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Autore: Yoan Seiyryu    11/10/2013    4 recensioni
Alice / Hatter
"E' tardi, non si può tornare indietro, il tempo non si raggira e la morte non retrocede. Le aveva detto che sarebbe tornato a prenderla e che non l'avrebbe lasciata chiusa in quella torre. Lui era la sua sola speranza di salvezza"
Wonderland non esiste più a causa di un sortilegio che è stato scagliato su di esso e tutti gli abitanti sono morti, tranne coloro che sono riusciti a salvarsi. Jefferson è attanagliato dal senso di colpa perché non è tornato indietro a salvare Alice. Scoprirà che si trova in un mondo diverso, un mondo creato dai ricordi stessi di Alice per sfuggire alla dura realtà che aveva dovuto affrontare al momento della Tragedia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jefferson/Cappellaio Matto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Where is Alice?







E’ colpa tua. Tua. Soltanto tua se Alice è morta.
I sensi di colpa erano così forti, così estremi, sentiva il petto bruciare ogni notte e ogni giorno da quando accadde la tragedia. A volte si svegliava di soprassalto a causa degli incubi che lo trascinavano in un abisso senza fondo, non poteva sfiorare la terra verso cui precipitava e il vortice di oscurità in cui era risucchiato gli impediva di respirare.
E’ tardi, è tardi. Non si può tornare indietro, il tempo non si raggira e la morte non retrocede.
Quella casa era così vuota senza di lei e sentire la sua mancanza lo mandava ai matti. I suoi occhi sognanti, i lunghi capelli biondi come l’oro, la sua carnagione chiara e le sue espressioni serie e divertite non lo lasciavano in pace, tornavano nella sua testa come un monito.
Avrebbe dovuto proteggerla, lui era il suo Cavaliere, ma la profezia era errata. L’aveva abbandonata.
Jefferson camminava in giardino con passi lenti e misurati, si guardava attorno poco compiaciuto di vivere ancora in un luogo che gli ricordava tremendamente lei . Alice che corre, Alice che dipinge le rose bianche, Alice che lo chiama per il tè, Alice che gli lascia l’ultima fetta di torta.
Priva di vita, non respirava, il suo viso era pallido come quello di un fantasma. Non aveva più un cuore, le era stato strappato.
Si fermò all’improvviso quando la musica di un carillon risuonò alle sue orecchie, destandolo dal senso di colpa che si portava dietro da tanto, troppo tempo. Fece schioccare la lingua sul palato e si voltò indietro per incontrare l’oggetto da cui proveniva quel suono così dolce.
Le aveva detto che sarebbe tornato a prenderla e che non l’avrebbe lasciata chiusa in quella torre. Lui era la sua sola speranza di salvezza.
Chinandosi sull’erba umida e fresca, lì dove crescevano tante margherite bianche, vi era un orologio da taschino semi-aperto che produceva esso stesso la musica che Jefferson conosceva molto bene. Era un oggetto che aveva commissionato tempo fa per Alice, come regalo di non compleanno.
Non tornando indietro il destino di Alice fu segnato e morì sotto gli occhi di qualcuno che al contrario avrebbe dato volentieri la vita per lei.
Quando Jefferson afferrò l’orologio e lo aprì di scatto, tutto sotto i suoi piedi mutò e la solida terra si trasformò in una buca che proseguì in un pozzo senza fondo, trascinandolo in un limbo da cui forse non sarebbe più uscito.




**



La testa gli doleva infinitamente, avvertiva ogni muscolo del corpo contrarsi fino agli spasmi che lo abbandonarono solo nel momento in cui riaprì le palpebre, ritrovandosi in una stanza bianca dove vi era  uno specchio come unico oggetto di arredamento. Era caduto così in basso e per così tanto tempo che quell’impatto avrebbe potuto ucciderlo, di certo aveva attraversato un portale e l’orologio l’aveva condotto proprio fin lì. Quando si rialzò in piedi a fatica, facendo leva sul bastone animato, si guardò intorno con fare circospetto ma ciò che più lo attrasse fu proprio lo specchio che rifletteva la sua immagine. Nel momento in cui si avvicinò per potersi guardare si avvide che al suo interno non vi era il Jefferson del momento, ma quello del suo passato. Celò una smorfia e contrasse il pugno di una mano che soltanto in seguito sciolse per poterla inserire all’interno della superficie riflettente, lasciandogli modo di entrare in un mondo che non aveva mai visto prima. Fu il Jefferson dello specchio a tirarlo dentro.
Il luogo in cui arrivò fu un’altra stanza arredata con oggetti geometrici che vagavano nell’aria come se non soffrissero di gravità, volteggiando sulla testa di Jefferson che era costretto a scostarsi per non essere colpito.
- Felice di rivedermi?
Quella voce. Jefferson sussultò e un brivido gli percorse la schiena, costringendolo a voltarsi per incontrare gli occhi rossi e penetranti del gatto del Cheshire. O almeno colui che una volta era stato un gatto ma che si era trasformato in un mostruoso scherzo della natura.
- Non è ancora l’ora del tè, sei in anticipo – rispose Jefferson che si inumidiva le labbra per non creare smorfie di disappunto.
Lo osservò attentamente, era vestito di nero e al posto delle unghie vi erano artigli affilati che scivolavano al di sotto delle dita. Sembrava più un quadro funebre e probabilmente non aveva mai tolto il lutto da quando Alice era andata perduta. I capelli scombinati gli coprivano parte di uno sguardo che aveva sempre lasciato Jefferson senza fiato, quegli occhi rossi non dovevano affatto portare bene.
- Io non sono più il tuo servo, forse lo hai dimenticato – sogghignò Cheshire che andò a leccarsi una mano fino a percorrerne le dita, per poi rimanere immobile ad osservare il Cappellaio.
Jefferson questa volta non riuscì a trattenere il disgusto che comparve sul suo viso.
- Se non fosse stato per Lei ora non saresti che un comunissimo gatto – gli rinfacciò.
Cheshire spalancò gli occhi più che poté e digrignò i denti con una certa rabbia.
- Non parlare di lei, tu non lo meriti! Solo io ho il diritto di farlo perché il mio unico scopo è preservare la felicità di Alice! – ringhiò con disprezzo, un disprezzo che gli si leggeva negli occhi e nel fondo dell’anima.
Jefferson corrugò la fronte ed arricciò il naso, per tanto tempo si era afflitto a causa di quei pensieri ma ora che si trovava lì doveva sapere.
- Tu eri con lei quando accadde la tragedia, perché non sei morto? – finalmente poté affrontare lo stupore che provò nel rivederlo.
Cheshire inarcò le sopracciglia e chinò la testa di lato.
- Io posso viaggiare tra i mondi proprio come te. Come hai fatto a trovare questo posto? – i suoi occhi rossi sembravano lampi in una tempesta pericolosa da attraversare.
- Non lo stavo cercando, io voglio solo conoscere la verità – sussurrò Jefferson che fece un passo avanti verso la sua direzione.
Cheshire ne fece uno indietro e si acquattò stringendosi nelle spalle come se tutta la foga del momento prima fosse terminata per fare spazio ad una personalità meno combattiva.
- Non meriti di saperlo, Lei non vuole che tu lo sappia. Crede che possa essere troppo doloroso – rispose Cheshire leccandosi le labbra e lasciandosi sfuggire delle fusa.
Jefferson a quelle parole aggrottò le sopracciglia e portò una mano al bastone animato, puntò gli occhi sul campanellino che il gatto portava al collo e rifletté attentamente sul da farsi.
-  Wonderland non esiste più, dunque dove mi trovo? E perché parli di Alice come se fosse ancora viva? – questo era ciò che più gli premeva.
Cheshire scoppiò a ridere all’improvviso, in maniera quasi inaspettata e lasciando intravedere i denti acuminati che scendevano come se volessero azzannare una preda.
- E’ un mondo creato dai suoi ricordi, voleva dimenticare ciò che accadde il giorno della tragedia ed io sono il guardiano della verità che non può essere svelata – tornò improvvisamente serio mentre il campanellino fu scosso ancora una volta.
Jefferson inarcò le sopracciglia e cercò di schiudere le labbra per dire qualcosa di sensato, ma sembrava del tutto impossibile. Quella rivelazione gli fece perdere la concentrazione e gli occhi si animarono di una luce nuova che arrivavano a toccare una speranza che credeva ormai perduta.
- Alice è qui e non è morta? – la voce spezzata del Cappellaio risuonò con tristezza nelle orecchie di Cheshire che infastidite scacciarono via quella nota di amarezza con un gesto violento delle mani.
- L’ho salvata appena in tempo – disse Cheshire stendendosi all’ombra dell’albero e portando a chiudere le ginocchia al petto – io sono il suo Cavaliere, io ho il diritto di vederla, io non le permetterò che accada nulla di male – sogghignò prima di appoggiare il mento sulle braccia.
Jefferson tremò e cadde a terra avvertendo l’erba inumidirsi sotto le sue ginocchia. Con afflizione osservò il gatto umano e avvertì le lacrime velargli gli occhi azzurri e profondi.
- Portami da lei, Cheshire – sussurrò in un filo di voce.
All’udire quelle parole Cheshire si alzò di scatto e corse verso la sua direzione afferrando il Cappellaio per il collo della camicia iniziando a strattonarlo con forza.
- No, tu non la vedrai mai più! Tu non puoi proteggere Alice, non ne sei in grado, io invece ho le qualità per farlo. Inoltre non sa chi tu sia, lei non ricorda nulla – scoppiò di nuovo a ridere.
Era una risata macabra che celava una grande sofferenza dentro di sé. Cheshire era stato il servo del Cappellaio sin dal loro primo incontro in Wonderland, stringendo un patto che si ruppe solo nel momento in cui Jefferson gli affidò Alice perché potesse sorvegliare su di lei fino al suo ritorno.
- Sei fuori di testa! – esclamò Jefferson con astio.
L’aveva abbandonata una volta, non avrebbe compiuto lo stesso errore di nuovo.
Quel che riuscì a comprendere fu abbastanza chiaro: Alice era sopravvissuta alla tragedia di Wonderland e Cheshire l’aveva salvata portandola via dalla Torre Rossa. Molti morirono in quel giorno, ma non tutti. Alcuni riuscirono a mettersi in salvo utilizzando portali magici per trasferirsi in mondi più sicuri dove non sarebbero stati sfiorati dalla tragedia.
Jefferson non poté far ritorno a Wonderland poiché scomparve completamente dalle carte dell’universo, dunque per quale motivo il Fante di Cuori gli aveva raccontato una bugia dopo l’altra? Perché gli aveva detto che Alice era morta?  
Forse per proteggerla, così come Cheshire stava facendo allo stesso modo.
- Non sono io ad averla persa – gli occhi rossi  del gatto divennero due fessure e si leccò le labbra passandovi la lingua insistentemente.
Jefferson si liberò dalla sua presa e tirò fuori la spada da quello che in apparenza era solo un bastone e glielo puntò contro.
- Restituiscimi ciò che non ti appartiene, immediatamente – sibilò puntandogli la lama al collo.
Cheshire finse di miagolare spaventato e sospinse l’incavo della gola sulla punta acuminata, lasciando che un rivolo di sangue andasse ad inumidire il soprabito nero.
- Perché dovrei farlo, Mad Hatter? Non sei arrivato fin qui per dimenticare?
Dimenticare. Perdere la propria memoria così come aveva fatto Alice. Non essere più se stesso, non soffrire , non avere  incubi ogni notte e liberarsi della tragedia di Wonderland una volta per tutte. Abbassò lentamente la spada fino a farle sfiorare l’erba.
- Tu puoi aiutarmi?
- Io posso salvarti, Mad Hatter, così come ho fatto con Alice. Le ho portato via ciò che più la faceva soffrire e posso fare lo stesso con te.
- Rimarrò incastrato in questo mondo? – domandò appena Jefferson che iniziava a desiderare davvero una vita dissimile da quella che stava vivendo.
- Quando ti risveglierai non saprai dell’esistenza di Earthland – gli confidò Cheshire che tornò ad avvicinarsi per girargli attorno fino ad appoggiare una mano sulla sua spalla.
- E non saprò più chi sia Alice? – gli occhi di Jefferson si illuminarono di altre lacrime.
- No e se mai dovessi incontrarla in questo limbo non ne soffrirai, ti darò la possibilità di vederla se desideri. – gli sussurrò nell’orecchio per poi sghignazzare.
Jefferson alzò gli occhi verso il cielo che formava nuvole cubiche sopra le loro teste, erano così basse che avrebbe potuto persino toccarle. Dimenticare Alice era allettante, non poteva cambiare il passato e non era in grado di riavvolgere il tempo per evitare la tragedia di Wonderland e salvare la donna di cui si era innamorato.
- La sofferenza che ho dentro mi rende ciò che sono [1] – sibilò Jefferson e in un solo movimento strappò il campanellino dal collo di Cheshire che iniziò a gridare rabbiosamente. Lo colpì con un pugno allo stomaco e poi si ritirò per correre lontano da quel luogo.



**



Il campanellino suonava tra le mani del Cappellaio che usciva in fretta da quella stanza senza soffitto e si ritrovò in un giardino che non all’apparenza non possedeva alcuna via d’uscita. Doveva cercare Alice, trovarla e condurla in quella che era la sua casa.
Cheshire aveva ragione, non l’aveva protetta e non era riuscito a salvarla come le aveva promesso. Si era creata un mondo tutto suo dove poter vivere senza che i ricordi gli bruciassero l’anima a causa della disperazione ed ora viveva chiusa nell’ignoranza e nell’apatia, ne era certo. Non poteva essere felice in un posto simile.
Jefferson fu costretto a fermarsi, l’irrazionalità di quel luogo gli faceva perdere ogni punto di riferimento ed avanzare senza una meta precisa non avrebbe che peggiorato la situazione. Decise di fermarsi all’ombra di una grande quercia ma non ebbe il tempo di sedersi che improvvisamente una miriade di ricordi si posizionarono davanti ai suoi occhi, scorrendo follemente come se il tempo avesse deciso di giocare con la sua testa.
Per prima cosa si ritrovò all’interno di un roseto in cui una bambina dai lunghi boccoli biondi dipingeva di rosso una rosa bianca. Non vi erano dubbi, quella bambina era Alice e chiamarla fu vano, poiché non poteva ascoltare la sua voce. Non era un ricordo sfuggito alla Volontà di quel mondo.
Quando Jefferson la raggiunse per poterle parlare la scena mutò e si ritrovò su un ponte di cristallo il cui fondo lasciava intravedere lo scorrere di un fiume in piena. Davanti a lui vi erano due figure in ombra che avvicinandosi si resero sempre più chiare, assumendo le forme di una Alice matura e un Jefferson che non esisteva più. Proprio su quel ponte le aveva donato il carillon che teneva all’interno della tasca del soprabito e si rese conto di trovarsi in uno dei ricordi di Alice poiché l’ombra di se stesso le stava porgendo l’orologio come un tempo era accaduto.
- Alice! – gridò con disperazione ma fu vano.
Il ponte si trasformò in un’alta torre rossa alla cui finestra si affacciava Alice che teneva tra le mani un piccolo gatto nero dagli occhi rossi, il suo più caro amico. Lo sguardo che aveva era triste ed affranto, in attesa perenne di un Cavaliere che non avrebbe mantenuto la promessa di tornare.
Le lacrime di Jefferson si sciolsero sul viso dopo averle trattenute così a lungo. Incontrare quell’immagine lo spinse a scontrarsi con il suo senso di colpa più grande. Poi una voce si insinuò nelle sue orecchi ed una mano delicata si appoggiava alla sua spalla, alla ricerca di attenzione.
- Voi conoscete il mio nome.
Quando Jefferson si voltò riuscì a guardare gli occhi senza’anima di Alice, quella che una volta era stata la sua Alice. Il suo petto era macchiato di sangue e l’abito blu era sporco di fango e terra.
- Non potrei mai dimenticarlo – sussurrò Jefferson, dunque lei era riuscita a trovarlo.
- Il vostro volto, signore, mi tormenta. Siete diverso da tutti gli altri frammenti di ricordo, come se foste reale. Posso? – domandò ma senza attendere una risposta Alice portò una mano a sfiorare la guancia di Jefferson, assaporando il calore che emanava quel contatto che non credeva di poter conoscere.
- Sì, non siete solo un’ombra. Allora forse potrete aiutarmi, vi andrebbe di farlo? – l’innocenza che faceva parte di lei non se n’era andata.
Jefferson soffrì quando avvertì le sue dita asciugare le lacrime del viso e provò il desiderio di stringerla a sé, inginocchiarsi e chiederle perdono per non averla protetta.
- Cosa desiderate che faccia?
- Io non ricordo nulla, mi sono svegliata in questo posto con soltanto un nome: Alice – la disperazione e la malinconia erano imperanti sul suo volto.
Jefferson appoggiò la guancia sul palmo della sua mano che andò a recuperare con la propria, era fredda e gelida, come quella di un fantasma.
- Posso aiutarvi a ricordare chi siete davvero – disse lui in un filo di voce.
Credere morta la persona di cui era innamorato e vederla comparire davanti ai suoi occhi era più di quanto il suo cuore potesse sopportare. Era già diventato matto una volta e ricadere nella medesima storia lo avrebbe condotto nell’oscurità.
- Cheshire dice che io stessa ho voluto dimenticare, ma non faccio altro che torturarmi per conoscerne il motivo. Lui desidera aiutarmi e soffre nel vedermi così triste – disse Alice mordendosi il labbro inferiore e sciogliendo il tocco dalla guancia di lui.
- Salvatemi, vi prego.
Jefferson crollò in un solo istante. Se Alice voleva dimenticare come poteva restituirle tutte il dolore da cui era fuggita? Sarebbe stato un mostro se solo avesse deciso di renderle tutti i ricordi. Eppure quella nuova Alice, pietrificata nell’ignoranza, era sofferente allo stesso modo.
Quando il Cappellaio cercò di nuovo un contatto con lei, allungando la mano verso la sua, Alice svanì all’improvviso lasciandolo solo ancora una volta. Non ebbe il tempo di disperarsi perché la terra sotto ai suoi piedi sprofondò e cadde ancora una volta in un pozzo senza fondo.
Questa volta il viaggio fu più breve e si ritrovò in una stanza il cui pavimento era composto di pozzanghere d’acqua mentre intorno vi erano alte e lunghe pareti bianche. Gettata in un angolo vi era Alice sorretta da catene che le avvolgevano il petto e la vita. Teneva gli occhi chiusi e forse dormiva ma il suo viso era contratto, probabilmente gli incubi non erano mai passati, nemmeno con la perdita della memoria.
Jefferson non poteva abbandonarla ancora una volta, non avrebbe compiuto lo stesso errore e si inginocchiò ai suoi piedi per poterla guardare in viso.
Lei era la Volontà che reggeva quel mondo e una volta liberata tutto sarebbe crollato su di loro avvolgendoli nel nulla. Tirò fuori l’orologio da taschino ma senza aprirlo, con quello l’avrebbe condotta via.
In quel momento udì lo stridere delle unghie di Cheshire dietro di sé, il suo passo felino l’avrebbe riconosciuto anche tra i rumori assordanti di una tempesta.
- Non farle questo.
Piangeva, Cheshire stava piangendo. Da quando i gatti sorridono e piangono?
- Lei soffrirà e non troverà pace. Se la ami non portarla via da questo mondo. Io ho bisogno di lei, è la mia unica e più cara amica – sussurrò rimanendo alle sue spalle.
Jefferson si rialzò lentamente e si voltò per poter guardare ancora quegli occhi rossi penetranti.
- I bambini soffrono perché non sanno. Gli adulti soffrono perché sanno. E’ il momento che Alice cresca per affrontare i suoi demoni interiori – disse con risolutezza il Cappellaio.
- Io non te lo permetterò! Le sono rimasto accanto per vederla felice e solo qui può esserlo davvero! – gridò Cheshire fino a perforare le orecchie di Jefferson che andò subito a coprirle.
- Questo non è che un sogno! – rispose allo stesso modo il Cappellaio – Alice si è rifugiata qui ma non è altro che una prigione, ha il diritto di ricordare chi è davvero e non lascerò che tu ti metta sulla nostra strada – nel momento in cui si avvide che Cheshire balzò su di lui per potergli conficcare gli artigli nel petto, Jefferson aprì con uno scatto l’orologio e la musica del carillon lo avvolse per trascinare via sia lui che Alice.



**



Svegliati, svegliati Alice.
Si ritrovarono distesi nel giardino di Casa Kingsley, all’ombra di una quercia, quella in cui spesso si erano rifugiati dopo l’ora del tè.
Alice non riuscì ad aprire le palpebre poiché i raggi del sole le ferirono gli occhi, ma un’ombra si intromise a rassicurarla, così che potesse svegliarsi davvero.
Jefferson era seduto accanto a lei e la musica del carillon non smetteva di ripetersi, come se non potesse mai avere fine.
Alice portò una mano al petto alla ricerca di quel cuore che credeva di non possedere più, ma riuscì a sentire un battito che le fece avere un sussulto.
Era viva e respirava, poteva assaporare la sensazione dell’erba sotto le sue mani e incontrare quegli occhi aveva tanto sperato di rivedere.
- Alla fine mi hai trovata – sussurrò con voce flebile sollevando lentamente la schiena.
- Sono arrivato troppo tardi – aggiunse Jefferson inumidendosi le labbra.
- No, non è ancora l’ora del tè – sorrise candidamente Alice avvedendosi di come il campanellino fosse distrutto.
Jefferson alla fine le aveva restituito la memoria e ricordava ogni particolare della sua storia, anche il sangue, tutto quel sangue che avrebbe desiderato dimenticare.
- Sono stata debole, Jefferson. Non potevo vivere sapendo che non ti avrei più rivisto – si inginocchiò per poterlo guardare negli occhi.
- Non volevo abbandonarti Alice, tu sai che…
- Silenzio – lo interruppe lei portando l’indice della mano sulle sue labbra – abbiamo tutto il tempo per questo. Dimenticare è stato l’errore più grave che potessi fare ma ora ti prometto che non fuggirò mai più in un sogno – così facendo si sospinse verso di lui per trovare quel bacio a cui tanto aspirava.
Perse l’equilibrio e finì per cadere tra le sue braccia, tanto che si ritrovarono distesi a terra, con il peso di lei a comprimere il respiro di Jefferson pronto ad accoglierla per non abbandonarla mai più.
Il suono del carillon accompagnò quel breve momento di estasi dopo tanto dolore e sofferenza, dopo il sangue e la morte.
Alice è viva.





// Note: 

[1] Frase pronunciata da Grumpy a Snow White. 





// Nda: 

Credo sia il momento delle vere note esplicative. 
Questa one-shot in realtà è una sorta di epilogo (appena un accenno) di una storia che ho in testa da molto ma che non credo metterò mai su carta. Però ho voluto lasciarne una traccia con degli argomenti appena accennati. 
Come avete potuto vedere Wonderland non esiste più, un sortilegio l'ha spazzato via insieme a tutti coloro che vi abitavano. Alice avrebbe dovuto salvarli ma non ha compiuto la propria missione poichè è stata rinchiusa nella Torre Rossa con l'unica compagnia di Cheshire. Jefferson sarebbe dovuto tornare a salvarla ma per qualche motivo non è riuscito a tornare indietro, quindi in realtà non l'ha abbandonata davvero per propria volontà. 
Mi rendo conto che possa sembrare una one-shot confusionaria ma in fondo, Alice e Wonderland sono irrazionali abbastanza da poter creare spazi così strani dove poterli inserire. 
Detto questo, finisco qui. 
Grazie a tutti coloro che leggeranno! 
   
 
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