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Autore: BeautifulMessInside    15/10/2013    2 recensioni
"Non hai paura di morire?" - "Non ho molte ragioni per vivere."
Cara non sarebbe dovuta salire su quell'aereo, non sapendo che Joseph Michaelson, detto il Lupo, sarebbe stato sul suo stesso volo.
Joseph non avrebbe dovuto salvare la ragazza, non sapendo chi lei fosse. Ma Joseph non ha idea di chi sia Cara e lei non può sapere che lui davvero farà il grosso sbaglio di salvarla.
Assassini, famiglie potenti, attrazioni pericolose e segreti nascosti in una storia dove non tutto è come sembra.
Genere: Angst, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capXI

CIAO!! Ritardo, ritardassimo! Vi chiedo di perdonarmi perché stare dietro a tutto mi è ultimamente molto difficile.. Grazie per aver atteso e scusate se ci sarà qualche errore… se mi metto a rileggere ancora una volta non pubblico più!

Grazie davvero!!

Martina

 

///////////

 

 

“Oteц.”

Elia mosse un istintivo passo indietro, mollando lentamente la presa sul braccio di Katrina. Lei avanzò tremolando, con gli occhi sbarrati e l’espressione di una bimba scoperta a rubare i biscotti dal vaso sul frigo. Tutta la sua sicurezza, tutta la sua arroganza e l’insolenza si sgretolarono all’istante, incenerite dagli occhi scuri e pesanti di suo padre, avvolto in un cappotto nero dal colletto sollevato. Il vento sembrava soffiargli attorno senza il coraggio di sfiorarlo.

Si gettò sulle ginocchia, prostrata dinanzi a lui.

Elia la guardò piegarsi su sé stessa come una foglia accartocciata, con la testa bassa ed i capelli che sfioravano l’asfalto. Quella rapida caduta era più di quanto avesse mai visto di sua moglie.

“Perdonami padre.”

Le uscì un filo di voce ed Elia socchiuse le labbra. Era davvero tanto terrorizzata o semplicemente una grande attrice?

Valdijmir abbassò lo sguardo sulla figlia, serio e muto come una tomba. Analizzò la sua figura interamente e si sentì disgustato dal suo aspetto volgare, dagli abiti da prostituta, dall’uomo che si portava dietro. Mosse un solo passo, allungando la pallida mano per sollevarle il mento. Incredibilmente riuscì a farsi più cupo di quanto già non fosse, ulteriormente offeso dal trucco pesante sul viso della sua bambina, educata con sforzo e pugno fermo come degna erede del suo impero, protetta come una novizia fino all’ultimo momento.

Col dorso della mano destra le tirò uno schiaffo in viso, tanto forte e tonante da farle perdere l’equilibrio. Elia sobbalzò contro la propria volontà nel vederla crollare sui palmi, ignorando totalmente il cellulare che aveva preso a vibrare nel taschino interno della giacca.

L’atmosfera cambiò in un solo istante. Vladijmir si avvicinò di nuovo a Katrina, stavolta sciolto nei suoi movimenti. Si abbassò alla sua altezza ed afferrandola piano per le spalle la sollevò per stringerla in un abbraccio. Una stretta rigida, muta, ma pur sempre paterna.

“пpoctиtе mehя oteц.”

Lo pregò di nuovo, stavolta nella loro lingua, ricercando un’ulteriore intimità cui, chiaramente, non erano soliti.

“ты moя kpobь.”

Rispose lui tornando dritto davanti alla figlia. Elia doveva ammetterlo, non era mai stato un brillante studente di russo, ma gli arrivò chiara alle orecchie la parola “sangue”, il liquido rosso che scorre nelle vene, che pompa nel cuore e che conserva l’eredità degli antenati. Per persone come loro il sangue è il più forte dei legami, un vincolo che nulla può spezzare, nemmeno l’alto tradimento.

Fu solo allora che il magnate sovietico si rivolse a lui, dopo aver ridato a Katrina il posto che le spettava di diritto, la sua destra.

“Sei un uomo morto Elia Michaelson.”

Cadde il silenzio, venuto giù col macigno di quella sentenza. A far da unico sottofondo il cupo bzzzzz che continuava a vibrare contro il petto di Elia.

 

//////////

 

Joseph stava correndo, sentendosi come se stesse correndo per la sua stessa vita. Più i suoi piedi battevano sul cemento, più le sue anche ruotavano,  più forte sentiva ogni segno di stanchezza e fatica lanciato dal suo corpo. L’aria fresca gli penetrava le narici tagliando come lame nel petto, la gola era ormai secca, ma i suoi occhi continuavano imperterriti a seguire la sagoma saltellante di Nathaniel poco avanti a lui.

Sentiva i passi veloci del fratello, mischiati al suono dell’aria tagliata dal suo corpo e ai lontani rumori della città. Dietro di sé tutto sembrava arrivare più attutito. Avrebbe voluto esser certo che Elia stesse tenendo il suo passo a poca distanza, ma voltarsi sarebbe stata una perdita di secondi ed energie non necessaria. Tese appena l’orecchio ricercando il tonfo secco delle scarpe toscane di Elia sul concreto, ma riuscì a captare solamente il rapido picchiettio di passi ben più corti e ravvicinati. Tacchi di donna, tacchi spessi e suole di gomma, non certo gli stiletti di Katrina.

Cara.

La scena di poco prima si ripropose nel retro dei suoi occhi. La sua materia grigia sarebbe schizzata dappertutto non fosse stato per l’intervento della ragazzina.  La precisione del colpo alla tempia non lasciava dubbi, aveva mirato dritto con lo scopo di uccidere. Non era stato un caso. Sì, ma perché?

Con l’irritante consapevolezza di non saper capire, senza il tempo né la voglia di arrovellarsi il cervello, pressoché sicuro che dopo quell’esperienza avrebbe tenuto a debita distanza Cara Phillis e qualsiasi altra sconosciuta al mondo, Joseph cambiò bruscamente direzione, trovando riparo tra pile di casse e pallet.

Si prese il tempo di respirare a pieni polmoni mentre ascoltava il ticchettio farsi più vicino. Barbie avrebbe dovuto scegliere scarpe diverse se sperava  di passare inosservata. Non appena sentì che le stava per sfilare vicino allungò il braccio, tendendo i muscoli perché le sembrasse di impattare contro un muro di pietra.

 

////////////

 

Cara si sentiva il cuore nelle orecchie. Le sue gambe avanzavano da sole, i suoi capelli andavano annodandosi nel vento polveroso del deposito di Lewis. Tutto a monte. Un’altra volta tutto da rifare. Se si fosse fermata in quel momento di certo avrebbe vomitato, ne era sicura. Tutta la rabbia e tutta la tensione sarebbero venute dritte fuori dal suo stomaco.

Fu come un colpo secco contro il diaframma. All’improvviso le sembrò di perdere il fiato e la nozione dello spazio, come se si fosse spiaccicata sull’asfalto. Un secondo prima di chiudere gli occhi fu certa di non aver davanti niente più dell’orizzonte. Qualcosa l’afferrò alla vita, spostando il suo peso dalla strada e schiantandola nell’angolo più lontano di quello spazio angusto, tra casse e scatoloni.

Tornò a respirare tirandosi su, ignorando totalmente il dolore all’osso sacro sbattuto sul cemento.

“Non così in fretta.”

Riconobbe quella voce all’istante, prendendosi tutto il tempo necessario per sollevare il viso. Joseph la guardava dall’alto, gambe leggermente divaricate e l’aspetto più stravolto che gli avesse mai visto addosso.

“Che vuoi?”

Sputò tirandosi su, mettendo il piede sinistro avanti all’altro in un’istintiva posizione di difesa. Joseph si mosse lentamente, avanzando a passi silenziosi e con la mascella serrata, costretto ad abbassare il mento per tenere gli occhi alla sua altezza. Cara non si mosse di un millimetro, aguzzando lo sguardo contro il suo. Labbra e pugni stretti.

Non era cosa nuova la vicinanza tra loro, fosse per strusciarsi l’uno contro l’altro o cercare di strapparsi le carotidi a morsi. Probabilmente era questa la ragione per cui nessuno dei due sembrava troppo sulle spine. Cara conosceva ormai a memoria le tre rughe che si stringevano sulla fronte di lui quand’era arrabbiato e non le facevano più alcuna paura.

“Mi hai salvato la vita.”

La ragazzina non riuscì a trattenere un sorriso mentre abbassava il viso. Non uno vero, bensì la smorfia di un paio di secondi, sarcastica e lievemente offensiva. Stava ridendo di lui. Joseph strinse i pugni ancor più forte sentendo la pressione salire al cervello. Questo era un lusso che davvero nessuno poteva permettersi.

La spinse indietro con un gesto deciso, di nuovo contro un muro, di nuovo con poca grazia.

“L’hai fatto.”

Ribadì con un tono ben più deciso, pronto a scattare qualora quell’irritante espressione fosse comparsa ancora una volta.

Cara rimase seria

“Perché mai avrei dovuto?”

Quella scintilla di sdegno nei suoi occhi gli riportò alla mente un’altra scena che avevano già vissuto. Le sue insuperabili doti d’attrice.

“Non lo so…”

Intavolò la sua risposta facendosi nuovamente avanti, forte della mancanza di vie d’uscita da quel buco.

“…Perché ti piaccio forse?”

Riuscì a dirlo senza sorridere, consapevole che in un modo o nell’altro stava citando le sue stesse parole. Rimase con gli occhi dritti in quelli di lei, aspettandosi la risata fatale che avrebbe liberato il suo animale interiore. Cara mantenne lo sguardo fermo, ma le sue palpebre si chiusero ed aprirono velocemente.

Tese le braccia lungo i fianchi e piano scosse la testa

“No…”

Si sollevò sulle punte perché gli fosse chiaro

“…E’ perché ti odio…”

Parlò tra i denti, rimarcando quanto stesse stretta in quella perfetta circostanza

“…E sarò solamente io ad ammazzarti.”

Joseph si accorse solo allora del proprio respiro che andava stabilizzandosi, mentre il petto della ragazzina si muoveva su e giù all’impazzata. Stava affondando le dita in una ferita piuttosto fastidiosa. Si leccò le labbra muovendo gli occhi da una pupilla all’altra, addolcì volutamente il tono

“Sai…”

Le respirò in viso

“…L’odio è quasi sempre l’inizio di una storia d’amore.”  

Cara scattò immediatamente, piantandogli un gomito in bocca perché si rimangiasse all’istante quelle parole assurde. Non gli avrebbe permesso di prenderla in giro come un’idiota. Se voleva una dimostrazione dei suoi sentimenti tanto meglio.

Joseph indietreggiò per nulla sorpreso. Erano infinitamente simili dopo tutto. La sola idea di provare una qualche emozione scatenava in loro una specie di reazione immunitaria, mettendo in allarme ogni cellula dell’organismo.

L’amore rende deboli, così è stato loro insegnato.

Distruggi tutto ciò che ti minaccia, ma ancor prima distruggi tutto ciò potresti mai amare.

Riuscì a fermare un altro pugno prima che gli arrivasse allo zigomo, bloccando la mano di Cara nella propria. Il codice morale gli impediva di picchiare le donne, ma stavolta avrebbe forse potuto fare un’eccezione. Per la terza volta la scaraventò contro il cemento con uno spintone deciso.

Lei balzò in piedi e gli caricò contro, spingendo sulle gambe per fargli più male possibile. Joseph intercettò il colpo e riuscì a scansare il suo piede prima che gli arrivasse agli stinchi. La ragazzina non si stava affatto impegnando. Prendendola per il polso e la spalla, la costrinse ad una rotazione del busto e per l’ennesima volta la spinse all’angolo

“Troppo lenta.”

Le suggerì, bloccando il ginocchio che mirava alle sue parti basse

“Troppo prevedibile.”

Aggiunse. Cara tornò a guardarlo negli occhi prendendo un lungo respiro, la rabbia stava offuscando le sue capacità. Mosse lo sguardo rendendosi conto solo in quel momento dei pochi centimetri tra la faccia del lupo e la sua. Poco più in basso i loro corpi si toccavano già e lei, fino a quell’istante, non se n’era accorta, come se per la sua epidermide ed il suo subconscio fosse una cosa del tutto accettabile.

Ingoiò quel momento

“Troppo vicino.”

Ribatté trovando finalmente la forza di spingerlo via. Un pugno nello stomaco ben assestato e riuscì a passare dall’altro lato dello spazio, libera di fuggire verso il nulla. Joseph tuttavia non sembrava dello stesso avviso, pochi secondi gli erano bastati per tornare alle sue calcagna.

“Jo!”

L’urlo arrivava da di fronte. Cara mise a fuoco ed individuò il minore dei Michaelson che si muoveva nella loro direzione. Con la coda dell’occhio si accorse che Joseph aveva rallentato e ne approfittò per voltare verso destra e sparire una volta per tutte.

“Joseph!  C’è una macchina che ci aspetta, corri!”

Gli suggerì Nathaniel con un gesto della mano e lui, per qualche secondo ancora, rimase indeciso su quale direzione seguire. Alla fine optò per il dritto e seguì suo fratello verso il SUV scuro. Forse non l’avrebbe più vista. Forse, nella più rosea delle ipotesi, la ragazza dell’aereo sarebbe rimasta solo un dolce ricordo amaro, una manipolatrice bastarda che gli aveva momentaneamente incasinato il cervello. Già, momentaneamente, poiché era più che deciso a dimenticare, sia il suo viso che gli inaccettabili pensieri ispirati dalla sua pelle candida e dalla sua arroganza. Cara Phillips, una psicopatica, un mix esplosivo di almeno tre diverse personalità, tutte ugualmente incasinate: un soldato assassino al servizio di Mancini, una bimba mai cresciuta, triste per la morte dei genitori, un’innocente cameriera fasulla, in una vita fasulla, recitata senza arte né parte. Una trappola, una trappola dai lunghi capelli biondi.

“Ancora dietro a quella troia?”

Joseph si era meccanicamente seduto sul sedile di pelle ed aveva sbattuto lo sportello, tenendosi alla maniglia mentre l’auto partiva a tutto gas. Nathaniel lo guardava incerto, visibilmente irritato, quasi incredulo.

“Ho un conto in sospeso con lei.”

“Abbiamo…”

Lo corresse l’altro cercando di guardarsi nello specchietto retrovisore

“…Taglierò la gola a lei e a tutti gli altri, compresa la russa.”

Sottolineò mentre passava il dito sui lividi che aveva in viso, sentendo la rabbia ribollire ulteriormente. Joseph drizzò la schiena

“Dov’è Elia?”

Guardò dietro l’auto e nessuno li stava seguendo. Ripensò di non aver mai visto il fratello corrergli appresso. Un brivido lo attraversò da capo a piedi.

“Avrà preso un’altra strada. Il vecchio ha mandato più di una macchina.”

La risposta non servì a farlo rilassare

“Ha mandato più di una macchina.”

Ripeté tra i denti con tono sarcastico. Ovviamente lui non ha mosso il culo dalla sua preziosa poltrona.

“Dammi il tuo telefono.”

Si rivolse all’autista del SUV che li stava sparando a tutta verso casa. Quello gli ubbidì senza fiatare e Joseph compose il numero. Squilli a vuoto. Se non altro stava squillando. Spinse di nuovo il pollice sul tastino verde. Ancora squilli a vuoto.

 

//////////

 

Elia rimase immobile. Negli ultimi due anni della sua vita aveva sentito quelle parole almeno un centinaio di volte. Pushkin l’aveva accusato di aver ucciso sua figlia, di averla fatta sparire, di non aver saputo proteggerla… Perfino di averla venduta come una schiava per riuscire ad infilare un piede nel mercato mediorientale del petrolio. Per la prima volta non gli sarebbero servite arringhe difensive, l’unica prova che poteva scagionarlo era lì, in piedi accanto a loro.

“Katrina è qui. In salute nondimeno.”

Ribatté con un cenno della mano destra a sottolinearne l’ovvietà. L’altro si leccò le labbra

“Tua famiglia rovina tutto ciò che tocca.”

Poteva dargli torto dopo tutto? Una madre morta e depressa, una moglie fuggita, un fratello a marcire in galera ed altri due abbandonati a loro stessi, un padre tiranno ed un esercito di persone asservite e terrorizzate. Tutti con lo stesso futuro segnato.

“Guardala…”

Pushkin guidò gli occhi di Elia verso la figlia. Due sole lacrime cadute le segnavano il viso di nero, ma lì dove Vladijmir vedeva solo immoralità e delusione, lui continuava a vedere la bellissima donna che aveva scaldato il suo letto. Quant’era ancora chiaro nella sua testa il ricordo di quel calore.  Com’era stato strano, seppur sorprendente, sentire quella sensazione lottare contro l’abitudine al gelo, il freddo che aveva patito da bambino tutte le volte che un temporale o un brutto sogno l’avevano spinto fino alla stanza dei suoi. “Non essere codardo William. Torna subito in camera tua!” Così diceva suo padre.

Ed Elia Michaelson non era certo un codardo.

“…Tu hai fatto questo di mia figlia!”

Il suo tono si era sollevato di colpo, la sua ultima frase quasi un urlo. I preliminari erano ufficialmente conclusi.

Del tutto inattesa la sua discendente ruppe il proprio voto di silenzio

“No padre…”

Poggiò lenta una mano sulla spalla del più anziano

“…Non è stato Elia.”

Pushkin la guardò senza muovere un muscolo in viso, impietrito davanti alla figlia così apertamente disdegnata.

“Io sono scappata.”

Concluse sottolineando il soggetto, in attesa di un altro schiaffo meritato. Tutti gli sforzi, tutto il mistero, un’intera guerra messa in piedi solo ed esclusivamente a causa sua.

Elia sollevò le dita, ma solo per chiudere un bottone della giacca. Pushkin meritava l’espressione inebetita che adesso campeggiava sul suo viso spigoloso. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso.

Per quale strana ragione Katrina avesse deciso proprio in quel momento di sputare finalmente la verità? Non voleva nemmeno chiederserlo.

 

////////

 

“Dov’è vostro fratello?”

Domandò William guardandoli entrare nello studio con la coda dell’occhio, la sua attenzione rivolta al distruggidocumenti che ingoiava, una alla volta, le prove dell’ultimo appalto truccato.

“Speravamo fosse già qui.”

Rispose Nathaniel senza aggiungere altro. William infilò un sottile foglio rosa nella fessura e rimase a fissarlo mentre la macchina lo divorava.

“Andate a darvi una ripulita. Puzzate come animali.”

Ordinò lasciando cadere la questione, quasi non avesse alcuna importanza.

Joseph sbatté i palmi sulla scrivania richiamando la sua considerazione

“Maledetto bastardo!”

Era stanco, furioso e preoccupato, ma di sicuro non provava vergogna per il pensiero che voleva uscirgli di bocca. Se William fosse andato al deposito ed i merli l’avessero fatto a pezzi, lui avrebbe brindato assieme a loro col miglior champagne in circolazione.

“Tieni a freno la lingua Joseph…” Ribatté l’altro con tono calmo ed un’occhiata di sufficienza “…Tuo fratello sa badare a sé stesso.”

“E’ sempre e solo colpa tua.”

Rispose. Il tono più pacato, ma il disprezzo sempre più evidente. Se fosse successo qualcosa ad Elia… Se fosse successo qualcosa ad Elia mentre il suo surrogato di padre si compiaceva del proprio riflesso nel bicchiere di bourbon, allora bhé, avrebbe fatto lui stesso un favore ai merli, ai russi e probabilmente all’intera umanità.

“C’è Mancini dietro tutto questo, non Pushkin.”

Nathaniel decise di intromettersi, seppur inopportuno, cercando di contenere il fratello. Da come pulsava freneticamente la vena della sua tempia sinistra, mancava davvero poco perché esplodesse.

William sorrise con apparente gusto mentre sfregava i palmi sul panciotto. Si avvicinò al minore dei suoi figli, sangue del suo sangue, e finse d’osservare con apprensione il grosso taglio che occupava la sua guancia

“Devi farti sistemare figliolo…”

Con una pacca sulla spalla lo spinse impercettibilmente verso la porta dello studio

“…Non vorrai certo rovinarti la faccia. Sei quello che mi somiglia di più qui dentro.”

Ed era vero. I lineamenti di Nate ricordavano in maniera evidente quelli di suo padre alla sua età e sicuramente William godeva nel vederlo orgoglioso, ambizioso, al limite del superbo, così come avrebbe voluto che fossero tutti i frutti dei suoi lombi.

Il minore lanciò un occhiata non corrisposta a Joseph. Non era certo fosse una decisione saggia lasciarli soli, ma il sottile invito di suo padre era, come sempre, nulla più che un’imposizione. Annuendo in silenzio prese la porta.

“Quanto a noi…”

Riprese accarezzando la folta barba che gli copriva il mento

“…Se non fossi l’incapace che sei Joseph, sapresti che Robert si trova in Belgio in questo momento. A Mortsel precisamente…”

Gli rivolse un sospiro di sufficienza

“…E sapresti anche, che dopo l’ultima volta vige tra noi un mutuo tacito accordo di rispetto. Almeno finché gli lasceremo campo libero giù al confine.”

Un accordo? Joseph non era a conoscenza di un simile patto e ad ogni modo non credeva nemmeno un po’ alla buonafede dell’italoamericano. Aveva vissuto per trentadue anni accanto ad un uomo come Mancini e proprio da William aveva imparato, suo malgrado, quanto poco vale la parola di un capo se i termini dell’ accordo non si firmano col sangue.

“E tu ci credi? I gemelli Pryce erano lì e Kat…”

William tornò a dedicarsi all’alcool per qualche istante

“Io non credo. Io so.”

Lo interruppe prima di scuotere il capo con fare quasi giocoso. Joseph inspirò profondamente al centro della stanza, i suoi nervi stavano per esser messi a dura prova

“La tua ingenuità è disarmante figlio mio…”

Non passò inosservato il modo in cui quella parola rotolava giù dalla sua lingua, solo per schernirlo

“…Davvero credi che io non sappia tutto quello che stai per dire?”

Volò l’ennesimo sguardo di sfida reciproca

“Ho mandato degli uomini ad indagare, sperando che facciano un lavoro migliore del vostro.. ma posso già assicurarti che Mancini non c’entra niente col piccolo eccesso di zelo dei suoi leccapiedi.”

Joseph aguzzò lo sguardo mirando ad un punto qualsiasi sulla parete opposta, non che stesse davvero concentrandosi su quel che aveva davanti. Se Mancini non era il mandante di quella sciarada, allora si trattava davvero di una maldestra vendetta personale o forse sarebbe meglio dire una doppia vendetta, vista lo concomitante presenza di Cara e Katrina. Quanto ai gemelli invece, probabilmente era bastato che tutt’e due si sfilassero le mutandine per far loro accettare di buon grado l’ammutinamento.

Le donne, che brutta razza! Il commento gli venne spontaneo, cosa mai non riuscirebbe ad ottenere una donna con un bel culo e grandi occhi blu? Proprio lui era stato il primo a cascarci come un idiota.

“Quanto a Katrina…”

Riprese il vecchio recuperando il suo interesse

“…Credo che William abbia ben capito come dovrà comportarsi con lei d’ora in poi.”

D’ora in poi? D’ora in poi?! Non erano abbastanza tutti i casini che quella troia aveva già procurato? Pretendeva forse che Elia se la riprendesse?

Quasi fosse riuscito a leggergli nel pensiero William senior precisò

“E la sua ricomparsa ci toglierà finalmente Vladijmir dai piedi.”

Una lampadina si accese nel cervello di Joseph. Ecco chi aveva mandato quei sicari al deposito, ecco la ragione per cui, nonostante i kalashnikov alla mano, non avevano sparato. Pushkin non aveva mai smesso di seguirli e sapeva che sua figlia era in quella stanza.

Un brivido all’adrenalina lo mise in allarme

“Se Pushkin ha preso Elia potrebbe…”

William lo zittì con un cenno della mano, quasi stesse dicendo la più insignificante stupidaggine

“Come ho già detto pocanzi, tuo fratello è in grado di badare a sé stesso.”

Quel tono indifferente fece saltare Joseph sul posto, strinse i pugni e si rivolse a suo padre con lo stesso sdegno dovuto al più insignificante servitore

“Se succede qualcosa ad Elia io giuro che ti…”

William drizzò la schiena ed arruffò le piume come un pavone irritato, gelando Joseph con una sola occhiata

“Ti consiglio di ponderare la tua prossima scelta di parole Joseph…”

Una specie di ghigno gli comparve in volto

“…Da che tua madre è morta non ho più alcun obbligo verso di te, anzi… forse dovrei decidermi a schiacciarti come l’insetto che sei.”

Il tono monocorde era una delle armi che avevano reso William quello che era. Sembrava non provare più nulla, in nessun momento. I suoi nemici lo trovavano terrificante. Joseph d’altra parte, era più che abituato al suo disprezzo e sebbene non fosse riuscito a finire la frase, l’intenzione restava la stessa. Qualora Pushkin avesse anche solo torto un capello a suo fratello, William si sarebbe ritrovato coi suoi stessi occhi in bocca. 

Joseph allargò le braccia

“Perché sono ancora qui allora?”

Domanda velatamente ironica, ma a dirla tutta se l’era sinceramente chiesto parecchie volte. William sembrò cambiare d’umore, tornando ad essere il genitore orgoglioso dei suoi soldati col perenne ghigno in faccia

“Perché devo ammetterlo figlio…”

Di nuovo quella parola fuori posto, di nuovo quella cadenza. Si allontanò tornando alla scrivania dove un’altra pila di documenti lo attendeva

“…Tu sei un artista coi coltelli, così come tuo padre lo era coi pennelli.”

Lasciò cadere quella frase così, tra un foglio e l’altro, come non avesse detto nulla d’importante. Joseph si gelò all’istante, completamente travolto da emozioni contrastanti. Suo padre, il suo vero padre, un pensiero che raramente gli attraversava il cervello, un’ombra nella sua vita che odiava di cuore, quasi quanto il rimpiazzo senza coscienza che ora aveva di fronte.

Il suo nome era Stig, un pittore svedese che sua madre Amelia aveva conosciuto a Londra durante una mostra. Una relazione proibita durata un paio di mesi, giusto il tempo necessario per mettere in cantiere la sua inutile esistenza. Detestava William per averlo ucciso a sangue freddo dopo l’infausta scoperta, ma ancor più disprezzava quell’altro per non aver lottato, per non averli portati via da Londra e dai maledetti Michaelson. Forse semplicemente non gli importava nulla di sua madre, tantomeno di lui.

Eccola di nuovo, quella terribile rabbia che gli caricava dentro e gli formicolava nelle mani. William non si lasciò sfuggire la scintilla nei suoi occhi, fiero di essere perfettamente riuscito nell’intento desiderato. Piegò un foglio tra le dita e se lo infilò nel taschino della giacca

“A proposito di coltelli… Dick Moreau, sulla Orchard Road.. Non ha pagato questo mese.”

Joseph annuì benché sembrasse totalmente calato in altri pensieri. Uccidere Moreau o chiunque altro, solo questo gli serviva adesso. Dopo tutto lui era il Lupo e come tale doveva tornare a comportarsi.

Si sentì una mano poggiata sulla spalla

“Fa’ questo favore al tuo vecchio e poi va’ pure a cercare Elia se vuoi.”

A scopo raggiunto il tono di William si era ingentilito e sul suo viso campeggiava un mezzo sorriso di soddisfazione.

 

/////////

 

Cara entrò nella stanza 7b del motel François nettamente in ritardo e visibilmente stremata. Neanche s’aspettava che dopo quell’epico fallimento Morgan le facesse recapitare un messaggio per dirle dove s’erano nascosti. Tra i merli solitamente non funziona così, se uno resta indietro gli altri se ne fregano alla grande.

La camera puzzava di vecchio e di stantio, mentre le pareti a righe avranno avuto almeno quarant’anni, se non altro a giudicare dagli strappi della tappezzeria. L’arredamento nel complesso non era male, soprattutto il tavolino shabby-chic che faceva bella mostra delle sue gambe storte accanto al minifrigo degli anni ’80.

Era riuscita a sentire i lamenti di Little K già fuori dalla porta e adesso eccolo lì, con le gambe stese e la schiena poggiata alla testiera del letto, sudato fradicio e con un asciugamano insanguinato spinto contro il fianco.

 “Quel figlio di puttana mi ha accoltellato!”

Precisò davanti allo sguardo perplesso di Cara. Morgan li raggiunse poggiando una mano sulla spalle di lei e porgendo al fratello una birra gelata.

“Non preoccuparti. L’ho già rattoppato per bene… E tu smettila di lamentarti come una femminuccia!”

Preoccuparsi? Non si sarebbe certo strappata i capelli se Little K avesse perso un rene o un paio dei suoi sette metri d’intestino.

“Vieni qui Barbie...”

Il gemello ferito richiamò la sua attenzione e Cara, senza ancor dire una parola, si avvicinò al letto. Little K allungò una mano umidiccia e cercò la sua, stringendola come nel più naturale dei gesti. Gli occhi di Cara caddero dritti su quell’unione di dita e a stento trattenne il bisogno di ritirare il braccio il più in fretta possibile. Certo, lui era un bel ragazzo, con grandi occhi verdi e pettorali scolpiti, e lei c’andava a letto di tanto in tanto, ma questo non li rendeva certo una coppia o qualcosa del genere.

“…Ho davvero bisogno di un po’ di conforto...”

Da come aveva stressato la parola sarebbe stato chiaro perfino ad una monaca di clausura che col termine “conforto” non intendeva certo abbracci e carezze. Cara sollevò il sopracciglio in un arco perfetto, la sola idea di prenderglielo in bocca in quelle condizioni la faceva vomitare. Senza contare che non se l’era guadagnato comunque, dato il fallimento palese del piano.

Inspirò. A pensarci bene, ultimamente anche il solo guardarlo la faceva vomitare.

“…Me lo merito dopo quello che mi ha fatto il tuo amico.”

Continuò a perorare la sua causa mollandole la mano per indicare la profonda ferita al fianco destro, i due gonfi lembi di pelle tenuti insieme da una cucitura maldestra e sangue secco tutt’attorno.

“Fammi vedere.”

Finalmente Cara parlò, cogliendo al volo l’occasione per cambiare argomento. Senza preoccuparsi troppo dei suoi lamenti, spinse le mani gelide sulla pancia del ragazzo e testò quanto il lavoro di Morgan, improvvisato con filo da sarta ed un ago bruciato con l’accendino, potesse tenere.

Una gran bella ferita, Little K avrebbe dovuto ritenersi fortunato di non essere finito a far terra per i vermi. Di nuovo passò le dita sul taglio. Era opera del Lupo dopo tutto.

Le tornò immediatamente in mente l’ultima conversazione al deposito. Avrebbe dovuto spaccargli i denti per la sua arroganza. Credeva di piacerle il pallone gonfiato. Avrebbe mai sentito qualcosa di più ridicolo?

“Lo ucciderò quel coglione.”

Concluse lui immaginandosi la scena sul soffitto e Cara sospirò tornando dritta accanto al letto. Scosse la testa, ma non sentì in bisogno di intavolare una conversazione con Little K sull’argomento. Ammazzarlo era una soddisfazione che spettava a lei, a lei soltanto. Senza degnare il gemello d’ulteriore nota indirizzò i passi stanchi verso il bagno

“Dove vai adesso?”

Si lamentò Little K ancora una volta, allungando il labbro inferiore come un bambino. Cara tirò dritto verso la sua meta.

 

//////////

 

“Ti prego! Ti prego basta! Pagherò! Giuro che pagherò!”

Ormai dalla sua bocca veniva fuori una soluzione continua di suppliche e promesse, impastate tra saliva, sudore, lacrime e paura. Era diventato difficile capire cosa stesse dicendo, ma comunque a Joseph non importava più. Se si fosse fermato in quell’istante, il magro signore dalla pelle olivastra e dalla barba incolta, avrebbe di certo tirato fuori dalla cassa il doppio dei soldi pur di salvarsi la pelle. Tuttavia al Lupo non interessava portare a casa quei quattromila dollari, lui era lì per un solo motivo, tornare a godersi la magia di una morte qualsiasi. Per questo motivo era nel retro di quel negozio da quasi un’ora, godendosi l’attrito tra la punta del suo pugnale e la pelle di Moreau.

“Ti supplico… Ho dei figli… Dei nipoti…”

Ora stava piangendo, cosa che un uomo non dovrebbe mai fare. Giusto Joseph? Poco importa che tua madre sia morta da un giorno all’altro o che le uniche due persone a cui tieni davvero si stiano trasformando sempre più nel padre che odi. Poco importa che tu di figli non ne avrai mai, tanto meno nipoti. E come potresti? Serve una donna per quello, servono amore, rispetto, pazienza, responsabilità. Quale donna al mondo potrebbe mai amare un mostro come te? Quale donna potrebbe mai capire?

L’immagine di Cara gli passò davanti agli occhi come un flash. Sociopatica, sola, arrabbiata. Disperata.

Scosse la testa ed ammazzò quel pensiero, senza nemmeno rendersi conto che nello stesso istante aveva spinto il coltello dritto nel petto dell’uomo dinanzi a lui. Lo sfortunato inadempiente Moreau gli boccheggiava davanti, cercando di afferrare le ultime gocce d’ossigeno della sua esistenza. Joseph mollò la presa e fece un passo indietro restando a guardare.

Quello era il momento, l’unico istante in cui finalmente aveva il controllo. Poteva decidere se finire le sofferenze di quel disgraziato o lasciarlo in agonia fino all’ultimo. Teneva la sua vita tra le mani, la sola cosa al mondo che potesse controllare.

Tutto il resto gli scorreva attorno senza poter essere fermato, William per primo. Eppure, anche se un benaugurato giorno il capofamiglia si fosse tolto di mezzo, ci sarebbero comunque stati i suoi fratelli. Non avrebbe mai abbandonato Elia, senza il suo continuo cinismo e le iniezioni di buonsenso sarebbe potuto diventare uno zerbino al servizio di Katrina in men che non si dica… Per non parlare di Nathaniel, la sua mancanza di limiti e congenita immaturità gli avrebbero riservato nulla più che il posto d’onore in un penitenziario di massima sicurezza.

Moreau rantolò un’ultima volta e venne giù, sbattendo il viso sul pavimento polveroso. Joseph sospirò quasi deluso, preso dai suoi mille pensieri si era perso il momento migliore, l’esatto istante in cui la vita abbandona il corpo e sparisce in un gelido soffio. Guardò dall’alto la sua ultima vittima e quasi sbuffò, ripulire la scena è senza dubbio la parte più noiosa. Si abbassò sulle ginocchia e rivoltò il corpo del povero cristo, imbrattando le proprie mani nel denso liquido carminio.

Era già sul punto di trascinarlo via quando il suo telefono prese a squillare. Lasciò andare le gambe molli del cadavere e si pulì le mani sulla maglietta senza troppe cerimonie. Sul display lampeggiava un ID sconosciuto.

“Pronto?”

Esordì con tono minaccioso, non era certo un buon momento per importunarlo.

“Fratello.”

Joseph raddrizzò la schiena

“Elia. Dove sei? Stai bene?”

Elia inspirò guardandosi attorno, al centro di quella grande stanza con le tende di velluto rosso ed il camino acceso.

“Sto bene.”

“Dove sei?”

“Nella Grand Suite di un hotel a cinque stelle.”

Joseph aggrottò le sopracciglia

“Di che diavolo stai parlando?”

Elia passò la mano libera sul collo della giacca e rivolse lo sguardo alla porta, attirato dal chiaro rumore di un’altra presenza in arrivo

“Il caro Vladijmir mi ha offerto la sua ospitalità.”

Rispose, celando il chiaro sarcasmo con tono sereno, pur potendo immaginare l’espressione nervosa e contrariata del fratello

“Mi prendi in giro? Se quel bastardo ti…”

“Sto bene Joseph…”

Lo interruppe l’altro con decisione

“…Io e Pushkin abbiamo delle cose da chiarire. Farò ritorno presto.”

Tra quelle tre parole Katrina comparve sulla soglia dell’attico, il viso lindo e le curve del suo corpo opportunamente nascoste sotto un abito di cotone bordeaux. A dispetto dell’apparenza pulita, la sua espressione restava un misto di sfida, seduzione e ripugnanza. L’inganno era chiaro, nonostante i lampadari di cristallo, i tappeti orientali e l’intenso profumo di pot-pourri, quelle mura segnavano i confini di una prigione.

“Dimmi dove sei Elia. Vengo immediatamente.”

Il tono determinato non servì allo scopo. Elia interruppe la conversazione lasciando Joseph in un nuovo stato di rabbia ed inutilità. Se Moreau non fosse già morto avrebbe certo sofferto il doppio delle pene a questo punto.

 

//////////

 

Katrina avanzò in silenzio con la mano destra tesa in avanti, nella chiara attesa di vedersi restituire il telefono. Elia assecondò la richiesta.

Nel vederla voltargli le spalle e dirigersi nuovamente verso la porta non riuscì però a frenare la lingua

“Hai avuto la tua occasione.”

Katrina fermò il piede a mezz’aria e lentamente lo riportò giù, voltando il busto verso di lui. Sollevò le sopracciglia come a chiedere di spiegarsi meglio. Elia avanzò di un passo soltanto

“Potevi farmi uccidere da tuo padre, avresti comunque raggiunto metà del tuo scopo... Perché mi reggo ancora in piedi?”

Lei allineò torso e gambe rivolgendogli ora la sua piena figura. Stava resistendo all’urgenza di arricciare le labbra, il che lasciava trasparire la sua rabbia malcelata. Rimase in silenzio per un tempo difficile da calcolare.

“Perché sei scappata da me?”

Ecco, finalmente le sue labbra l’avevano chiesto.

Katrina strinse i pugni e poi abbassò gli occhi scuotendo lentamente la testa. Elia temette, nel più inverosimile dei suoi pensieri, che Pushkin le avesse tagliato la lingua per punirla. Di nuovo fece per andarsene, ma Elia insistette, pronto perfino a far crollare la sua elegante corazza per qualche minuto.

“Katrina di’ qualcosa per l’amor di dio!”

Si girò di nuovo, veloce e rigida come una colonna di marmo

“Non capirai mai!”  

“Capire che cosa?”

Lei invase il suo spazio personale in un secondo, il mento sollevato e l’espressione furiosa

“Io sono stata cresciuta per essere una regina!”

Sbottò mentre il suo viso si contorceva in un’espressione di disgusto

“Tu hai usato me come una delle tue proprietà!”

Si tese ancor di più

“Come una proprietà di tuo padre!”

Finì di urlare, lasciandolo colpito e perplesso di fronte al suo disprezzo.

“Io avrò quello che mi spetta…”

Aggiunse abbassando la voce e aggiungendo qualche centimetro di spazio tra i loro corpi

“…In un modo o nell’altro.”

Elia sentì la bocca dello stomaco serrarsi davanti alla dichiarazione del suo fallimento. Ogni pensiero, ogni dubbio, ogni rimpianto passato per la sua mente in quei due anni era reale. La donna che si era concesso di amare ricambiava i suoi sentimenti con un odio intenso quanto il suo amore. Katrina disprezzava la sua fedeltà, la sua lealtà, la sua totale devozione, ogni dote che per quasi trentaquattro anni aveva costantemente rivolto alla famiglia… E forse mai a lei.

“Che vuoi fare?”

Fu la sua nuova domanda pronunciata sottovoce, ma il tempo delle risposte era già finito. Katrina indietreggiò ulteriormente

“Arrivaci da solo.”

Concluse.

 

///////////

 

L’acqua era così calda che la sua pelle stentava a resistere, il vapore tanto intenso da impastarne il respiro, eppure Cara rimaneva sotto il getto, grattando la spugna contro la schiena nella più innaturale delle posizioni. Voleva togliere quel finto tatuaggio a tutti i costi. Era arrabbiata e nervosa per il risultato dei suoi sforzi, letteralmente incazzata per non essersi guadagnata quello stramaledetto marchio dopo ben nove anni di servizio. L’ultimo tentativo di ribaltare la situazione non era certo andato a buon fine. Quando mai le sarebbe ricapitato di avere tutti i fratelli Michaelson alla sua mercé? Mai, appunto. Poteva solo sperare che al proprio ritorno Robert riuscisse ad apprezzare lo sforzo.

Ma perché cavolo non aveva semplicemente ucciso Joseph alla prima occasione?

Joseph e il suo maledetto modo di guardarla.

Joseph e i suoi odiosi occhi azzurro cielo, in grado di spogliarla senza nemmeno toccarla.

“Barbie? Hai finito?”

Morgan batté insistentemente contro la porta chiusa

“Non ti ho portato qui per farti prosciugare l’intera riserva idrica di New Orleans!”

Cara digrignò i denti e chiuse il rubinetto in un gesto stizzito.

“Che vuoi?”

Venne fuori dalla stanza qualche minuto più tardi con i vestiti appiccicati addosso ed i capelli ancora gocciolanti.

Morgan ghignò osservandola con attenzione

“Sei sexy quando fai la maleducata.”

“Non pensarci nemmeno. Mi fai ribrezzo.”

Ribatté Cara senza filtri tra lingua e cervello. Il gemello ridacchiò

“E chi dice che non abbia già messo le mani sul tuo prezioso culetto?”

Insinuò col suo mezzo sorriso compiaciuto

“Avere un gemello identico ha i suoi lati positivi dopo tutto… Specialmente nella semi oscurità.”

Agitò le sopracciglia su e giù un paio di volte. Cara aguzzò lo sguardo in riposta

“Come mai sei così di buon umore?”

L’altro sorrise puntandole gli indici contro

“Sexy ed anche intelligente.”

“Arriva al punto Morgan.”

Gli sfilò davanti senza dargli ulteriori attenzioni e raggiunse Little K, letteralmente steso dal cocktail di birra ed antidolorifici.

Il gemello le lanciò una cartellina marrone

“Tieni.”

Cara la sfogliò velocemente tra le dita. Fotocopie di una cartella clinica o qualcosa del genere.

“Che cos’è?”

L’altro sembrò emozionarsi ulteriormente

“Non avrai mica pensato che non avessi un piano b?”

Cara esaminò le pagine ancora una volta, cercando il nome del paziente cui appartenessero.

“E chi sarebbe Amelia Fisher in tutto questo?”

Morgan si bagnò le labbra con la lingua e le si fece vicino

“Fisher era il suo nome da ragazza…”

Le indicò un punto preciso a pagina sei

“…Prima che diventasse…”

Gli occhi di Cara furono più veloci della voce di Morgan.

Amelia Michaelson.

A quel punto fu facile fare due più due e quel fascio di fotocopie divenne immensamente interessante, specialmente gli ultimi due fogli.

“Dove li hai presi?”

Lui gongolò gonfiandosi il petto

“Ho i miei mezzi bambola.”

Cara continuò a leggere avidamente, curiosa e al tempo stesso raggelata da quello che il rapporto tra le sue mani lasciava intendere.

Morgan ghignò di nuovo

“Che dici, come pensi che la prenderà il tuo amato lupo?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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