maniera più che teatrale.
 
Quella era solto un’altra faccenda per cui stare in pensiero. Il mondo era finito, gli zombi bramavano le loro carni, amici e famiglia erano deceduti, Quinn era in pericolo dentro le imprevedibili mura del McKinley, e Puck non ci sentiva, e da solo non se la sarebbe cavata.
 
Stava cominciando a sembrare una qualunque giornata a Lima, nell'Ohio.
 
22 giugno, 2012
Base Madre
Ore 11.25

 
La Jeep sbatacchiò lungo le ultime centinaia di iarde verso la Base Madre. Mentre si avvicinavano alla struttura semigrandiosa di casa Jones, Finn rallentò notevolmente. Più avanti sulla sinistra, c’erano Sam e Mike. Finn cacciò fuori la testa dalla finestrino ed esclamò, “Ehi ragazzi, che fate?”
 
“Oh…beh, il solito” replicò Mike.
 
“Ci stiamo solo preparando all’invasione degli zombi,” aggiunse Sam con un piccolo ghigno. Come se capitasse tutti i giorni. Come se fosse normale.
 
Come se non fossero ancora tutti dei diciassettenni o diciottenni, o ancora dei bambini con il fottuto terrore del buio.
 
“E’ un C4 quello giù in strada?” domandò Finn. Puck si allungò nella sua direzione per vedere cosa stavano combinando quei due.
 
“Già,” rispose Sam. “Stiamo cercando di ottenere la massima efficienza. Forse possiamo cercare di distrarli, di disorientarli…” Tornò al lavoro con un’espressione determinata in viso.
 
“Artie ha fatto qualche calcolo. Probabilmente arriveranno nel bel mezzo della notte. O forse di mattina presto…” spiegò Mike. Si alzò in piedi e si spazzolò le ginocchia con il palmo della mano prima di indicare la Base Madre. “E dal momento che questo è praticamente il capolinea e gli zombi sono diretti proprio verso di noi, avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile per decimarli”.
 
Puck saltò dalla Jeep e atterrò a terra con un tonfo sordo. Si voltò e afferrò la doppietta prima di girare in tondo al veicolo e mettersi a sorvegliare Sam, intanto che il biondo faceva scorrere le dita tra alcuni fili metallici attorno agli esplosivi accesi.
 
Finn, d’altro canto, osservava la Base Madre con Mike. I loro occhi esaminavano la struttura fortemente critica del vicolo cieco in cui era situata l’abitazione. Non era un quartiere residenziale privato, sfortunatamente, però i Jones avevano vissuto dall’altro lato della proprietà, e lì c’era un muro, alto e compatto costruito lungo tutti i bordi del distretto. Che servisse a tenere lontano i vicini ficcanaso o a distinguere le classe sociali, qualunque fosse lo scopo, il muro era diventato la più ampia barriera delle Nuove Direzioni da quando avevano scoperto l’esistenza degli zombi. Potevano provare a fuggire, ma Rachel li aveva avvisati innumerevoli volte che in quel modo, si sarebbero solo fatti uccidere in massa.
 
“Bene,” disse Mike dando un colpetto di mano al bordo dell’auto, accanto al gomito di Finn, spezzando di fatto il morbido e deprimente silenzio che aveva avvolto i ragazzi come un mantello. “Dobbiamo sbrigarci entro la prossima manciata di ore.”
 
“Vi lascio al vostro lavoro,” disse Finn. Rabbrividì nel constatare quanto la sua voce suonasse mansueta. Ma aveva paura. Era soltanto un ragazzino. Come tutti loro.
 
Mike trotterellò per venti iarde o più fino al cancello, e attivò gli assi semoventi per consentire a Finn di entrare con l’auto. La distanza tra il garage e il cancello che si richiudeva sembrò a Finn più lunga del solito.
 
Forse era solo la sua immaginazione…
 
 Ore 11.28
 
Con le punta delle dita strette sui bordi del piatto e una catasta di dischi premuta al petto, Finn salì le scale sino al secondo piano. Al suo passaggio annuì in direzione di Tina. Lei gli sorrise piano prima di riprendere ad affastellare munizioni. Anche dall’ingresso, Finn sentiva Santana e Brittany darci dentro. Quando bussò alla terza porta a sinistra, era pressoché certo di aver udito un brevissimo e decisamente esausto sospiro sfuggire dalla gola di una delle due amanti.
 
Non aspettò conferme prima di sistemarsi il registratore in braccio e aprire la porta. Lì non avrebbe trovato risposte. Non ce n’erano da molto tempo.
L’odore fu la prima cosa che colpì le sue narici. All’inizio, avevano fatto a turni per cercare di convincere il signor Schue a prendersi cura di sé. Tuttora, Finn e Rachel erano gli unici a sforzarsi. L’uomo aveva finalmente iniziato a usare il bagno di spontanea volontà, ma non si faceva una doccia da…beh, molto tempo.
 
Qualche volta, i due custodi del signor Schue si trovavano in questa stanza nello stesso momento. E allora attaccavano Faithfully a cappella. Con tutti gli altri avevano rinunciato, ma erano riusciti a persuadere se stessi che, anche solo per un brevissimo istante, gli occhi del signor Schue apparivano meno opachi, che le sue labbra si contraevano leggermente all’insù, che i suoi piedi seguivano impercettibilmente il ritmo del metronomo presente soltanto nelle loro teste.
 
“Ehi, signor Schue” disse Finn. Raggiunse la parete dove il suo ex professore se ne stava appoggiato, e chinandosi al livello dell’uomo comatoso al suo fianco, collegò il registratore alla presa situata tra di loro. “Guardi cosa abbiamo trovato oggi io e Puck.” Gli occhi di Will non si staccarono dalla parete opposta. “Probabilmente non crederà mai alla collezione che Sue conservava a casa sua, ma è piuttosto incredibile.” Spolverò la custodia di un disco, portandoselo di fronte e sogghignando così forte che i suoi occhi quasi scricchiolarono. “Penso che le piacerà, signor Schue.”
 
Finn sistemò il disco sul piatto, abbassò la lancetta e lasciò che la musica li investisse entrambi.
 
In corridoio, Tina stava appoggiata al davanzale, intenta a guardare il mondo fuori e cercando di stroncare sul nascere le lacrime. Lungo il corridoio, nella loro camera da letto, Santana e Brittany giacevano distese, nude e intrappolate nelle coperte, con le lacrime che rigavano i loro visi e le labbra che si toccavano senza fretta. Di sotto, Artie stava fissando la mappa di Lima, riflettendo sul fato e la morte e la vita e un mucchio di altre cose che non servivano a un bel niente. All’esterno, Sam e Mike continuavano ad allestire esplosivi mentre Puck era di guardia. E nei pressi della città, Quinn, Rachel, Kurt e Sue stavano combattendo per le loro vite.
 
Ma in quella stanza, in quel momento, c’erano soltanto Finn e l’insegnante che lui, da molto tempo, considerava una figura paterna. I due se ne stavano appoggiati appena appena alla parete, ascoltando la canzone che per anni aveva definito la loro esistenza come glee club.
Davvero, arrivati questo punto, volevano soltanto andare da qualunque parte.
 
Living just to find emotion. Hiding, somewhere in the night..
 
22 giugno, 2012
Liceo William McKinley
Ore 11.32

 
I loro respiri erano stremati. Non per lo sforzo fisico dovuto alla fuga per i corridoi della scuola, lontano dalle creature, ma per la paura.
 
Svoltando a ogni angolo, erano incappati come minimo in uno zombi, il che rallentava notevolmente la loro fuga dal McKinley, e Quinn era a dir poco seccata. Quasi ringhiò slittando all’angolo successivo, piazzando subito una pallottola nel cranio del nonmorto (non c’era davvero più tempo per giocare), spostando bruscamente dalla strada il suo corpo malfermo.
 
“Così poco igienico,” commentò Rachel mentre Quinn si strofinava sopra gli short la mano che aveva toccato lo zombi.
 
Quinn non si prese nemmeno il disturbo di alzare gli occhi al cielo. Era troppo occupata a concentrarsi sul prossimo angolo, sul prossimo zombi, sul prossimo omicidio.
 
Era talmente occupata a concentrarsi che a malapena sollevò lo sguardo in direzione della scala che immetteva nell’atrio dall’ufficio del preside Figgins che avevano appena oltrepassato.
 
E forse è per questo che avvenne. Forse, se avesse rallentato per un secondo o due. Forse, se avesse ascoltato più intensamente o avesse guardato più da vicino o avesse prestato una semplice frazione di attenzione in più…
 
Ma non lo fece. Mentre centrava la fronte di uno dei furiosi nonmorti a pochi metri di distanza dal resto del gruppo, uno zombi agile e pieno di energie emerse proprio da quelle scale.
 
Stava saltando giù nell’atrio quando Rachel e Sue sbandarono in avanti verso Quinn, poco distante.
 
E bloccando famelico la spalla di Kurt, lo sbatté rozzamente contro la parete più vicina. Affondò i denti nella sua carne, soffiandogli in faccia un odore rancido e putrido, gemendo e ringhiando affamato, mentre lottava per tenerlo fermo.
 
L’urlo di Kurt echeggiò nell’atrio e nelle orecchie di Quinn fino ad attraversarle il petto ansante quando si voltò verso di lui.
 
D'istinto, Kurt troncò un urlo lacerante prima che andasse troppo oltre.
 
Quinn non poté sparare un proiettile nel cervello dello zombi perché Rachel si trovava già lì, facendo oscillare la mazza in un arco fatale che lasciò del liquido marrone e pezzi di cervello sul maglione di Kurt e sulle sue stesse guance. Però adesso lo zombi era morto stecchito. Crollò sul pavimento, allentando la presa sul tendine di Kurt, pelle e muscoli.
 
Per un momento, erano tutti agghiacciati.
 
Kurt non riusciva a distogliere lo sguardo dalla stoffa sminuzzata del suo maglione, e dai fiotti del suo stesso sangue. Rachel non poteva distogliere lo sguardo dal viso di Kurt mentre si mordeva il labbro, nel tentativo di trattenere i fiumi di lacrime imminenti. Sue non riusciva a distogliere lo sguardo dalle luce lampeggiante nell’angolo. E Quinn sembrava incapace di guardare qualsiasi cosa.
 
“Kurt, io…” la voce si Rachel si affievolì. La sua voce, per una volta, si spense del tutto.
 
“Non farlo,” la interruppe lui di colpo. Sbatté più volte le palpebre, assente, prima di focalizzare lo sguardo sull’unica vera amica che avesse al mondo. “Va bene,” disse, allungando una mano per pulirle il viso dalla roba appiccicosa. Ma non andava tanto bene. Era tutto sbagliato, e incasinato, e per niente simile a ciò che sarebbe dovuto essere il loro ultimo anno. “Andiamo,” la voce di Kurt risuonò per il corridoio vuoto, sovrapponendosi ai lamenti lontani e ai passi pesanti dei cadaveri smaniosi di assaggiare ancora qualche pezzetto delle loro carni.
Quinn, la loro incontrastabile leader, non esitò a girarsi intorno nuovamente e avviarsi in direzione dell’uscita. Ma il turbine dei suoi pensieri non era altro che una sequela di varianti della situazione.
 
 E se si fosse voltata a controllare due volte le scale?
 
E se ci avessero impiegato cinque secondi in meno?
 
E se gli zombi fossero piombati nel corridoio attaccandosi a Rachel invece?
 
Quinn avvertì un gorgoglio nello stomaco, mentre la sua scarna colazione minacciava di risalirle in gola. Kurt era diventato un caro amico nel corso degli ultimi tre anni, a dispetto di tutte le stramberie, ma Rachel era diventata molto più di questo. E Quinn si rifiutava di pensare all’eventualità che finisse morsa, infettata, coma una di loro.
 
Dopo che ebbero girato un altro angolo, l’entrata del McKinley spiccò malignamente di fronte alle loro facce esauste. Era lì, proprio lì. Sembrava quasi fuori portata. Così vicina, eppure così fottutamente lontana.
 
A metà del corridoio, diversi zombi superarono l’angolo. “Ehi!” esclamò Kurt, guadagnandosi rapidamente l’attenzione del resto del gruppo. Si sbarazzò velocemente di due di loro grazie ai suoi fedeli sai, a dispetto della sua spalla ferita e già gocciolante. 
Rachel decapitò una testa marcia da un paio di spalle con un solo colpo rotante mentre Sue stava indietro, a proteggere il dispositivo di segnalazione. Con abilità, Quinn colpì gli ultimi quattro in mezzo agli occhi.
 
Ma il fatto che avessero già riammazzato sette tra i nonmorti che popolavano la scuola, non annullava l’incessante e rimbombante pericolo dell’orda nel suo insieme.
 
Che stava diventando più rumorosa. Che si stava facendo più vicina. A ogni passo che il gruppo dei quattro muoveva in direzione dell’uscita, sembrava che i rumori e il terrore e il numero di zombi aumentasse in maniera esponenziale.
 
Il quadrato di luce al termine del corridoio, simbolo della loro libertà, sembrava assurdamente piccolo e distante.
 
“Correte,” disse Quinn nell’istante in cui l’ultimo zombi si accasciò al suolo a pochi metri dalla destra di Kurt. “Correte, cazzo!” sibilò a denti stretti.
 
E loro obbedirono, perché gli echi non erano più echi. Erano battiti tangibili e assordanti contro il pavimento in linoleum che ciascuno di loro aveva attraversato per anni. L’orda era alle loro spalle, e non c’era tempo per respirare, figuriamoci prendersi un attimo di pausa in questo corridoio della morte.
 
Finalmente, si aprirono un varco nella doppiaporta già sfasciata e si tuffarono nella vivace luce solare.
 
Fu surreale, starsene lì alla luce e voltarsi indietro verso l’ingresso della scuola…Vedere quel blocco nero incastrarsi tristemente nella lontananza anziché correre incontro al quell’abbagliante faro bianco di speranza…
 
E per un altro momento, restarono semplicemente lì. Rimasero a fissare in quell’abisso nero come se contenesse le soluzioni a tutti i loro problemi, piuttosto che i loro problemi in sé e per sé.
 
Ma nel giro di istanti, dei nonmorti iniziarono a spuntare dietro l’angolo. Presero a marciare in file disordinate, con le membra maciullate e puzzolenti, lungo il corridoio, verso il gruppo dei quattro. E, non si sa come, aumentarono d’improvviso il passo, come fossero un corpo solo.
 
Dovevano aver fiutato la ferita di Kurt.
 
Quinn fece schioccare la testa, cercando di calcolare quanto potesse essere distante la jeep di Rachel e Kurt. Ma poi si voltò di nuovo in direzione della scuola, realizzando, con un’altra sensazione scemante, che davvero non importava.
 
Non importava perchè non ce l’avrebbero mai fatta a uscire da questo parcheggio.
 
E non ce l’avrebbero mai fatta a uscire da questo parcheggio perchè anche se l’entrata principale del McKinley era un corridoio assurdamente lungo, non era lungo neppure a sufficienza. Gli zombi si stavano muovendo febbrilmente verso di loro, a passi frenetici e assolutamente inarrestabili.
 
In un momento di debolezza (oppure, in un momento di forza) Quinn cercò la mano di Rachel. La mora le stava accanto, e i suoi occhi erano puntati sulla sagoma barcollante di Kurt. Le loro dita erano intrecciate come se persino la loro ultima speranza si fosse dissolta nel nulla più totale.
 
“Possiamo superarli,” disse Quinn. E la sua voce era ferma, e non tradiva affatto il senso di desolazione che attanagliava il suo cuore.
 
“No, non possiamo,” digrignò Kurt. Poi i suoi occhi balzarono su Quinn e Rachel, osservando solo per un attimo le mani congiunte delle ragazze prima di voltarsi a sinistra.
Verso la vita di Quinn.
 
Una lampadina le si accese in testa, e Quinn seppe quasi subito cosa stava per fare Kurt.
 
Avrebbe potuto reagire. Avrebbe potuto fermarlo. Avrebbe potuto indietreggiare, voltarsi di lato e bloccare la sua mano.
 
Tuttavia non lo fermò quando lui allungò il braccio e le strappò con forza la granata dalla cintura che portava in vita, depositando la linguetta davanti ai suoi piedi.
 
“Kurt, no!” urlò Rachel, ogni tentativo di discrezione gettato completamente al vento, dritto in faccia alla loro imminente dipartita.
 
Con la mano afferrò il polso del ragazzo che stringeva l’arma ancora carica. Le sue nocche si fecero bianche per la tensione mentre ghermiva il percussore contro il freddo metallo dell’esplosivo. Si voltò indietro velocemente, prendendo la guancia di Rachel nel palmo della sua mano eccessivamente calda. “Non me ne andrò come Mercedes”, disse. “E voi ragazzi avete bisogno di qualunque vantaggio per fuggire via di qui, ora. Addio, Rachel.”
 
E poi Kurt la spinse via e tornò galoppando all’inferno.
 
Stava sfrecciando verso il liceo McKinley e Quinn stava strattonando via Rachel sussurrandole “Corri, cazzo, corri, per piacere,” e Sue le seguiva con le dita avvolte intorno ai nastri del suo zaino di fortuna, senza proferire parola, perchè Porcellana le era sempre piaciuto, abbastanza.
 
Quando raggiunsero l’altro lato del parcheggio, l’esplosione scagliò i loro corpi in avanti. D’istinto alzarono le braccia per coprirsi la testa, voltandosi indietro a fissare la distruzione alle loro spalle.
 
Solo per un attimo in più. Un singolo istante prima di doversi girare e continuare a correre per la propria vita. Perchè questa era una cazzo di apocalisse degli zombi, e non c’era tempo per dei fottuti pianti.
 
 
[1]  La “tortina spugnosa dal cuore cremoso” più famosa d’America. N.d.T

 
  
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