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Autore: lilac    07/04/2008    4 recensioni
Che cosa faresti se perdessi tutto, all'improvviso, senza sapere nemmeno il perché? Magari è in gioco la tua stessa vita. L'unica cosa che ti è rimasta è il tuo istinto. E l'istinto ti dice solo di fuggire, più in fretta che puoi! Sei sicuro di volerti fidare?
Genere: Sovrannaturale, Suspence, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Credits: - La frase del titolo, pur essendo un’espressione ormai diffusa e di uso comune (dal significato credo piuttosto noto), è tratta da un classico dell’animazione Disney, “I tre porcellini”. Più precisamente da uno dei temi musicali più famosi, che in originale ha il titolo, appunto, “Who’s afraid of the Big bad Wolf?” (che in italiano suona come “Siam tre piccoli porcellin...” ecc ^_^).
- La frase che ho scelto come sottotitolo (e ispirazione) per questa one shot è invece di J.W. Goethe.



CHI HA PAURA DEL LUPO CATTIVO?


Conoscere se stessi? Se conoscessi me stesso, fuggirei lontano.





Un attimo soltanto. Il tempo parve fermarsi. Fissò con un’espressione quasi assente l’esalazione di vapore che si diradava lentamente in controluce. Un respiro più profondo. L’aria fredda gli saturò i polmoni; ossigeno, forza d’animo e qualcosa che somigliava stranamente a determinazione. Lo sguardo seguì indeciso una traiettoria immaginaria, per poi tornare un momento dopo a vagare inquieto tra le ombre. Un debole rumore alle sue spalle lo indusse a scuotersi all’improvviso.
Si voltò appena, istintivamente; il volto segnato da una stanchezza immateriale, da una paura sconosciuta. Volse di nuovo lo sguardo verso il basso, di fronte a sé; ogni fibra del suo essere in tensione, inspiegabilmente sedotto da quell’unico, terribile rumore appena percettibile. Da qualche parte, dietro di lui. Sempre più vicino.
Aveva esitato solo una frazione di secondo, su quel cornicione. Non ebbe nemmeno il tempo di pentirsi di aver impulsivamente preso quella strada; lui, che aveva da sempre avuto una paura terribile dell’altezza. Socchiuse gli occhi, inspirando a pieni polmoni.
Ormai ne era certo. Sapeva di trovarsi in una di quelle situazioni cruciali in cui la realtà all’improvviso ti si infrange contro talmente violentemente da lasciarti senza fiato, quasi incredulo. Sapeva che ciò di cui aveva davvero paura si stava velocemente e inesorabilmente avvicinando a lui, lo aveva quasi raggiunto.
Esitò per un attimo soltanto, prima di saltare.

Il tonfo sordo che riecheggiò sul pavimento del terrazzo, qualche metro più in basso, sembrò risuonare come un colpo di cannone nel silenzio gelido di quella notte. Si scoprì a vacillare più per quel rumore inaspettato che per il contraccolpo violento alle giunture. Gli ci volle poco più che un istante per riaversi; la piacevole sorpresa di essere ancora tutto intero durò quel tanto che gli occorse per rimettersi in piedi. Raggiunse zoppicando la balaustra, più in fretta che poté, scostandosi istintivamente una ciocca di capelli dagli occhi e pregando per la prima volta in vita sua con assoluta dedizione che quel palazzo fosse provvisto di grondaie. Riuscì a stento a trattenere un grido di esultanza quando notò che le sue preghiere erano state ascoltate. Per la prima volta da molti giorni, quell’inaspettata fortuna lo indusse a sperare. Per un momento si trovò persino a sorridere sarcasticamente della sua improvvisa devozione all’architettura tedesca. Ma non era decisamente il momento per pensare a queste stronzate.
Esalò un ultimo, lungo sospiro affannato, prima di scavalcare la ringhiera; un’ulteriore esitazione per trovare una posizione salda e un appoggio sicuro, prima di iniziare a scendere. Un grazie mormorato appena, consumato nell’ennesima, ansiosa nuvola di vapore; aveva sollevato debolmente gli occhi al cielo, eppure pareva rivolto a se stesso. Solo allora la sua attenzione fu inevitabilmente attratta dalla sommità del tetto da cui si era lanciato, mentre iniziava la discesa cercando di fare appello a tutta la concentrazione e la calma di cui ancora riusciva sorprendentemente a disporre. La sagoma del suo inseguitore si stagliava imponente sul cornicione. In attesa, nell’ombra.
Qualcosa nella postura in apparenza sicura e rilassata di quell’uomo gli apparve all’improvviso e concretamente in tutta la sua pericolosità; fu costretto a serrare la presa per non cadere in seguito ad un brusco sussulto. Una morsa gelida gli attanagliò con ferocia le membra. Di nuovo.
Iniziò a scendere velocemente, maledicendo la sensazione di panico che lo stava assalendo; con tutte le forze tentò di mantenere quel briciolo di concentrazione che gli occorreva per non perdere l’appiglio e non rovinare al suolo. Cercava disperatamente di ignorare quella terribile sensazione di sgomento che lo induceva, contro ogni vano tentativo di razionalizzare, ad accelerare la discesa. Un piede. Poi un altro. Un altro ancora. Uno dopo l’altro. Non era difficile. Ma la sua mente gli suggeriva solo fretta.
Un appiglio sbagliato. L’asfalto a qualche metro soltanto. Fretta.
Non esitò nemmeno un istante questa volta, prima di lasciarsi cadere.
La fitta lancinante al ginocchio destro lo colse quasi di sorpresa, barcollò vistosamente e cadde a faccia in avanti sull’asfalto. Una forza sconosciuta si mosse prima ancora di lui; si rialzò in un lampo, ignorando il dolore in un modo che non si curò di spiegarsi. Negli occhi ancora l’immagine indistinta di qualcosa che gli era parso un sorriso, o meglio, un sogghigno; un’espressione che mai avrebbe potuto credere tanto agghiacciante in un essere umano. Ricominciò a correre, più veloce di prima.

Correva. Senza sapere esattamente dove stesse andando, imboccò una strada laterale seguendo unicamente il ritmo del rumore dei suoi passi sull’asfalto, il battito accelerato e convulso del cuore che pareva scoppiargli in petto e il respiro mozzato dalla fatica e dal dolore. Le orecchie tese a percepire il minimo eco alle sue spalle. Non osava voltarsi. Senza sapere dove stesse andando, cambiò più volte direzione, sperando di seminare il suo inseguitore, addentrandosi in una fitta rete di strade secondarie poco illuminate. Così gli diceva l’istinto. Si fidò ancora una volta, come faceva ormai da settimane; l’unica cosa, l’istinto, che pareva essergli rimasta.
L’istinto gli aveva suggerito di fuggire dalla sua casa, dalla sua città; gli aveva suggerito di lasciarsi alle spalle tutto ciò che possedeva, la sua vita. L’istinto l’aveva portato lì, in quella città, gli aveva consigliato di nascondere la sua vera identità e confondersi con le decine di migliaia di persone che giungevano lì per affari o che altro. Era stato solo il suo istinto a metterlo in guardia negli ultimi giorni, quando aveva notato quello strano individuo che pareva essere dovunque. Alla lavanderia a gettoni, al bar, al supermercato. Sulle scale davanti alla sua porta, quella notte.
Quell’uomo era stato gentile, gli aveva chiesto solo di entrare per un momento. Diceva di essere un poliziotto e aveva una spiegazione plausibile per tutto. Per averlo seguito, per essere lì a quell’ora della notte. Per tutto. Non ricordava nemmeno una parola, non l’aveva ascoltato veramente. L’istinto gli aveva urlato prepotentemente solo di scappare il più in fretta possibile; nell’unica direzione possibile. E aveva avuto ragione. Quell’uomo non voleva altro che ucciderlo, niente di più chiaro ormai. E Dio solo sapeva il perché.
Solo allora, mentre correva sempre più incerto e claudicante, senza una meta precisa, cominciò realmente a pensare che era veramente stanco di fare affidamento solo sulle sue vaghe, assurde sensazioni. Erano passati solo pochi mesi da che la sua vita era come scomparsa nel nulla. Sembrava un tempo interminabile. La sua esistenza pareva essere sprofondata in un abisso di inquietudine; essa stessa in affanno, smarrita, esattamente come lui in quel momento, annientata dal buio di un’angoscia senza nome. Aveva perso completamente il controllo di tutto. Non aveva idea di come fosse potuto accadere e, soprattutto, non aveva la più pallida idea di come sarebbe potuto uscire da quella maledetta situazione. Non ne aveva idea.
Che cosa era accaduto? Perché non ricordava nulla?
Perché c’era qualcuno che gli dava la caccia, che voleva ucciderlo? Chi era quell’uomo?
Da chi... Da che cosa stava fuggendo?!

Il peso di quell’ultima domanda parve farsi tangibilmente opprimente. Rallentò notevolmente l’andatura fino a fermarsi. Si piegò stremato su se stesso, appoggiandosi sulle ginocchia e respirando affannosamente in cerca di ossigeno. Per un istante restò in ascolto, in apprensione. Gli sembrò di essere inghiottito dal silenzio.
La fitta al ginocchio lo colse nuovamente impreparato, inducendolo a ritrovare faticosamente una posizione eretta. Pareva ormai che il dolore si propagasse da lì per estendersi a tutto il resto del corpo. Ogni singolo muscolo sembrava evocargli una pena insopportabile, la stessa che gli ottenebrava ogni pensiero vagamente razionale. Tutta quella situazione era assurdamente irrazionale. E terribilmente spaventosa.
Ansimando per la fatica, deglutì forzatamente e si trascinò a fatica verso un edificio in ombra. Si appoggiò lasciandosi letteralmente cadere verso la parete. Il rumore sordo della sua spalla che urtava poco delicatamente il muro lo mise nuovamente in allarme. Strizzò con forza gli occhi, passò una mano fra i capelli scarmigliati e ormai madidi di sudore, scansando l’ennesima ciocca ribelle con un gesto lento e nervoso. Si guardò intorno inquieto cercando di mettere a fuoco, continuando a respirare avidamente e concentrandosi ancora una volta per percepire il minimo rumore.
Silenzio. Che fosse riuscito davvero a seminarlo?
In quell’istante, tutte le sue angosciose domande senza risposta parvero passare in secondo piano. La vaga idea di essere riuscito a sfuggire davvero ad un destino inspiegabilmente crudele sembrò l’unica cosa in grado di restituirgli qualche energia. I sensi ancora in allarme, si raddrizzò come poté, appoggiandosi più comodamente sulla parete. Aveva bisogno di riflettere.
Doveva capire in che punto della città fosse finito. Non aveva fatto molta strada. O forse sì… Si rese conto in quel momento di come negli ultimi minuti avesse completamente smesso di pensare a dove stesse andando e si diede mentalmente dell’idiota. Come aveva potuto non fare caso alla strada che aveva fatto?! Ci mancava solo che si fosse perso, dannazione!
Inspirò profondamente, costringendosi a mantenere la calma. Doveva assolutamente mantenersi lucido. Il fatto di averlo seminato non lo metteva di per sé al sicuro. Non poteva permettersi di abbassare la guardia proprio ora. Doveva pensare. E anche in fretta.
Aveva oltrepassato almeno quattro, cinque palazzi passando dai tetti. Poi era sceso da quella grondaia, aveva corso per diversi minuti, verso nord.
Perché il nord? Perché non era andato verso il fiume? Perché finiva sempre per andare involontariamente a nord, fanculo alle sue sensazioni del cazzo?!
Lo sguardo continuava a vagare irrequieto. Un punto di riferimento. Uno qualsiasi… Accidenti!
Quell’uomo era sicuramente ancora nei paraggi e probabilmente lo stava cercando.
Non riusciva a riflettere. Una qualche strana disposizione d’animo lo rendeva insofferente, quasi impaziente; i suoi stessi pensieri continuavano a muoversi vorticosamente in un turbine indistinto di sensazioni e di immagini confuse. E quell’espressione terrificante tornò involontariamente a farsi chiara nella sua mente. Serrò con forza gli occhi come a volerla materialmente cancellare, insieme alla sensazione di terrore che l’accompagnava.
“Pensa Andy! Pensa, maledizione!” Sussurrò deciso per darsi coraggio. Un altro respiro profondo.
Tornarsene al suo appartamento era assolutamente impensabile. Avrebbe dovuto trovare un posto sicuro dove passare la notte. E l’indomani avrebbe lasciato la città. Ancora una volta si sarebbe lasciato tutto alle spalle.
Si fermò nuovamente ad ascoltare. Silenzio assoluto.
Cominciò a convincersi. L’aveva davvero seminato. Per un breve momento questa consapevolezza ebbe uno strano effetto su di lui. Un’ineffabile sensazione di compiacimento e di soddisfazione prese per la prima volta il sopravvento sulla paura e l’angoscia e una luce singolare gli illuminò per un istante lo sguardo. Entrambe le mani strette a pugno con rabbia e determinazione, non riuscì a fare a meno di sogghignare trionfante.
“Te l’ho fatta, fottuto bastardo!”
Le sue parole suonarono come una specie di ringhio sommesso; il tono duro, quasi di sfida.
“Ne sei davvero sicuro?”
Una voce, dall’ombra dell’androne di un palazzo poco distante, si limitò a replicare in tono piatto, senza alcuna emozione.

Per la seconda volta quella notte, il panico lo assalì brutalmente annientando ogni altra emozione. Ancora una volta, un’insospettabile energia guidò istantaneamente la sua fuga, negandogli il lusso di scoprire almeno una parte di quella verità che stava cercando disperatamente. Ma non poteva permetterselo un lusso del genere. La tentazione era stata forte; a pochi metri dall’uomo, avrebbe voluto gridargli contro tutti i suoi interrogativi, la sua angoscia. Non era durata che un secondo, l’istinto aveva prevalso ancora una volta ed era scappato.
La pacata ostentazione di superiorità di quell’individuo lo aveva seguito implacabile, come un’entità corporea. Quell’emblematica, semplice frase continuava a risuonargli nelle orecchie attutendo ogni altro rumore e annullando ogni altro pensiero.
Ne sei davvero sicuro?
Correva. Non osava voltarsi.
L’eco dei suoi passi cominciò a risuonare sinistro e agghiacciante. Confuso, atterrito, non riusciva più a distinguerli da quelli del suo inseguitore. La terribile sensazione che fosse dietro di lui, che si avvicinasse sempre di più, la paura di sentirsi afferrare da un momento all’altro non riuscivano a lasciare spazio a nessun’altra cognizione.
Correva. Sempre più veloce.
Ben oltre la soglia della stanchezza, non sentiva più nulla, solo l’aria gelida che gli sferzava il volto accaldato. La gola che bruciava riarsa e ferita dal freddo, il petto che si infiammava di dolore ad ogni avido respiro, le gambe pesanti come macigni e le giunture doloranti da cui si propagavano fitte lancinanti ad ogni passo erano sensazioni distanti, come fossero quelle di un altro. Il suo corpo pareva avere volontà propria.
Era lì, lo sentiva. Il modo in cui lo braccava, con la sicurezza del cacciatore che segue la preda a distanza, aspettando il momento buono per sferrare l’attacco e azzannarla alla gola, non faceva che alimentare allo stesso tempo la sua paura e i suoi angosciosi interrogativi. Si sentiva sprofondare sempre di più in un baratro oscuro. Il silenzio cominciò a farsi opprimente, asfissiante. Le parole gli uscirono di bocca senza volerlo, distorte, esasperate. Disperate. Il suo grido sembrò risuonare in tutta la sua frustrazione come l’unico suono udibile nel giro di chilometri.
“Chi sei?! Che cazzo vuoi da meeee!?!”
Un cane abbaiò feroce da una cancellata alla sua destra. Lo spavento lo fece sobbalzare di colpo in preda al panico; quasi temette che il cuore gli schizzasse fuori dal petto. Perse l’equilibrio e ruzzolò a terra violentemente. Si rimise in piedi in un secondo, lo stesso lasso di tempo in cui una gamma di sensazioni lo assalirono impetuose. Paura, sollievo, ansia. Paura.
Rabbia.
Solo un momento. Qualcosa nella sua testa prese per un brevissimo istante il sopravvento su ogni altra sensazione. In un attimo soltanto, quella sferzata di adrenalina traboccò in un fiume di collera che lo investì violentemente, in ogni frammento del suo essere.
Un cane.
In gioco la sua vita. Una vita che non valeva più niente, che aveva perso ogni cosa degna di essere amata. Un mare di angoscia e inquietudine in cui si sentiva affogare. Nessuna via da percorrere tranne la fuga. Nessun posto dove rifugiarsi, nemmeno se stesso. Niente, a parte la morte. Niente. Nemmeno un fottuto motivo! In gioco la sua miserabile e patetica vita. E stava lottando per niente altro che questo, tutto ciò che sapeva.
Un maledetto, pulcioso cane di merda!
Per un momento tutta quella collera implose su se stessa. Nemmeno una valvola di sfogo possibile se non la frazione di secondo in cui quella rabbia si manifestò nei suoi occhi, fissi sull’animale che digrignava i denti minaccioso. Non aveva tempo nemmeno per questo, doveva solo fuggire di lì.
Solo un brevissimo momento. Non ebbe il tempo di notare nemmeno la reazione del cane, che cessò bruscamente di ringhiare, indietreggiando con la coda tra le gambe in segno di sottomissione. Riprese a correre ancora più veloce; non aveva più osato voltarsi.
L’eco di un guaito atterrito, innaturalmente sgomento e doloroso, ruppe nuovamente il silenzio in un modo inquietante. Chiunque lo avesse udito avrebbe provato un brivido di terrore.

Andreas Albrecht. Una preda.
Era questo che era diventato adesso? Carne da macello? Il giocattolo divertente di qualche sadico assassino? No. Cioè, sì. Ma quell’uomo non era un qualunque maniaco che l’aveva scelto a caso tra mille altre persone. Un’inspiegabile sensazione gli suggeriva che tutto quello che gli era capitato negli ultimi mesi aveva a che fare con la stessa verità che stava cercando. I suoi vuoti di memoria, la scomparsa dei suoi genitori, quell’istinto indescrivibile che l’aveva spinto a fuggire da Friburgo, verso nord, quegli strani sogni; tutto. Quell’uomo sembrava non fare eccezione. Sembravano tutti pezzi dello stesso maledetto rompicapo. Tutto sembrava ricomporsi ineluttabilmente in qualcosa che non aveva forma, eppure appariva reale in tutto il suo orrore; inesorabile. Un incubo. Ecco cosa stava vivendo. Tutto questo era un fottuto incubo! Solo che non si sarebbe mai svegliato.
Aveva perso la cognizione del tempo, dello spazio. Non riusciva a ricordare da quanto tempo stesse correndo, né quanta strada avesse fatto. Aveva la sensazione di aver corso per ore, migliaia di chilometri, eppure dovevano essere passati solo pochi minuti da che quell’uomo era apparso dietro di lui, sul suo pianerottolo e l’aveva apostrofato con quel sorriso falso e mellifluo.
Continuava a correre, ormai completamente privo di lucidità e raziocinio, attraversando strade e vicoli senza alcun criterio logico, addentrandosi sempre di più, passo dopo passo, nelle profondità di quell’ineffabile orrore. Il volto sfigurato dalla disperazione e dalla fatica, il sudore si mischiava ormai alle lacrime annebbiandogli anche la vista. Cominciò a credere che non gli sarebbe mai sfuggito. Si voltò quasi rassegnato.
Lo vide. Lontano, in fondo alla strada. Rallentò appena e lo osservò quasi curioso. Ancora una volta notò il suo atteggiamento terribilmente sicuro e tranquillo.
Una preda. Ecco cos’era. Quell’uomo lo stava cacciando. E si stava divertendo.
Imboccò l’ennesima traversa, sperando di trovare un posto per nascondersi. Non avrebbe potuto continuare a scappare in eterno, questo era certo. L’idea di seminarlo a questo punto si era rivelata un misero fallimento. Rallentò l’andatura, scrutando senza fermarsi ogni anfratto buio, ogni angolo o via d’uscita, ogni ombra. Registrò senza alcuna emozione di essere ormai nel cuore della zona industriale. Le case tutte uguali di periferia avevano lasciato pian piano il posto ad imponenti strutture prefabbricate, magazzini e freddi e impersonali edifici di mattoni; un dedalo di strade e stradine buie e deserte, la luce fredda di qualche sparuto lampione si interrompeva di tanto in tanto, inghiottita dagli accessi laterali delle strade private di carico e scarico delle fabbriche e dagli spazi erbosi. In lontananza, poté sentire il rumore ovattato dei veicoli che percorrevano l’autostrada. Aveva percorso almeno una decina di isolati. E continuava a correre.
Improvvisamente un’idea singolare cominciò a farsi largo nella sua mente. Cominciò a chiedersi il motivo per cui non avesse chiesto aiuto nemmeno una volta. La strana sensazione che si impossessò di lui lo colse di nuovo vagamente di sorpresa. Quella sferzata di razionalità l’aveva investito in un momento inaspettato. E in modo altrettanto inaspettato, non aveva sortito un effetto prevedibile e, soprattutto, minimamente ragionevole. Quel silenzio irreale, che l’aveva schiacciato fino a quel momento nella sua angoscia, gli sembrò improvvisamente e per la prima volta innaturale; ma malgrado ciò, la sua reazione non fu quella di gridare in cerca di aiuto, né si rammaricò di non averlo fatto. Si limitò semplicemente a prenderne atto e accelerò l’andatura.
In qualche modo sentì che quell’uomo non era l’unica cosa da cui stava fuggendo.

Era quasi arrivato in fondo alla strada. Sul momento, la cosa lo indusse per qualche bizzarro motivo a sperare. Forse al di là di quell’incrocio avrebbe trovato qualcosa, forse era l’idea stessa di aver percorso un’altra strada ad infondergli un insolito ottimismo, come se quell’istinto viscerale lo muovesse un passo alla volta, una strada alla volta. Il terrore e l’angoscia non l’avevano più abbandonato un solo istante, eppure tutto quell’orrore si era tramutato in qualcosa che pareva ormai parte della sua stessa esistenza. Ci si poteva abituare così facilmente e velocemente alla paura? Il panico aveva lasciato il posto ad una strana consapevolezza. Per un momento pensò che quella notte sarebbe durata in eterno. Sarebbe fuggito per sempre, strada dopo strada. Il dolore, l’affanno e la stanchezza continuavano ad essere sensazioni lontane. Le sentiva sempre più estranee; diventava sempre più insensibile, minuto dopo minuto. Pareva che i suoi stessi passi, il suo stesso respiro concitato fossero rumori distanti.
Si voltò di nuovo. Il suo inseguitore era ormai vicino, riusciva a vederlo in volto. Qualcosa luccicava sbucando dalle falde del suo soprabito scuro. Lo vide fermarsi a pochi metri da lui e sogghignare sardonico. Lo sguardo fisso su quell’uomo, come ipnotizzato, si colmò nuovamente di rabbia. Involontariamente rallentò ancora l’andatura. Si fermò.
Una nuova determinazione si fece strada da chissà quale angolo remoto della sua mente. Forse l’ultima cosa che gli era rimasta davvero, la dignità. Qualunque cosa gli fosse accaduta, qualunque cosa gli stesse per accadere quella notte, quel fottuto sorriso sarebbe sparito dalla faccia di quello stronzo. In un modo o nell’altro.
Le labbra si assottigliarono in un’impercettibile smorfia rabbiosa. Il dolore e la fatica ormai dimenticati del tutto, fece per voltarsi e riprendere a correre più deciso che mai. Cominciò per la prima volta quella notte a pensare seriamente ad un modo per sbarazzarsi definitivamente di quel maledetto individuo, a credere veramente che il suo istinto non l’avrebbe tradito. Quando si voltò per proseguire sui suoi passi tuttavia, la consapevolezza del suo madornale errore di valutazione gli apparve nitidamente davanti agli occhi, con una limpidezza talmente disarmante da togliergli il fiato, nelle sembianze di un secondo uomo. In fondo alla strada, se ne stava a braccia conserte ostentando una posa non meno tranquilla e sicura dell’altro.
La sua determinazione crollò in un istante come un castello di carte nel bel mezzo di un tifone. Si bloccò, paralizzato dalla paura, e cominciò ad indietreggiare istintivamente, guardandosi intorno sgomento. Alle sue spalle, l’uomo col soprabito si avvicinava lentamente, senza fretta. Fece per svoltare nell’unico viottolo accessibile, ma scoprì ben presto che non aveva più alcuna via di fuga.
Finalmente gli fu tutto chiaro. I due avevano calcolato ogni cosa. Era spacciato. Lo avevano spinto in un vicolo cieco.

Ma a chi diavolo aveva cercato di darla a bere?! All’inferno il suo istinto e le sue assurde sensazioni! Erano solo lo stupido, penoso attaccamento ad una speranza ingannevole, l’ultimo ostinato e inutile tentativo di aggrapparsi ad una qualche illusione di salvarsi. Non aveva mai fatto affidamento sul suo istinto un solo giorno della sua vita. E adesso chi cazzo gli aveva messo in testa che fosse infallibile?! Non aveva la minima possibilità di sfuggire a quei due. Non ne aveva mai avute. Eppure i suoi occhi continuavano nervosamente a vagare ostinati in cerca di una via di scampo. Patetico. Le spalle al muro, finì per indietreggiare fino al fondo del vicolo. Due assassini tra lui e l’unica via di fuga possibile. Stupido. Si era allontanato abbastanza da finire nella zona industriale, non una casa abitata nel giro di chilometri. Notte inoltrata, nemmeno una macchina, un idiota che passasse di lì. Nessuno che potesse venire in suo aiuto. Rassegnati. Non aveva più alcuna speranza di salvarsi. Era dunque giunta la sua ora.
Ma perché?!
“Perché ce l’avete con me? Che cosa vi ho fatto?” Sussurrò debolmente con gli occhi fissi sull’asfalto, il capo chino sotto un peso ormai insostenibile.
Non riuscì a sollevare lo sguardo, quando una risata canzonatoria rispose beffarda a quella domanda.
“Avevi proprio ragione, Horst” Ammise divertito l’uomo che era sbucato dal nulla. “Questo qui non sa proprio un cazzo!”
L’altro scosse la testa come a sottolineare l’ovvietà dell’affermazione.
“Così è davvero una passeggiata, devo ammetterlo.” Continuò ancora più divertito. “Quasi quasi non c’è nemmeno gusto.”
“Falla finita! Piantala di chiacchierare e diamoci una mossa.”
“Rispondete!”
I due si scambiarono un’occhiata eloquente. L’inflessione determinata ed esasperata di quell’imperativo riuscì per un momento a catturare la loro attenzione.
“Non ci facciamo due chiacchiere con i bastardi come te. La gente della tua specie la ammazziamo e basta.” Rispose lapidario l’uomo che aveva parlato per primo, fattosi improvvisamente serio e sprezzante.
Non aveva sollevato nemmeno un momento lo sguardo da terra. L’aria gelida che gli pungeva il volto madido di sudore pareva essersi attaccata a lui, come le ciocche di capelli ormai fradici incollate alla fronte; pareva gli fosse penetrata in profondità fino a diventare un tutt’uno col suo corpo. E una strana collera aveva cominciato a farsi strada in lui attraverso tutto quel gelo. Un’ondata di sentimenti contrastanti lo aveva assalito in modo violento e inarrestabile. La paura e la rassegnazione si confondevano ormai con una rabbia e una frustrazione sempre più incontenibili.
“La gente della mia specie… Che cazzo vorresti dire, eh?!”
Pronunciò quelle parole con un tono innaturalmente pacato, che all’apparenza sarebbe potuto sembrare sottomesso.
L’uomo col soprabito corrucciò per un attimo lo sguardo preoccupato. “Sta zitto!” Anticipò di un soffio l’altro, che era sul punto di rispondere. “Chiudi quella maledetta boccaccia, Franz! Smettila di provocarlo o non sarà per niente una passeggiata. Questo non è come gli altri. Perché cazzo credi che siamo venuti a cercarlo proprio ora, idiota?!”
“Ok, ok…” Minimizzò il compagno con noncuranza.
“Scusami tanto, bello.” Continuò poi, rivolgendosi con un tono ironicamente ossequioso all’uomo con le spalle al muro, che continuava a fissare l’asfalto. “Non volevo farti arrabbiare.”
Inaspettata, la replica sommessa che giunse dall’ombra cancellò all’improvviso, in un istante, l’espressione beffarda dell’uomo.

“Troppo tardi... Bello.”
Quella voce aveva assunto di colpo un’intonazione sinistra e innaturale. Uno strano eco ne rimbalzò il suono sulle pareti di mattoni amplificandone l’intensità in un modo anomalo, cupo. Pareva un sussurro, ma quelle parole erano giunte dal fondo del vicolo come fossero state pronunciate dalla profondità delle bocche dell’inferno; un suono greve, oscuro e agghiacciante, che scosse i due uomini in un fremito di sconcerto come li avesse materialmente sfiorati.
I volti improvvisamente pallidi si scambiarono un fugace sguardo di muto terrore, per poi tornare apprensivi sull’uomo, ognuno a suo modo determinato a ritrovare una presenza di spirito che pareva sfuggirgli. Nell’oscurità, avevano appena potuto distinguere il lieve incurvarsi delle labbra della loro preda in un maligno sorriso distorto, affilato come un artiglio. Solo allora aveva sollevato per la prima volta lo sguardo su di loro.
I due cacciatori non erano riusciti a non vacillare vistosamente in preda al panico. Le ultime parole che udirono da quella voce erano suonate come una terribile sentenza inappellabile. Non sarebbero mai riusciti a fuggire.

“Sono già... molto... arrabbiato.”




**********



… vittime non sono ancora state identificate. Secondo le prime dichiarazioni ufficiali i due corpi rinvenuti erano sprovvisti di un qualsiasi documento di identificazione. Purtroppo non siamo in grado di darvi ulteriori informazioni. Allo stato attuale delle indagin…

Con tutta probabilità, questa è l’ultima volta che racconterò a me stesso questa storia. Per qualche strano motivo, non posso fare a meno di pensare che la prossima volta che qualcuno la racconterà non sarà più la stessa storia. E quel qualcuno non sarò io.
Mi chiamo Andreas Albrecht III, tredicesimo duca di Zäringen, e posso dire con certezza che questa è di sicuro anche l’ultima volta che pronuncerò questo nome.
Ventisei anni, la vita di un normale ragazzo ricco, anzi, ricco da far schifo. Una famiglia, degli amici, qualche fidanzata, una bella macchina sportiva, un futuro roseo programmato a dovere.
Da qualche mese a questa parte, non posso più pensare a me stesso come a quello che ero. Andreas Albrecht III non esiste più. Cancellato, spazzato via, annientato. All’improvviso.
Mi è accaduto qualcosa. E non ho la più pallida idea di che cosa sia. L’unica cosa che so è che, per quanto tutto questo sia assurdo, io lo vivo ogni giorno, da quel maledetto giorno. Ed è tutto vero…

… diverse e di varia natura le ipotesi al vaglio degli inquirenti. Le indagini procedono comunque nell’assoluto riserbo; al momento non ci è permesso nemmeno di avvicinarci alla scena del crimine, che sembra circoscritta alla zon…

La notte tra il sedici e il diciassette novembre dello scorso anno, mi sono svegliato nel bel mezzo della Schwarzwald, a pochi chilometri dalle tenute di famiglia, fuori Friburgo; i vestiti a brandelli. Ricordo ancora il freddo. E il buio. Non è un caso se la chiamano la Foresta Nera… Ma non ricordo un singolo minuto di quello che mi è accaduto per una intera settimana prima di quella notte. Non ci riesco. Non ricordo nemmeno l’ultima cosa che ho detto a mia madre. E non potrò mai più dirle nulla.
I miei genitori sono scomparsi; pochi giorni prima che io facessi irruzione terrorizzato alla centrale di polizia per denunciarne la sparizione, quella stessa notte, e che all’ispettore capo venisse un colpo nel vedermi entrare, in quello stato, dopo che aveva dato per disperso anche me. Non sono mai stati ritrovati. Nessuna traccia. Come non fossero mai esistiti. Forse, ormai non posso togliermelo dalla mente, è quello che sarebbe dovuto succedere anche a me. E per qualche assurdo motivo è come se lo sapessi, non li rivedrò più.
Non riesco a ricordare. E Dio solo sa se ci ho provato. Ho subito interrogatori per giorni. Mi sono sottoposto alla macchina della verità, all’ipnosi. Nulla. Lo psichiatra dell’ospedale di Friburgo mi considera pazzo. Ma la cosa buffa, se proprio devo trovare qualcosa di buffo in tutto ciò, è che non è riuscito a dimostrarlo. La polizia di Friburgo, invece, mi considera un assassino. Nemmeno loro sono riusciti a dimostrarlo.
Da allora sono solo. Tutte le persone che mi conoscevano un tempo mi considerano un folle omicida o, nella migliore delle ipotesi, soltanto un pazzo squilibrato. Non credo che rivedrò mai più nemmeno loro…

… orribilmente mutilati. Di fatto quindi, gli unici particolari che sono trapelati confermano la natura particolarmente violenta degli omicidi. Attualmente, gli investigatori non stanno tralasciando alcuna pista, compresa quella del serial kil…

Continuo ad avere vuoti di memoria e continuo a fare strani sogni. Il più delle volte sono confusi, li ricordo a malapena. Ogni volta sono diversi, unico comune denominatore: fuggo. Sono immagini confuse e macchiate di sangue. Sogno cose che alla maggior parte della gente metterebbero i brividi. Sangue, che pulsa. E corpi straziati, dilaniati, mutilati… Sangue. Brandelli di carne, viscere, occhi sbarrati dal terrore… Fuggo. E il sangue mi insegue; mi afferra. Me lo sento addosso, ne sento persino l’odore.
So che questi sono incubi, non strani sogni. Lo erano anche per me… all’inizio. Forse ci ho fatto l’abitudine. Non riesco a spiegarmelo, ma non sono i miei sogni a farmi paura.
Continuo a chiedermi come mai tutto questo non mi abbia portato sul serio alla follia. Forse sono davvero impazzito e non ho idea di quello che sto facendo. E questa è proprio l’unica certezza che ho. Non so che cosa mi stia capitando. Sì, ho paura.
Continuo a seguire unicamente il mio istinto, da allora non faccio altro, perché mai come adesso il mio istinto mi ha fatto sentire la sua voce così forte e chiara. Mai come adesso mi è parso tanto ovvio; io, che ho sempre vissuto tenendo sotto controllo ogni singolo aspetto della mia vita, anche il più insignificante, ora non ho idea di quello che farò domani, né il perché lo farò. E ho paura...

…cosa che per la stessa ammissione dell’ispettore capo Scholl appare anche alla polizia un elemento piuttosto insolito, data la natura efferata del crimine. Queste le uniche dichiarazioni ufficiali al moment…

Mi chiamo Andreas Waldermann, adesso, e non so nemmeno il perché abbia scelto questo nome. Ma ho abbastanza soldi per ragionarci su tutta la vita, semmai m’importasse qualcosa. L’unica cosa che mi è rimasta, i soldi. Ho lasciato Friburgo appena due settimane fa, l’ho fatto senza nemmeno pensarci. Dovevo andarmene, dovevo nascondermi. Il mio istinto continuava… Continua a ripetermelo. Sto già per lasciare Francoforte. Dio solo sa per quale ragione, qualcosa mi dice di andare verso nord. Non riesco a farne a meno, come fossi l’ago di una bussola. Sento che lì troverò le mie risposte e, per la prima volta da settimane, non sto fuggendo.
La notte scorsa ho fatto un altro dei miei sogni. Ogni giorno diventano più nitidi e spaventosi e, allo stesso tempo, ogni giorno li sento sempre più consueti, sempre meno angoscianti. Da questa mattina ho una nuova, strana sensazione. Mi rende inquieto, eppure ora ne sono anche attratto. E oggi mi sento davvero bene; è la prima volta da mesi.
Non so più chi sono e sono stanco di fuggire, voglio scoprirlo. E oggi, penso di sapere dove andare. Sento che l’unica cosa che ho davvero bisogno di conoscere ora è proprio ciò da cui una parte di me mi dice di scappare. Ma è quella parte di me che non riesco più ad ascoltare.
Se mai riuscirò a raccontare la fine di questa storia, non posso fare a meno di farmi una domanda… Sei sicuro di volerla conoscere?
Il mio istinto risponde ancora una volta al posto mio. Ma lo sento. Sento di essere irrimediabilmente attratto da quell’unica verità di cui, adesso lo so, finirò per avere davvero paura…

… conferenza stampa fissata per domani pomeriggio alle 15:00. Ovviamente, se avremo altri aggiornamen… Click.


La radio spenta con un gesto distratto. Un’ultima occhiata alla busta in bella mostra sul tavolo, per il padrone di casa. La sacca appoggiata sulla spalla e un’insolita sensazione che lo costringe a toccarsi il ginocchio destro, involontariamente.
Il suo ginocchio sta benissimo, non può preoccuparsi anche di questo.
Un’alzata di spalle, indifferente. La porta chiusa dietro di sé, senza voltarsi. Sulle scale un’occhiata distratta all’orologio e una specie di sorriso.
Perché no? Ha tempo per fermarsi a mangiare, magari una bella bistecca. Al sangue.




FINE





NOTE DI FINE STORIA:
Alcune curiosità, del tutto inutiliXD, che hanno a che vedere con questa one shot:
- J. W. Goethe, al cui aforisma si ispira la storia, nasce nel 1749 proprio a Francoforte sul Meno (città in cui questa one shot è ambientata^^).
- Waldermann, il nome che sceglie Andreas per la sua nuova identità, è un nome composto da Walder (dal tedesco Wald, “foresta”) e Mann (“uomo”).
- Gli Zäringen sono esistiti veramente a Friburgo, in epoca medievale; si ritiene che sia stata proprio questa nobile famiglia a fondare la città, nel 1120. L’ultimo Zäringen però morì nel 1218, quindi Andreas, in comune con i veri duchi di Friburgo, non ha nulla tranne il nome e le origini.




  
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