CIAO!! Ritardo, ritardassimo!
Vi chiedo di perdonarmi perché stare dietro a tutto mi è ultimamente molto
difficile.. Grazie per aver atteso e scusate se ci sarà qualche errore… se mi
metto a rileggere ancora una volta non pubblico più!
Grazie davvero!!
Martina
///////////
“Oteц.”
Elia mosse un istintivo
passo indietro, mollando lentamente la presa sul braccio di Katrina. Lei avanzò
tremolando, con gli occhi sbarrati e l’espressione di una bimba scoperta a
rubare i biscotti dal vaso sul frigo. Tutta la sua sicurezza, tutta la sua
arroganza e l’insolenza si sgretolarono all’istante, incenerite dagli occhi
scuri e pesanti di suo padre, avvolto in un cappotto nero dal colletto
sollevato. Il vento sembrava soffiargli attorno senza il coraggio di sfiorarlo.
Si gettò sulle ginocchia,
prostrata dinanzi a lui.
Elia la guardò piegarsi su
sé stessa come una foglia accartocciata, con la testa bassa ed i capelli che
sfioravano l’asfalto. Quella rapida caduta era più di quanto avesse mai visto
di sua moglie.
“Perdonami padre.”
Le uscì un filo di voce ed
Elia socchiuse le labbra. Era davvero tanto terrorizzata o semplicemente una
grande attrice?
Valdijmir abbassò lo sguardo
sulla figlia, serio e muto come una tomba. Analizzò la sua figura interamente e
si sentì disgustato dal suo aspetto volgare, dagli abiti da prostituta,
dall’uomo che si portava dietro. Mosse un solo passo, allungando la pallida
mano per sollevarle il mento. Incredibilmente riuscì a farsi più cupo di quanto
già non fosse, ulteriormente offeso dal trucco pesante sul viso della sua
bambina, educata con sforzo e pugno fermo come degna erede del suo impero, protetta
come una novizia fino all’ultimo momento.
Col dorso della mano destra
le tirò uno schiaffo in viso, tanto forte e tonante da farle perdere
l’equilibrio. Elia sobbalzò contro la propria volontà nel vederla crollare sui
palmi, ignorando totalmente il cellulare che aveva preso a vibrare nel taschino
interno della giacca.
L’atmosfera cambiò in un
solo istante. Vladijmir si avvicinò di nuovo a Katrina, stavolta sciolto nei
suoi movimenti. Si abbassò alla sua altezza ed afferrandola piano per le spalle
la sollevò per stringerla in un abbraccio. Una stretta rigida, muta, ma pur
sempre paterna.
“пpoctиtе mehя oteц.”
Lo pregò di nuovo, stavolta
nella loro lingua, ricercando un’ulteriore intimità cui, chiaramente, non erano
soliti.
“ты moя kpobь.”
Rispose lui tornando dritto
davanti alla figlia. Elia doveva ammetterlo, non era mai stato un brillante
studente di russo, ma gli arrivò chiara alle orecchie la parola “sangue”, il
liquido rosso che scorre nelle vene, che pompa nel cuore e che conserva
l’eredità degli antenati. Per persone come loro il sangue è il più forte dei
legami, un vincolo che nulla può spezzare, nemmeno l’alto tradimento.
Fu solo allora che il
magnate sovietico si rivolse a lui, dopo aver ridato a Katrina il posto che le
spettava di diritto, la sua destra.
“Sei un uomo morto Elia
Michaelson.”
Cadde il silenzio, venuto
giù col macigno di quella sentenza. A far da unico sottofondo il cupo bzzzzz
che continuava a vibrare contro il petto di Elia.
//////////
Joseph stava correndo,
sentendosi come se stesse correndo per la sua stessa vita. Più i suoi piedi
battevano sul cemento, più le sue anche ruotavano, più forte sentiva ogni segno di stanchezza e
fatica lanciato dal suo corpo. L’aria fresca gli penetrava le narici tagliando
come lame nel petto, la gola era ormai secca, ma i suoi occhi continuavano
imperterriti a seguire la sagoma saltellante di Nathaniel poco avanti a lui.
Sentiva i passi veloci del
fratello, mischiati al suono dell’aria tagliata dal suo corpo e ai lontani
rumori della città. Dietro di sé tutto sembrava arrivare più attutito. Avrebbe
voluto esser certo che Elia stesse tenendo il suo passo a poca distanza, ma
voltarsi sarebbe stata una perdita di secondi ed energie non necessaria. Tese
appena l’orecchio ricercando il tonfo secco delle scarpe toscane di Elia sul
concreto, ma riuscì a captare solamente il rapido picchiettio di passi ben più
corti e ravvicinati. Tacchi di donna, tacchi spessi e suole di gomma, non certo
gli stiletti di Katrina.
Cara.
La scena di poco prima si
ripropose nel retro dei suoi occhi. La sua materia grigia sarebbe schizzata
dappertutto non fosse stato per l’intervento della ragazzina. La precisione del colpo alla tempia non
lasciava dubbi, aveva mirato dritto con lo scopo di uccidere. Non era stato un
caso. Sì, ma perché?
Con l’irritante
consapevolezza di non saper capire, senza il tempo né la voglia di arrovellarsi
il cervello, pressoché sicuro che dopo quell’esperienza avrebbe tenuto a debita
distanza Cara Phillis e qualsiasi altra sconosciuta al mondo, Joseph cambiò
bruscamente direzione, trovando riparo tra pile di casse e pallet.
Si prese il tempo di
respirare a pieni polmoni mentre ascoltava il ticchettio farsi più vicino.
Barbie avrebbe dovuto scegliere scarpe diverse se sperava di passare inosservata. Non appena sentì che
le stava per sfilare vicino allungò il braccio, tendendo i muscoli perché le
sembrasse di impattare contro un muro di pietra.
////////////
Cara si sentiva il cuore
nelle orecchie. Le sue gambe avanzavano da sole, i suoi capelli andavano
annodandosi nel vento polveroso del deposito di Lewis. Tutto a monte. Un’altra
volta tutto da rifare. Se si fosse fermata in quel momento di certo avrebbe vomitato,
ne era sicura. Tutta la rabbia e tutta la tensione sarebbero venute dritte fuori
dal suo stomaco.
Fu come un colpo secco
contro il diaframma. All’improvviso le sembrò di perdere il fiato e la nozione
dello spazio, come se si fosse spiaccicata sull’asfalto. Un secondo prima di
chiudere gli occhi fu certa di non aver davanti niente più dell’orizzonte.
Qualcosa l’afferrò alla vita, spostando il suo peso dalla strada e
schiantandola nell’angolo più lontano di quello spazio angusto, tra casse e
scatoloni.
Tornò a respirare tirandosi
su, ignorando totalmente il dolore all’osso sacro sbattuto sul cemento.
“Non così in fretta.”
Riconobbe quella voce
all’istante, prendendosi tutto il tempo necessario per sollevare il viso.
Joseph la guardava dall’alto, gambe leggermente divaricate e l’aspetto più
stravolto che gli avesse mai visto addosso.
“Che vuoi?”
Sputò tirandosi su, mettendo
il piede sinistro avanti all’altro in un’istintiva posizione di difesa. Joseph
si mosse lentamente, avanzando a passi silenziosi e con la mascella serrata,
costretto ad abbassare il mento per tenere gli occhi alla sua altezza. Cara non
si mosse di un millimetro, aguzzando lo sguardo contro il suo. Labbra e pugni
stretti.
Non era cosa nuova la
vicinanza tra loro, fosse per strusciarsi l’uno contro l’altro o cercare di
strapparsi le carotidi a morsi. Probabilmente era questa la ragione per cui
nessuno dei due sembrava troppo sulle spine. Cara conosceva ormai a memoria le
tre rughe che si stringevano sulla fronte di lui quand’era arrabbiato e non le
facevano più alcuna paura.
“Mi hai salvato la vita.”
La ragazzina non riuscì a
trattenere un sorriso mentre abbassava il viso. Non uno vero, bensì la smorfia
di un paio di secondi, sarcastica e lievemente offensiva. Stava ridendo di lui.
Joseph strinse i pugni ancor più forte sentendo la pressione salire al cervello.
Questo era un lusso che davvero nessuno poteva permettersi.
La spinse indietro con un
gesto deciso, di nuovo contro un muro, di nuovo con poca grazia.
“L’hai fatto.”
Ribadì con un tono ben più
deciso, pronto a scattare qualora quell’irritante espressione fosse comparsa
ancora una volta.
Cara rimase seria
“Perché mai avrei dovuto?”
Quella scintilla di sdegno
nei suoi occhi gli riportò alla mente un’altra scena che avevano già vissuto.
Le sue insuperabili doti d’attrice.
“Non lo so…”
Intavolò la sua risposta
facendosi nuovamente avanti, forte della mancanza di vie d’uscita da quel buco.
“…Perché ti piaccio forse?”
Riuscì a dirlo senza
sorridere, consapevole che in un modo o nell’altro stava citando le sue stesse
parole. Rimase con gli occhi dritti in quelli di lei, aspettandosi la risata
fatale che avrebbe liberato il suo animale interiore. Cara mantenne lo sguardo
fermo, ma le sue palpebre si chiusero ed aprirono velocemente.
Tese le braccia lungo i
fianchi e piano scosse la testa
“No…”
Si sollevò sulle punte
perché gli fosse chiaro
“…E’ perché ti odio…”
Parlò tra i denti,
rimarcando quanto stesse stretta in quella perfetta circostanza
“…E sarò solamente io ad
ammazzarti.”
Joseph si accorse solo
allora del proprio respiro che andava stabilizzandosi, mentre il petto della
ragazzina si muoveva su e giù all’impazzata. Stava affondando le dita in una
ferita piuttosto fastidiosa. Si leccò le labbra muovendo gli occhi da una pupilla
all’altra, addolcì volutamente il tono
“Sai…”
Le respirò in viso
“…L’odio è quasi sempre
l’inizio di una storia d’amore.”
Cara scattò immediatamente,
piantandogli un gomito in bocca perché si rimangiasse all’istante quelle parole
assurde. Non gli avrebbe permesso di prenderla in giro come un’idiota. Se
voleva una dimostrazione dei suoi sentimenti tanto meglio.
Joseph indietreggiò per
nulla sorpreso. Erano infinitamente simili dopo tutto. La sola idea di provare una
qualche emozione scatenava in loro una specie di reazione immunitaria, mettendo
in allarme ogni cellula dell’organismo.
L’amore rende deboli, così è
stato loro insegnato.
Distruggi tutto ciò che ti
minaccia, ma ancor prima distruggi tutto ciò potresti mai amare.
Riuscì a fermare un altro
pugno prima che gli arrivasse allo zigomo, bloccando la mano di Cara nella
propria. Il codice morale gli impediva di picchiare le donne, ma stavolta
avrebbe forse potuto fare un’eccezione. Per la terza volta la scaraventò contro
il cemento con uno spintone deciso.
Lei balzò in piedi e gli
caricò contro, spingendo sulle gambe per fargli più male possibile. Joseph
intercettò il colpo e riuscì a scansare il suo piede prima che gli arrivasse
agli stinchi. La ragazzina non si stava affatto impegnando. Prendendola per il
polso e la spalla, la costrinse ad una rotazione del busto e per l’ennesima
volta la spinse all’angolo
“Troppo lenta.”
Le suggerì, bloccando il
ginocchio che mirava alle sue parti basse
“Troppo prevedibile.”
Aggiunse. Cara tornò a
guardarlo negli occhi prendendo un lungo respiro, la rabbia stava offuscando le
sue capacità. Mosse lo sguardo rendendosi conto solo in quel momento dei pochi
centimetri tra la faccia del lupo e la sua. Poco più in basso i loro corpi si
toccavano già e lei, fino a quell’istante, non se n’era accorta, come se per la
sua epidermide ed il suo subconscio fosse una cosa del tutto accettabile.
Ingoiò quel momento
“Troppo vicino.”
Ribatté trovando finalmente
la forza di spingerlo via. Un pugno nello stomaco ben assestato e riuscì a passare
dall’altro lato dello spazio, libera di fuggire verso il nulla. Joseph tuttavia
non sembrava dello stesso avviso, pochi secondi gli erano bastati per tornare
alle sue calcagna.
“Jo!”
L’urlo arrivava da di
fronte. Cara mise a fuoco ed individuò il minore dei Michaelson che si muoveva
nella loro direzione. Con la coda dell’occhio si accorse che Joseph aveva
rallentato e ne approfittò per voltare verso destra e sparire una volta per
tutte.
“Joseph! C’è una macchina che ci aspetta, corri!”
Gli suggerì Nathaniel con un
gesto della mano e lui, per qualche secondo ancora, rimase indeciso su quale
direzione seguire. Alla fine optò per il dritto e seguì suo fratello verso il
SUV scuro. Forse non l’avrebbe più vista. Forse, nella più rosea delle ipotesi,
la ragazza dell’aereo sarebbe rimasta solo un dolce ricordo amaro, una
manipolatrice bastarda che gli aveva momentaneamente incasinato il cervello.
Già, momentaneamente, poiché era più che deciso a dimenticare, sia il suo viso
che gli inaccettabili pensieri ispirati dalla sua pelle candida e dalla sua
arroganza. Cara Phillips, una psicopatica, un mix esplosivo di almeno tre
diverse personalità, tutte ugualmente incasinate: un soldato assassino al
servizio di Mancini, una bimba mai cresciuta, triste per la morte dei genitori,
un’innocente cameriera fasulla, in una vita fasulla, recitata senza arte né
parte. Una trappola, una trappola dai lunghi capelli biondi.
“Ancora dietro a quella
troia?”
Joseph si era meccanicamente
seduto sul sedile di pelle ed aveva sbattuto lo sportello, tenendosi alla
maniglia mentre l’auto partiva a tutto gas. Nathaniel lo guardava incerto,
visibilmente irritato, quasi incredulo.
“Ho un conto in sospeso con
lei.”
“Abbiamo…”
Lo corresse l’altro cercando
di guardarsi nello specchietto retrovisore
“…Taglierò la gola a lei e a
tutti gli altri, compresa la russa.”
Sottolineò mentre passava il
dito sui lividi che aveva in viso, sentendo la rabbia ribollire ulteriormente.
Joseph drizzò la schiena
“Dov’è Elia?”
Guardò dietro l’auto e
nessuno li stava seguendo. Ripensò di non aver mai visto il fratello corrergli
appresso. Un brivido lo attraversò da capo a piedi.
“Avrà preso un’altra strada.
Il vecchio ha mandato più di una macchina.”
La risposta non servì a
farlo rilassare
“Ha mandato più di una macchina.”
Ripeté tra i denti con tono
sarcastico. Ovviamente lui non ha mosso
il culo dalla sua preziosa poltrona.
“Dammi il tuo telefono.”
Si rivolse all’autista del
SUV che li stava sparando a tutta verso casa. Quello gli ubbidì senza fiatare e
Joseph compose il numero. Squilli a vuoto. Se non altro stava squillando. Spinse
di nuovo il pollice sul tastino verde. Ancora squilli a vuoto.
//////////
Elia rimase immobile. Negli
ultimi due anni della sua vita aveva sentito quelle parole almeno un centinaio di
volte. Pushkin l’aveva accusato di aver ucciso sua figlia, di averla fatta
sparire, di non aver saputo proteggerla… Perfino di averla venduta come una
schiava per riuscire ad infilare un piede nel mercato mediorientale del
petrolio. Per la prima volta non gli sarebbero servite arringhe difensive,
l’unica prova che poteva scagionarlo era lì, in piedi accanto a loro.
“Katrina è qui. In salute
nondimeno.”
Ribatté con un cenno della
mano destra a sottolinearne l’ovvietà. L’altro si leccò le labbra
“Tua famiglia rovina tutto
ciò che tocca.”
Poteva dargli torto dopo
tutto? Una madre morta e depressa, una moglie fuggita, un fratello a marcire in
galera ed altri due abbandonati a loro stessi, un padre tiranno ed un esercito
di persone asservite e terrorizzate. Tutti con lo stesso futuro segnato.
“Guardala…”
Pushkin guidò gli occhi di
Elia verso la figlia. Due sole lacrime cadute le segnavano il viso di nero, ma
lì dove Vladijmir vedeva solo immoralità e delusione, lui continuava a vedere
la bellissima donna che aveva scaldato il suo letto. Quant’era ancora chiaro
nella sua testa il ricordo di quel calore.
Com’era stato strano, seppur sorprendente, sentire quella sensazione
lottare contro l’abitudine al gelo, il freddo che aveva patito da bambino tutte
le volte che un temporale o un brutto sogno l’avevano spinto fino alla stanza
dei suoi. “Non essere codardo William. Torna
subito in camera tua!” Così diceva suo padre.
Ed Elia Michaelson non era
certo un codardo.
“…Tu hai fatto questo di mia
figlia!”
Il suo tono si era sollevato
di colpo, la sua ultima frase quasi un urlo. I preliminari erano ufficialmente
conclusi.
Del tutto inattesa la sua
discendente ruppe il proprio voto di silenzio
“No padre…”
Poggiò lenta una mano sulla
spalla del più anziano
“…Non è stato Elia.”
Pushkin la guardò senza
muovere un muscolo in viso, impietrito davanti alla figlia così apertamente
disdegnata.
“Io sono scappata.”
Concluse sottolineando il
soggetto, in attesa di un altro schiaffo meritato. Tutti gli sforzi, tutto il
mistero, un’intera guerra messa in piedi solo ed esclusivamente a causa sua.
Elia sollevò le dita, ma
solo per chiudere un bottone della giacca. Pushkin meritava l’espressione
inebetita che adesso campeggiava sul suo viso spigoloso. Chi è causa del suo
mal pianga sé stesso.
Per quale strana ragione
Katrina avesse deciso proprio in quel momento di sputare finalmente la verità? Non
voleva nemmeno chiederserlo.
////////
“Dov’è vostro fratello?”
Domandò William guardandoli
entrare nello studio con la coda dell’occhio, la sua attenzione rivolta al
distruggidocumenti che ingoiava, una alla volta, le prove dell’ultimo appalto
truccato.
“Speravamo fosse già qui.”
Rispose Nathaniel senza
aggiungere altro. William infilò un sottile foglio rosa nella fessura e rimase
a fissarlo mentre la macchina lo divorava.
“Andate a darvi una
ripulita. Puzzate come animali.”
Ordinò lasciando cadere la
questione, quasi non avesse alcuna importanza.
Joseph sbatté i palmi sulla
scrivania richiamando la sua considerazione
“Maledetto bastardo!”
Era stanco, furioso e
preoccupato, ma di sicuro non provava vergogna per il pensiero che voleva
uscirgli di bocca. Se William fosse andato al deposito ed i merli l’avessero
fatto a pezzi, lui avrebbe brindato assieme a loro col miglior champagne in
circolazione.
“Tieni a freno la lingua
Joseph…” Ribatté l’altro con tono calmo ed un’occhiata di sufficienza “…Tuo
fratello sa badare a sé stesso.”
“E’ sempre e solo colpa
tua.”
Rispose. Il tono più pacato,
ma il disprezzo sempre più evidente. Se fosse successo qualcosa ad Elia… Se
fosse successo qualcosa ad Elia mentre il suo surrogato di padre si compiaceva
del proprio riflesso nel bicchiere di bourbon, allora bhé, avrebbe fatto lui
stesso un favore ai merli, ai russi e probabilmente all’intera umanità.
“C’è Mancini dietro tutto
questo, non Pushkin.”
Nathaniel decise di
intromettersi, seppur inopportuno, cercando di contenere il fratello. Da come
pulsava freneticamente la vena della sua tempia sinistra, mancava davvero poco
perché esplodesse.
William sorrise con
apparente gusto mentre sfregava i palmi sul panciotto. Si avvicinò al minore
dei suoi figli, sangue del suo sangue, e finse d’osservare con apprensione il
grosso taglio che occupava la sua guancia
“Devi farti sistemare
figliolo…”
Con una pacca sulla spalla
lo spinse impercettibilmente verso la porta dello studio
“…Non vorrai certo rovinarti
la faccia. Sei quello che mi somiglia di più qui dentro.”
Ed era vero. I lineamenti di
Nate ricordavano in maniera evidente quelli di suo padre alla sua età e
sicuramente William godeva nel vederlo orgoglioso, ambizioso, al limite del
superbo, così come avrebbe voluto che fossero tutti i frutti dei suoi lombi.
Il minore lanciò un occhiata
non corrisposta a Joseph. Non era certo fosse una decisione saggia lasciarli
soli, ma il sottile invito di suo padre era, come sempre, nulla più che
un’imposizione. Annuendo in silenzio prese la porta.
“Quanto a noi…”
Riprese accarezzando la
folta barba che gli copriva il mento
“…Se non fossi l’incapace che
sei Joseph, sapresti che Robert si trova in Belgio in questo momento. A Mortsel
precisamente…”
Gli rivolse un sospiro di
sufficienza
“…E sapresti anche, che dopo
l’ultima volta vige tra noi un mutuo tacito accordo di rispetto. Almeno finché
gli lasceremo campo libero giù al confine.”
Un accordo? Joseph non era a
conoscenza di un simile patto e ad ogni modo non credeva nemmeno un po’ alla
buonafede dell’italoamericano. Aveva vissuto per trentadue anni accanto ad un
uomo come Mancini e proprio da William aveva imparato, suo malgrado, quanto
poco vale la parola di un capo se i termini dell’ accordo non si firmano col
sangue.
“E tu ci credi? I gemelli
Pryce erano lì e Kat…”
William tornò a dedicarsi
all’alcool per qualche istante
“Io non credo. Io so.”
Lo interruppe prima di
scuotere il capo con fare quasi giocoso. Joseph inspirò profondamente al centro
della stanza, i suoi nervi stavano per esser messi a dura prova
“La tua ingenuità è
disarmante figlio mio…”
Non passò inosservato il
modo in cui quella parola rotolava giù dalla sua lingua, solo per schernirlo
“…Davvero credi che io non
sappia tutto quello che stai per dire?”
Volò l’ennesimo sguardo di
sfida reciproca
“Ho mandato degli uomini ad
indagare, sperando che facciano un lavoro migliore del vostro.. ma posso già
assicurarti che Mancini non c’entra niente col piccolo eccesso di zelo dei suoi
leccapiedi.”
Joseph aguzzò lo sguardo
mirando ad un punto qualsiasi sulla parete opposta, non che stesse davvero
concentrandosi su quel che aveva davanti. Se Mancini non era il mandante di
quella sciarada, allora si trattava davvero di una maldestra vendetta personale
o forse sarebbe meglio dire una doppia vendetta, vista lo concomitante presenza
di Cara e Katrina. Quanto ai gemelli invece, probabilmente era bastato che
tutt’e due si sfilassero le mutandine per far loro accettare di buon grado
l’ammutinamento.
Le donne, che brutta razza!
Il commento gli venne spontaneo, cosa mai non riuscirebbe ad ottenere una donna
con un bel culo e grandi occhi blu? Proprio lui era stato il primo a cascarci
come un idiota.
“Quanto a Katrina…”
Riprese il vecchio
recuperando il suo interesse
“…Credo che William abbia ben
capito come dovrà comportarsi con lei d’ora in poi.”
D’ora in poi? D’ora in poi?!
Non erano abbastanza tutti i casini che quella troia aveva già procurato?
Pretendeva forse che Elia se la riprendesse?
Quasi fosse riuscito a
leggergli nel pensiero William senior precisò
“E la sua ricomparsa ci
toglierà finalmente Vladijmir dai piedi.”
Una lampadina si accese nel cervello
di Joseph. Ecco chi aveva mandato quei sicari al deposito, ecco la ragione per
cui, nonostante i kalashnikov alla mano, non avevano sparato. Pushkin non aveva
mai smesso di seguirli e sapeva che sua figlia era in quella stanza.
Un brivido all’adrenalina lo
mise in allarme
“Se Pushkin ha preso Elia
potrebbe…”
William lo zittì con un
cenno della mano, quasi stesse dicendo la più insignificante stupidaggine
“Come ho già detto pocanzi,
tuo fratello è in grado di badare a sé stesso.”
Quel tono indifferente fece
saltare Joseph sul posto, strinse i pugni e si rivolse a suo padre con lo
stesso sdegno dovuto al più insignificante servitore
“Se succede qualcosa ad Elia
io giuro che ti…”
William drizzò la schiena ed
arruffò le piume come un pavone irritato, gelando Joseph con una sola occhiata
“Ti consiglio di ponderare
la tua prossima scelta di parole Joseph…”
Una specie di ghigno gli
comparve in volto
“…Da che tua madre è morta
non ho più alcun obbligo verso di te, anzi… forse dovrei decidermi a
schiacciarti come l’insetto che sei.”
Il tono monocorde era una
delle armi che avevano reso William quello che era. Sembrava non provare più nulla,
in nessun momento. I suoi nemici lo trovavano terrificante. Joseph d’altra
parte, era più che abituato al suo disprezzo e sebbene non fosse riuscito a
finire la frase, l’intenzione restava la stessa. Qualora Pushkin avesse anche
solo torto un capello a suo fratello, William si sarebbe ritrovato coi suoi
stessi occhi in bocca.
Joseph allargò le braccia
“Perché sono ancora qui
allora?”
Domanda velatamente ironica,
ma a dirla tutta se l’era sinceramente chiesto parecchie volte. William sembrò
cambiare d’umore, tornando ad essere il genitore orgoglioso dei suoi soldati
col perenne ghigno in faccia
“Perché devo ammetterlo
figlio…”
Di nuovo quella parola fuori
posto, di nuovo quella cadenza. Si allontanò tornando alla scrivania dove
un’altra pila di documenti lo attendeva
“…Tu sei un artista coi
coltelli, così come tuo padre lo era coi pennelli.”
Lasciò cadere quella frase
così, tra un foglio e l’altro, come non avesse detto nulla d’importante. Joseph
si gelò all’istante, completamente travolto da emozioni contrastanti. Suo
padre, il suo vero padre, un pensiero che raramente gli attraversava il
cervello, un’ombra nella sua vita che odiava di cuore, quasi quanto il
rimpiazzo senza coscienza che ora aveva di fronte.
Il suo nome era Stig, un
pittore svedese che sua madre Amelia aveva conosciuto a Londra durante una
mostra. Una relazione proibita durata un paio di mesi, giusto il tempo
necessario per mettere in cantiere la sua inutile esistenza. Detestava William
per averlo ucciso a sangue freddo dopo l’infausta scoperta, ma ancor più
disprezzava quell’altro per non aver lottato, per non averli portati via da
Londra e dai maledetti Michaelson. Forse semplicemente non gli importava nulla
di sua madre, tantomeno di lui.
Eccola di nuovo, quella
terribile rabbia che gli caricava dentro e gli formicolava nelle mani. William
non si lasciò sfuggire la scintilla nei suoi occhi, fiero di essere
perfettamente riuscito nell’intento desiderato. Piegò un foglio tra le dita e
se lo infilò nel taschino della giacca
“A proposito di coltelli…
Dick Moreau, sulla Orchard Road.. Non ha pagato questo mese.”
Joseph annuì benché
sembrasse totalmente calato in altri pensieri. Uccidere Moreau o chiunque
altro, solo questo gli serviva adesso. Dopo tutto lui era il Lupo e come tale
doveva tornare a comportarsi.
Si sentì una mano poggiata
sulla spalla
“Fa’ questo favore al tuo
vecchio e poi va’ pure a cercare Elia se vuoi.”
A scopo raggiunto il tono di
William si era ingentilito e sul suo viso campeggiava un mezzo sorriso di
soddisfazione.
/////////
Cara entrò nella stanza 7b
del motel François nettamente in ritardo e visibilmente stremata. Neanche
s’aspettava che dopo quell’epico fallimento Morgan le facesse recapitare un
messaggio per dirle dove s’erano nascosti. Tra i merli solitamente non funziona
così, se uno resta indietro gli altri se ne fregano alla grande.
La camera puzzava di vecchio
e di stantio, mentre le pareti a righe avranno avuto almeno quarant’anni, se
non altro a giudicare dagli strappi della tappezzeria. L’arredamento nel
complesso non era male, soprattutto il tavolino shabby-chic che faceva bella
mostra delle sue gambe storte accanto al minifrigo degli anni ’80.
Era riuscita a sentire i
lamenti di Little K già fuori dalla porta e adesso eccolo lì, con le gambe
stese e la schiena poggiata alla testiera del letto, sudato fradicio e con un
asciugamano insanguinato spinto contro il fianco.
“Quel figlio di puttana mi ha accoltellato!”
Precisò davanti allo sguardo
perplesso di Cara. Morgan li raggiunse poggiando una mano sulla spalle di lei e
porgendo al fratello una birra gelata.
“Non preoccuparti. L’ho già
rattoppato per bene… E tu smettila di lamentarti come una femminuccia!”
Preoccuparsi? Non si sarebbe
certo strappata i capelli se Little K avesse perso un rene o un paio dei suoi
sette metri d’intestino.
“Vieni qui Barbie...”
Il gemello ferito richiamò
la sua attenzione e Cara, senza ancor dire una parola, si avvicinò al letto.
Little K allungò una mano umidiccia e cercò la sua, stringendola come nel più
naturale dei gesti. Gli occhi di Cara caddero dritti su quell’unione di dita e
a stento trattenne il bisogno di ritirare il braccio il più in fretta
possibile. Certo, lui era un bel ragazzo, con grandi occhi verdi e pettorali
scolpiti, e lei c’andava a letto di tanto in tanto, ma questo non li rendeva
certo una coppia o qualcosa del genere.
“…Ho davvero bisogno di un
po’ di conforto...”
Da come aveva stressato la
parola sarebbe stato chiaro perfino ad una monaca di clausura che col termine
“conforto” non intendeva certo abbracci e carezze. Cara sollevò il sopracciglio
in un arco perfetto, la sola idea di prenderglielo in bocca in quelle
condizioni la faceva vomitare. Senza contare che non se l’era guadagnato
comunque, dato il fallimento palese del piano.
Inspirò. A pensarci bene, ultimamente
anche il solo guardarlo la faceva vomitare.
“…Me lo merito dopo quello
che mi ha fatto il tuo amico.”
Continuò a perorare la sua
causa mollandole la mano per indicare la profonda ferita al fianco destro, i
due gonfi lembi di pelle tenuti insieme da una cucitura maldestra e sangue
secco tutt’attorno.
“Fammi vedere.”
Finalmente Cara parlò,
cogliendo al volo l’occasione per cambiare argomento. Senza preoccuparsi troppo
dei suoi lamenti, spinse le mani gelide sulla pancia del ragazzo e testò quanto
il lavoro di Morgan, improvvisato con filo da sarta ed un ago bruciato con
l’accendino, potesse tenere.
Una gran bella ferita,
Little K avrebbe dovuto ritenersi fortunato di non essere finito a far terra
per i vermi. Di nuovo passò le dita sul taglio. Era opera del Lupo dopo tutto.
Le tornò immediatamente in
mente l’ultima conversazione al deposito. Avrebbe dovuto spaccargli i denti per
la sua arroganza. Credeva di piacerle il pallone gonfiato. Avrebbe mai sentito
qualcosa di più ridicolo?
“Lo ucciderò quel coglione.”
Concluse lui immaginandosi
la scena sul soffitto e Cara sospirò tornando dritta accanto al letto. Scosse
la testa, ma non sentì in bisogno di intavolare una conversazione con Little K
sull’argomento. Ammazzarlo era una soddisfazione che spettava a lei, a lei
soltanto. Senza degnare il gemello d’ulteriore nota indirizzò i passi stanchi
verso il bagno
“Dove vai adesso?”
Si lamentò Little K ancora
una volta, allungando il labbro inferiore come un bambino. Cara tirò dritto
verso la sua meta.
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“Ti prego! Ti prego basta!
Pagherò! Giuro che pagherò!”
Ormai dalla sua bocca veniva
fuori una soluzione continua di suppliche e promesse, impastate tra saliva,
sudore, lacrime e paura. Era diventato difficile capire cosa stesse dicendo, ma
comunque a Joseph non importava più. Se si fosse fermato in quell’istante, il
magro signore dalla pelle olivastra e dalla barba incolta, avrebbe di certo
tirato fuori dalla cassa il doppio dei soldi pur di salvarsi la pelle. Tuttavia
al Lupo non interessava portare a casa quei quattromila dollari, lui era lì per
un solo motivo, tornare a godersi la magia di una morte qualsiasi. Per questo
motivo era nel retro di quel negozio da quasi un’ora, godendosi l’attrito tra
la punta del suo pugnale e la pelle di Moreau.
“Ti supplico… Ho dei figli…
Dei nipoti…”
Ora stava piangendo, cosa
che un uomo non dovrebbe mai fare. Giusto Joseph? Poco importa che tua madre
sia morta da un giorno all’altro o che le uniche due persone a cui tieni
davvero si stiano trasformando sempre più nel padre che odi. Poco importa che
tu di figli non ne avrai mai, tanto meno nipoti. E come potresti? Serve una
donna per quello, servono amore, rispetto, pazienza, responsabilità. Quale
donna al mondo potrebbe mai amare un mostro come te? Quale donna potrebbe mai
capire?
L’immagine di Cara gli passò
davanti agli occhi come un flash. Sociopatica, sola, arrabbiata. Disperata.
Scosse la testa ed ammazzò
quel pensiero, senza nemmeno rendersi conto che nello stesso istante aveva
spinto il coltello dritto nel petto dell’uomo dinanzi a lui. Lo sfortunato
inadempiente Moreau gli boccheggiava davanti, cercando di afferrare le ultime
gocce d’ossigeno della sua esistenza. Joseph mollò la presa e fece un passo
indietro restando a guardare.
Quello era il momento,
l’unico istante in cui finalmente aveva il controllo. Poteva decidere se finire
le sofferenze di quel disgraziato o lasciarlo in agonia fino all’ultimo. Teneva
la sua vita tra le mani, la sola cosa al mondo che potesse controllare.
Tutto il resto gli scorreva
attorno senza poter essere fermato, William per primo. Eppure, anche se un
benaugurato giorno il capofamiglia si fosse tolto di mezzo, ci sarebbero
comunque stati i suoi fratelli. Non avrebbe mai abbandonato Elia, senza il suo continuo
cinismo e le iniezioni di buonsenso sarebbe potuto diventare uno zerbino al
servizio di Katrina in men che non si dica… Per non parlare di Nathaniel, la
sua mancanza di limiti e congenita immaturità gli avrebbero riservato nulla più
che il posto d’onore in un penitenziario di massima sicurezza.
Moreau rantolò un’ultima
volta e venne giù, sbattendo il viso sul pavimento polveroso. Joseph sospirò
quasi deluso, preso dai suoi mille pensieri si era perso il momento migliore,
l’esatto istante in cui la vita abbandona il corpo e sparisce in un gelido soffio.
Guardò dall’alto la sua ultima vittima e quasi sbuffò, ripulire la scena è
senza dubbio la parte più noiosa. Si abbassò sulle ginocchia e rivoltò il corpo
del povero cristo, imbrattando le proprie mani nel denso liquido carminio.
Era già sul punto di
trascinarlo via quando il suo telefono prese a squillare. Lasciò andare le
gambe molli del cadavere e si pulì le mani sulla maglietta senza troppe
cerimonie. Sul display lampeggiava un ID sconosciuto.
“Pronto?”
Esordì con tono minaccioso,
non era certo un buon momento per importunarlo.
“Fratello.”
Joseph raddrizzò la schiena
“Elia. Dove sei? Stai bene?”
Elia inspirò guardandosi
attorno, al centro di quella grande stanza con le tende di velluto rosso ed il camino
acceso.
“Sto bene.”
“Dove sei?”
“Nella Grand Suite di un
hotel a cinque stelle.”
Joseph aggrottò le
sopracciglia
“Di che diavolo stai
parlando?”
Elia passò la mano libera
sul collo della giacca e rivolse lo sguardo alla porta, attirato dal chiaro rumore
di un’altra presenza in arrivo
“Il caro Vladijmir mi ha
offerto la sua ospitalità.”
Rispose, celando il chiaro
sarcasmo con tono sereno, pur potendo immaginare l’espressione nervosa e
contrariata del fratello
“Mi prendi in giro? Se quel
bastardo ti…”
“Sto bene Joseph…”
Lo interruppe l’altro con
decisione
“…Io e Pushkin abbiamo delle
cose da chiarire. Farò ritorno presto.”
Tra quelle tre parole
Katrina comparve sulla soglia dell’attico, il viso lindo e le curve del suo
corpo opportunamente nascoste sotto un abito di cotone bordeaux. A dispetto
dell’apparenza pulita, la sua espressione restava un misto di sfida, seduzione
e ripugnanza. L’inganno era chiaro, nonostante i lampadari di cristallo, i
tappeti orientali e l’intenso profumo di pot-pourri, quelle mura segnavano i
confini di una prigione.
“Dimmi dove sei Elia. Vengo
immediatamente.”
Il tono determinato non
servì allo scopo. Elia interruppe la conversazione lasciando Joseph in un nuovo
stato di rabbia ed inutilità. Se Moreau non fosse già morto avrebbe certo
sofferto il doppio delle pene a questo punto.
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Katrina avanzò in silenzio
con la mano destra tesa in avanti, nella chiara attesa di vedersi restituire il
telefono. Elia assecondò la richiesta.
Nel vederla voltargli le
spalle e dirigersi nuovamente verso la porta non riuscì però a frenare la
lingua
“Hai avuto la tua
occasione.”
Katrina fermò il piede a
mezz’aria e lentamente lo riportò giù, voltando il busto verso di lui. Sollevò
le sopracciglia come a chiedere di spiegarsi meglio. Elia avanzò di un passo
soltanto
“Potevi farmi uccidere da
tuo padre, avresti comunque raggiunto metà del tuo scopo... Perché mi reggo
ancora in piedi?”
Lei allineò torso e gambe
rivolgendogli ora la sua piena figura. Stava resistendo all’urgenza di
arricciare le labbra, il che lasciava trasparire la sua rabbia malcelata.
Rimase in silenzio per un tempo difficile da calcolare.
“Perché sei scappata da me?”
Ecco, finalmente le sue
labbra l’avevano chiesto.
Katrina strinse i pugni e
poi abbassò gli occhi scuotendo lentamente la testa. Elia temette, nel più
inverosimile dei suoi pensieri, che Pushkin le avesse tagliato la lingua per
punirla. Di nuovo fece per andarsene, ma Elia insistette, pronto perfino a far
crollare la sua elegante corazza per qualche minuto.
“Katrina di’ qualcosa per
l’amor di dio!”
Si girò di nuovo, veloce e
rigida come una colonna di marmo
“Non capirai mai!”
“Capire che cosa?”
Lei invase il suo spazio
personale in un secondo, il mento sollevato e l’espressione furiosa
“Io sono stata cresciuta per
essere una regina!”
Sbottò mentre il suo viso si
contorceva in un’espressione di disgusto
“Tu hai usato me come una
delle tue proprietà!”
Si tese ancor di più
“Come una proprietà di tuo
padre!”
Finì di urlare, lasciandolo
colpito e perplesso di fronte al suo disprezzo.
“Io avrò quello che mi
spetta…”
Aggiunse abbassando la voce
e aggiungendo qualche centimetro di spazio tra i loro corpi
“…In un modo o nell’altro.”
Elia sentì la bocca dello
stomaco serrarsi davanti alla dichiarazione del suo fallimento. Ogni pensiero,
ogni dubbio, ogni rimpianto passato per la sua mente in quei due anni era
reale. La donna che si era concesso di amare ricambiava i suoi sentimenti con
un odio intenso quanto il suo amore. Katrina disprezzava la sua fedeltà, la sua
lealtà, la sua totale devozione, ogni dote che per quasi trentaquattro anni
aveva costantemente rivolto alla famiglia… E forse mai a lei.
“Che vuoi fare?”
Fu la sua nuova domanda
pronunciata sottovoce, ma il tempo delle risposte era già finito. Katrina
indietreggiò ulteriormente
“Arrivaci da solo.”
Concluse.
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L’acqua era così calda che
la sua pelle stentava a resistere, il vapore tanto intenso da impastarne il
respiro, eppure Cara rimaneva sotto il getto, grattando la spugna contro la
schiena nella più innaturale delle posizioni. Voleva togliere quel finto
tatuaggio a tutti i costi. Era arrabbiata e nervosa per il risultato dei suoi
sforzi, letteralmente incazzata per non essersi guadagnata quello stramaledetto
marchio dopo ben nove anni di servizio. L’ultimo tentativo di ribaltare la
situazione non era certo andato a buon fine. Quando mai le sarebbe ricapitato
di avere tutti i fratelli Michaelson alla sua mercé? Mai, appunto. Poteva solo
sperare che al proprio ritorno Robert riuscisse ad apprezzare lo sforzo.
Ma perché cavolo non aveva
semplicemente ucciso Joseph alla prima occasione?
Joseph e il suo maledetto
modo di guardarla.
Joseph e i suoi odiosi occhi
azzurro cielo, in grado di spogliarla senza nemmeno toccarla.
“Barbie? Hai finito?”
Morgan batté insistentemente
contro la porta chiusa
“Non ti ho portato qui per
farti prosciugare l’intera riserva idrica di New Orleans!”
Cara digrignò i denti e
chiuse il rubinetto in un gesto stizzito.
“Che vuoi?”
Venne fuori dalla stanza
qualche minuto più tardi con i vestiti appiccicati addosso ed i capelli ancora
gocciolanti.
Morgan ghignò osservandola
con attenzione
“Sei sexy quando fai la maleducata.”
“Non pensarci nemmeno. Mi
fai ribrezzo.”
Ribatté Cara senza filtri
tra lingua e cervello. Il gemello ridacchiò
“E chi dice che non abbia
già messo le mani sul tuo prezioso culetto?”
Insinuò col suo mezzo
sorriso compiaciuto
“Avere un gemello identico ha
i suoi lati positivi dopo tutto… Specialmente nella semi oscurità.”
Agitò le sopracciglia su e
giù un paio di volte. Cara aguzzò lo sguardo in riposta
“Come mai sei così di buon
umore?”
L’altro sorrise puntandole
gli indici contro
“Sexy ed anche intelligente.”
“Arriva al punto Morgan.”
Gli sfilò davanti senza
dargli ulteriori attenzioni e raggiunse Little K, letteralmente steso dal
cocktail di birra ed antidolorifici.
Il gemello le lanciò una cartellina
marrone
“Tieni.”
Cara la sfogliò velocemente
tra le dita. Fotocopie di una cartella clinica o qualcosa del genere.
“Che cos’è?”
L’altro sembrò emozionarsi
ulteriormente
“Non avrai mica pensato che
non avessi un piano b?”
Cara esaminò le pagine
ancora una volta, cercando il nome del paziente cui appartenessero.
“E chi sarebbe Amelia Fisher
in tutto questo?”
Morgan si bagnò le labbra
con la lingua e le si fece vicino
“Fisher era il suo nome da
ragazza…”
Le indicò un punto preciso a
pagina sei
“…Prima che diventasse…”
Gli occhi di Cara furono più
veloci della voce di Morgan.
Amelia Michaelson.
A quel punto fu facile fare
due più due e quel fascio di fotocopie divenne immensamente interessante,
specialmente gli ultimi due fogli.
“Dove li hai presi?”
Lui gongolò gonfiandosi il
petto
“Ho i miei mezzi bambola.”
Cara continuò a leggere
avidamente, curiosa e al tempo stesso raggelata da quello che il rapporto tra
le sue mani lasciava intendere.
Morgan ghignò di nuovo
“Che dici, come pensi che la
prenderà il tuo amato lupo?”