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Autore: Milla Chan    21/10/2013    0 recensioni
Un'allegoria introspettiva e disturbante di un'ignorante ragazza innamorata.
Vivere è oggettivamente doloroso.
Nasci piangendo e l’ossigeno di cui vivi è anche ciò che ti farà morire, dopo aver rovinato la tua pelle, usurato il tuo organismo. Ogni cosa del mondo crolla inesorabilmente a pezzi se qualcuno non si prende cura di essa.
Aveva pensato a lungo a questa questione ed era giunta ad una conclusione soddisfacente: la felicità è un malinteso.
Genere: Horror, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Ebe sapeva solo due cose riguardo a se stessa: il suo nome era da vecchia e si poteva leggere al contrario.
 
Studiare filosofia permette di imparare un sacco di cose, spesso molto più utili della matematica. Almeno per lei.
La cosa che meglio aveva capito era che la nascita è un dramma e la vita una punizione.
Ebe avrebbe davvero voluto sapere quale fosse la tanto famigerata colpa originaria, trovare chi l’avesse commessa e fargli pentire di aver fatto vivere così tante persone, perché vivere è oggettivamente doloroso.
Nasci piangendo e l’ossigeno di cui vivi è anche ciò che ti farà morire, dopo aver rovinato la tua pelle, usurato il tuo organismo. Ogni cosa del mondo crolla inesorabilmente a pezzi se qualcuno non si prende cura di essa.
Aveva pensato a lungo a questa questione ed era giunta ad una conclusione soddisfacente: la felicità è un malinteso.
Sarebbe dovuta essere la prima cosa da insegnare a scuola, ai bambini, ancora prima delle tabelline.
“La felicità è un malinteso! Ora non capite, ma da grandi tutto avrà un senso. La felicità è un malinteso. Imparatelo a memoria, bambini, e da grandi mi ringrazierete. Da adolescenti, con le vostre crisi ormonali, quando inizierete e pensare per conto vostro, vi renderete conto che questa è una grande verità. Imparate, bambini, usate la testa per immagazzinare informazioni utili, non la combinazione di tasti da premere per vincere i cattivi dei videogiochi. Diventerete grandi prima che ve ne accorgiate e vi chiederete perché state sprecando la vostra vita!”
Ecco, il discorso introduttivo della maestra il primo giorno di scuola avrebbe dovuto iniziare più o meno così. A lei non l’avevano mai detto, ma era riuscita a capirlo da sola.

Ebe era uscita da scuola e camminava verso casa guizzando con lo sguardo a destra e a sinistra, in cerca di qualcuno. I lunghi capelli ondosi le coprivano la schiena e si muovevano ad ogni passo.
Aveva qualcosa di strano, nel suo modo di fare. Sembrava che un’aura infantile avvolgesse il suo corpo minuto; qualcosa brillava avidamente sul fondo dei suoi occhi chiari, contornati dalle ciglia lunghe.
Vide un gruppetto di ragazze passarle accanto a passo veloce e ridacchiare.
Ebe smise di camminare e rimase a guardarle con la testa appena inclinata.
 
-Ehi.- la sorprese una voce dietro di lei.
Sussultò e si irrigidì.
-Che fai?-
-Guardo.- mormorò, scrollando le spalle e seguendo con gli occhi il gruppo di ragazze che svoltavano l’angolo.
-Ti piacciono?- continuò la voce, più bassa, vicino al suo orecchio.
Ebe si morse le labbra e si voltò. –Sei poco discreta.- rispose più seriamente. –Comunque non so. Mi piacciono le cose carine.-
La ragazza davanti a lei era Josephine.
Avrebbe avuto molto da dire riguardo a Josephine. Prima di tutto l’attrazione che provava per il suo nome, così esotico e melodico, per i suoi capelli spettinati che le arrivavano poco sopra le spalle.
Ebe sentiva qualcosa di strano quando parlava con lei.
A scuola le persone adoravano Ebe. Non tutti, certo, molti la trovavano un po’ eccentrica. Ma chiunque, in un modo o nell’altro, notava i suoi modi dolci e i vestiti che sembravano usciti da una casa delle bambole, i grandi fiocchi che si metteva in testa.
Però non aveva mai sentito un complimento, né una critica riguardo il suo aspetto da parte di Josephine. Questa cosa non le piaceva, non riusciva a non farci caso, si chiedeva insistentemente cosa ci fosse di sbagliato in lei per non sentirsi dire “quanto sei carina!”. Ebe aveva bisogno di questo, aveva bisogno di rimarcare quanto il suo mondo fosse grazioso, la sua vita, i suoi oggetti, i suoi capelli, i suoi occhi, tutto fosse grazioso, quanto lei fosse graziosa.
Josephine inoltre era l’esatto opposto del suo concetto di femminile e carino. La sua vista la disturbava e l’emozionava allo stesso tempo, si chiedeva come facesse a esistere davvero una donna così poco delicata.
Si domandava con insistenza perché la attraesse qualcuno che rappresentava ciò che più tentava di evitare.
 
Ebe sapeva solo due cose riguardo a se stessa: il suo nome era da vecchia e si poteva leggere al contrario.
 
Camminò ciondolando nello scantinato della sua vecchia casa e spostò con una mano il tappeto che copriva le polverose e scricchiolanti travi di legno. Aprì la botola nascosta e scese gli scalini, impaziente.
Nascosta là sotto c’era la sua piccola stanza segreta, il suo piccolo rifugio.
 
Sorrise sollevata nel vedere che tutto era ancora intatto. La sua bellissima bolla fuori dal tempo.
Il servizio da tè era ancora appoggiato sul tavolino, le due poltrone di velluto erano ancora lì, lei era ancora lì, immobile proprio dove l’aveva lasciata l’ultima volta.

Tagliò il filo rosso con la piccola forbice e appoggiò l’ago sul tavolino accanto a sé.
Arretrò di qualche passo per godersi lo spettacolo.
I bottoni rossi cuciti sulle guance stavano davvero bene, si intonavano perfettamente col sangue seccato agli angoli della bocca e sotto le orbite vuote degli occhi.
Il suo sguardo brillò di soddisfazione. Ora sapeva di essere anche un’ottima sarta.
-Oggi ho parlato con Josephine.- sospirò sognante mentre ritirava la spola di filo e gli altri attrezzi da cucito nella loro scatola di latta.
Prese il cesto di caramelle e lo appoggiò sul tavolino. Si chinò sorridente in avanti. –Adesso riempiamo gli occhi, poi ci mettiamo lo smalto sulle unghie e pettiniamo i capelli.-
Rimase per qualche attimo a guardare la figura accasciata sulla poltrona e storse la bocca, concentrandosi sulla sua espressione. –Oh, ma non devi credere di essere brutta.- pigolò rassicurante, raddrizzandole la testa con un gesto delicato della mano. –Non devi preoccuparti, sai essere molto bella, quando vuoi. Pensa che Josephine non si preoccupa di queste cose. Non so come faccia, ma sembra vivere bene ugualmente.-
La sua espressione si incupì subito dopo, ma scrollò il capo e tornò a guardare la sua interlocutrice con rinnovata dolcezza.
-Però sai, non mi ricordo più come ti chiami.- mormorò a denti stretti, premendole una caramella sul fondo dell’occhio. -Questa cosa è molto scomoda, per me, perché in qualche modo dovrò pure chiamarti, no?-
Passò la punta delle dita lungo il sangue secco sulle guance, aspettandosi una risposta ma rimanendo delusa dal suo silenzio.
-Penso che ti chiamerò Me, è breve e facile da ricordare.-
 
Non che Ebe fosse pazza!
Solo che non vedeva che Me era un cadavere, i suoi occhi non la vedevano proprio come qualcosa di orripilante e, soprattutto, morto. Ma cos’era la morte, dopotutto? Una grazia? Una punizione? E se non fosse nemmeno esistita? Ebe non era ancora riuscita a venire a capo di quella domanda.
Lei voleva solo vedere un mondo dove ogni cosa fosse al suo posto. E per “al suo posto” intendeva graziosa, proprio come quei bottoni cuciti sulle guance bianche di una ragazza morta. Le ricordava tanto una bambola.
 
Ebe sapeva solo due cose riguardo a se stessa: il suo nome era da vecchia e si poteva leggere al contrario.
 
-Sei folle.- esordì Josephine guardandola venire verso di lei.
-Cosa? Perché?- borbottò Ebe.
-Questo coso è più grande della tua testa.- rise tastandole il fiocco legato tra i capelli.
Ebe inclinò piano la testa e si incantò a guardare quegli occhi sorridenti, senza fare caso a ciò che le veniva detto. Il suo tocco era delicato e schivo, quasi non fosse abituata a quel genere di cose, o volesse davvero toccarla.
Perché le stava bene quella felpa nera? Era larga, era maschile, non era carina, non era come il suo fiocco, il suo bellissimo fiocco.
-È grazioso, no?- si limitò a sussurrare, aggiustandosi i capelli.
-Qualche giorno potremmo uscire insieme.- cambiò discorso l’altra.
Ecco, era esattamente questo questo che Ebe non capiva di lei. Cambiava discorso in continuazione, sviava ogni tentativo che faceva per cercare di capire cosa pensasse di lei. Tentennò per un secondo e sentì una forte morsa alla bocca dello stomaco.
-Va bene.- rispose, con la gola improvvisamente asciutta davanti alle sue guance che si tingevano di rosso.
 
Ebe sapeva solo due cose riguardo a se stessa: il suo nome era da vecchia e si poteva leggere al contrario.
 
Chiuse la porta di casa dietro di sé e corse nello scantinato, corse ad aprire la botola, a fuggire nella sua piccola stanza.
Aprì lo smalto singhiozzando e il mascara le colò lungo le guance.
-Oh, Me, giuro che non mi è successo nulla di male.- spiegò alla ragazza morta sulla poltrona, prendendole una mano gelida e colorandole le unghie con calma. -È che ho paura di parlare, ho paura di combinare uno di quei casini tremendi...-
Prese un respiro lungo e tremante. -Non trovi che Josephine abbia un nome davvero bello?-
Le labbra le tremarono e tentò di mantenere la mano ferma. -Molto, molto bello. Non le si addice per nulla, però. Un nome così principesco è sciupato su di lei! Avrei dovuto averlo io, quel nome. E invece no. Mi chiamo Ebe. È mai esistito un nome più brutto e scialbo di questo?-
Posò la boccetta di smalto sul tavolino con troppa enfasi e un verso acuto e infastidito. -Non posso sopportarlo, non posso sopportare lei e c’è un perché ben preciso, che però non ti dirò oggi. Non voglio fare errori nel dirlo, non voglio che tu mi fraintenda.-
Finì la frase con la voce spezzata e allungò una mano verso la scatola di fazzoletti. Singhiozzò un po’ più forte, rannicchiandosi sulla poltrona a piangere in pace.
 
Ebe sapeva solo due cose riguardo a se stessa: il suo nome era da vecchia e si poteva leggere al contrario. E, forse, la sua psiche non era del tutto stabile.
 
-Ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio, non pensi?- sospirò Josephine alla fine di un lungo discorso, sdraiandosi nel prato del parco.
Ebe era seduta accanto a lei e voltò il capo nella sua direzione con lentezza disarmante.
Non sapeva cosa ci stesse facendo lì, perché l’avesse portata in quel posto, di cosa avesse parlato fino a quel momento. Con quella frase, si era risvegliata da un lunghissimo stato di trance. Si accorse anche che le piaceva il modo in cui la stava guardando, si sentiva riempita di complimenti senza che avesse detto una parola.
Josephine guardò il suo volto teso e rise. -Non ti sto mica chiedendo di rivelarmi i tuoi segreti, non mi interessa.-
Ebe patì in silenzio le contorsioni del suo stomaco e strinse i denti. Si allisciò la gonna con la mano libera, sperando che non si stesse sporcando, a contatto con l’erba. Quale motivo c’era, per essere tanto agitata? Lei di turpi segreti non ne aveva. Il suo solo segreto era Me, ma non c’era assolutamente nulla di strano in lei.
Sentì le dita di Josephine sfiorare le sue e rimase senza fiato.
-Però mi piaci un sacco.-
 
Ebe sgranò involontariamente gli occhi. Il suo primo complimento le aveva fatto tremare il cuore e sembrava che qualcuno glielo avesse letteralmente preso tra le dita.
Fissò con insistenza il viso di Josephine.
Non andava bene, Josephine era ciò che metteva caos nel suo mondo, con i suoi modi inusuali, rovinava tutto ciò che lei stava tentando con tanta fatica di costruire.
Due parti contrapposte dentro di sé urlavano, in guerra, distruggendola e incitandola allo stesso tempo. C’era qualcosa che premeva in un punto preciso del suo corpo: la testa. Al centro della fronte, dentro il cranio. Era una strana forma di eccitazione, era mentale.
Cosa succedeva? Cosa stava...
Si congelò sentendo premere le sue labbra contro le proprie.
La pressione dentro la sua testa sembrò rompersi come il guscio di un uovo e si riversò dentro di lei, calda e morbida.
Nello stesso momento una fitta insopportabile partì dal palmo della sua mano. Si alzò in piedi e indietreggiò di pochi passi, stringendo forte le dita.
-Stai bene?- le chiese Josephine.
Lei annuì con un sorriso nervoso prima di voltarsi e andarsene senza una parola, a passo svelto.
Chinò la testa in avanti e rimase a bocca aperta vedendo il sangue sporcarle le mani, uscire da ferite che non aveva, fino a due minuti prima. Non aveva idea di come se le fosse procurate, ma la testa le girava. Chiuse i palmi e li riaprì piano, più volte, incredula. Non era un’allucinazione, bruciavano davvero, erano appiccicosi e caldi.
 
Ebe sapeva solo due cose riguardo a se stessa: il suo nome era da vecchia e si poteva leggere al contrario.
 
-Non puoi sapere cos’è successo, Me!- esclamò scendendo i gradini a grandi passi.
Salto giù e si lasciò cadere in poltrona, coprendosi il volto con le mani. -È proprio di questo che non ti volevo parlare.-
Prese un lungo respiro e dischiuse le dita per lasciare uno spiraglio per gli occhi, lasciando intravedere il volto macchiato di rosso. –Io non ho idea di cosa mi sia successo, sanguino, ma è anche così bello. Josephine mi ha baciata e, ecco, io credo che abbia aperto qualcosa in me. Ma lei è proprio la persona che non avrebbe dovuto e non dovrebbe farmi quest’effetto. È talmente... Diversa? Mi prende in giro? Fa sul serio?-
Spostò lo sguardo verso Me e le mostrò un sorriso tremante. -Sai perché sono così spaventata? Perché la felicità è un malinteso. Io lo so, lo so che mi sto mettendo in una questione più grande di me, che questo sangue non mi farà bene. Ecco, questo sangue. Queste ferite sono apparse dal nulla, sembrano grossi tagli. Eppure più passano i minuti più mi sembra di non sentirli affatto, sono inebriata, inizio a sentire l’estasi, tra poco perderò del tutto coscienza e sarò convinta di essere felice, continuerò a cadere in questo pozzo bellissimo finché non mi schianterò.-
Balzò in piedi e quasi sembrò volare, tanto era raggiante. -Perché non la sopporto? Perché mi piace da matti, mi passa l’appetito se c’è anche lei! Quindi non sopporto l’idea, mi segui? L’altra volta credo di aver detto di non sopportarla, ma in realtà ero solo stata imprecisa. Non è che non sopporti lei, no, niente affatto. Il fatto è che non sopporto l’idea di dipendere da una persona come lei. Non che non mi piaccia come tipo di persona, insomma, sì... è complicato! Lei è tutto ciò che io non sono, perché dovrei avere bisogno di lei? Però mi piace, mi piace come parla e come mi guarda, devi vedere quant’è bella quando arrossisce! E anche io mi sento bella, mi sento molto, molto di più di quanto fossi ieri!-
Prese un pasticcino dal vassoio sul tavolino e sospirò sognante mentre lo addentava. Lo riposò esattamente dove l’aveva preso, ignorando di averlo macchiato di sangue, e affondò nella poltrona con gli occhi fissi davanti a sé.
-Sono così agitata che non ho fame, anche adesso! Quando le sto vicino mi si attorciglia lo stomaco! Ha un profumo così buono e intenso e quando sorride, non so, temo davvero di impazzire.-
 
Ebe in testa aveva solo una grande confusione che si era protratta per un tempo indefinito, dilatato in una realtà troppo strana e bella per sembrare vera. Quali erano le cose che davvero sapeva? Quali quelle che non sapeva? Non credeva più al discorso che aveva fatto con Me quel giorno.
Forse si era sbagliata, la felicità non era un malinteso, era uno stato mentale, come l’ubriachezza, era solo questione di lasciarsi sciogliere e cullare dalla bellezza nascosta di ciò che la circondava. Ma ormai era stata rapita e trascinata via, affondata, con i polmoni pieni d’amore non si era davvero accorta di essere affogata. Le sue mani sanguinavano ancora, ma non sentiva niente. Josephine, invece, diceva di non vedere nulla. Forse aveva solo avuto un’allucinazione, i suoi palmi non erano realmente rossi, la sua mente le stava solamente giocando un brutto scherzo.
Quanto tempo era passato? Se un’ora fosse stata un mese, una sola giornata scolastica sarebbe bastata a contenere tutti i momenti passati con lei.
Ebe aggrottò la fronte per quel pensiero insolito, quell’immagine strana.
Il tempo era un’altra di quelle questioni alle quali non riusciva a pensare senza farsi venire mal di testa.
Le era sembrato un battito di ciglia, ma quando si fermò a pensare, sentì il peso di tutti i secondi gravarle addosso. Il tempo le stava sfuggendo di mano e c’erano ancora tante cosa da fare, da dire, da provare.
Aveva visto gli occhi di Josephine brillare guardandola e aveva sentito sulla propria pelle dei sussurri che le si erano intrufolati tra i cassetti dei ricordi, decidendo di imprimersi lì, in bella vista, con l’intenzione di rimanerci ancora a lungo.
Era sicura che avrebbe ricordato a lungo la sensazione di passare una mano tra i capelli di Josephine, sempre corti, ma abbastanza lunghi da poterci far sparire le dita.
Avrebbe ricordato tante cose, in quello stato di distacco dalla realtà e di amore, di tocchi e brividi.
Che realtà felice, che realtà incantevole! Cos’era il resto del mondo, quando aveva tutto in quei sorrisi?
Ebe credeva di aver imparato molte più cose riguardo a se stessa e alla felicità in generale. Nemmeno il suo nome le sembrava più così banale, perché suonava in modo bellissimo assieme a quello di Josephine.

Diede un’altra spazzolata ai capelli del corpo di Me, riverso sulla poltrona.
-Mi si stringe il cuore Me, perché, sai, l’ho invitata qui per oggi pomeriggio.- sospirò con un velo di rossore in volto. -Penso che le piacerai. Sei bellissima.-
Appoggiò la spazzola sul tavolino e le ornò i capelli con piccoli fiocchi, concentrata. -Sei bella e le piacerai, Me, ne sono più che sicura, lei capisce questo genere di cose.-
Il campanello suonò e Ebe sobbalzò. Prese un bel respiro e corse di sopra con il cuore che batteva forte.

La portò nello scantinato e le fece scendere le scale con gli occhi chiusi, tenendola per le mani per guidarla.
Josephine arricciò il naso a causa di un odore strano che si diffuse nell’aria quando la botola si aprì, ma Ebe era troppo impegnata a guardare il suoi tratti poco raffinati (ma belli! belli! oh, come faceva?) per accorgersene.
-Una volta hai detto di avere uno scheletro nell’armadio e ho pensato che non fosse molto diverso da una Me sulla poltrona. Ora puoi guardare.- sussurrò aiutandola a scendere gli ultimi gradini.
Josephine teneva ancora gli occhi chiusi e abbozzò un sorriso storto.
-Non capisco cosa intendi.- ridacchiò aprendo piano le palpebre.
Furono cinque secondi di gelo. Solo il tempo di capire cosa fosse quella cosa sulla poltrona. Il cervello di Josephine non sembrava riuscire a collegare. Il sorriso si congelò sul suo volto.
Indietreggiò con un verso strozzato e sbatté contro le scale di legno.
-È uno scherzo?- biascicò sconvolta.
 
Ebe spostò lo sguardo smarrito da Me a Josephine. -Cosa?-
-Hai un cadavere in cantina!-

La ragazza si coprì la bocca con una mano con un gesto involontario. -Non è un cadavere, è Me!- replicò sconvolta.
 
Josephine tentò di indietreggiare ancora e finì per salire di un gradino, esitante, in silenzio.
 
-Non devi avere paura di Me.-
-Non è di lei che ho paura.-
 
Il volto di Ebe si contrasse per un attimo in una smorfia addolorata. Cercò a tentoni la poltrona e vi si appoggiò con una mano, come se fosse necessario un appoggio per non crollare a terra.
Ogni secondo che passava in silenzio premeva contro la sua testa e sulle sue spalle, ogni attimo in cui prendeva fiato per parlare ma non emetteva suono rendeva più difficile ogni tentativo di parola.
 
-Non capisco cosa c’è che non va.- sussurrò alzando gli occhi chiari su Josephine. -Ma resta, per favore, resta, non è grave, possiamo far finta che non sia mai esistita, se ti fa piacere.-
 
-No, no, non puoi farla così facile.-
 
-Ah!-
Ebe fissò un punto indefinito con lo sguardo vacuo.
-Sì, se vuoi andare via, fallo pure. Non sono mai stata abbastanza forte per far restare nessuno.-
-Non è questione della tua forza.- sussurrò l’altra in risposta. -È che io sono in pericolo, qui.-
 
-Tu!- esclamò stringendo le mani, ma aprendole con uno scatto quando sentì un bruciore familiare e tremendo. -Tu sei in pericolo!- ripeté, e rise amaramente.
-E qual è il pericolo? Sono io? E io non sono in pericolo? Pensa che io vivo con Me!-
-Ma non è quello che intendo, come puoi non capire!-

Ebe si lasciò sprofondare nel cuscino e si ripulì dal sangue sulla poltrona, prima di portarsi le mani tra i capelli. -Pensa anche a come mi sento io. Tu non hai idea di quanto io stia bruciando in questo momento. Le mie mani sanguinano e tu non le vedi, non le hai davvero mai viste? Hanno iniziate quel giorno, in quel parco, ma poi non bruciavano più, con te. Non me ne importava, del sangue. Ma adesso vorrei che qualcuno me le tagliasse, tanto fanno male. E devi sapere, Josephine, che Me non può essere lasciata sola un secondo. Rimane lì in silenzio, ma mi riempie la testa, mi fa diventare pazza, non posso sbarazzarmi di lei, ho a che fare con lei ogni attimo, lei chiede attenzioni più di qualsiasi altra cosa in questo mondo. Io non volevo riversarle su qualcuno, le sue attenzioni, io volevo solo condividerle. Cosa devo fare, adesso? Con Me, e con il male?-

Le ultime sillabe svanirono nel nulla, nell’aria vuota che puzzava di morto, perché Josephine aveva già richiuso la botola sotto di sé.
 
In un secondo Ebe era tornata a non sapere nulla, se non che odiava l’umanità intera, tranne Josephine.
 
Davanti al portone della scuola cercò ancora il suo sguardo, ma era come se fosse trasparente.
Lei, Ebe, i suoi occhi chiari, i vestiti coi pizzi, era ancora viva? Era un fantasma? Era morta senza essersene accorta e il suo spirito vagava per il mondo?
Eppure le persone che uscivano dalla scuola cercavano di non andare a sbattere contro di lei, non le passavano di certo attraverso. Era abbastanza sicura di non essere una presenza invisibile.
Gli occhi di Josephine però non la vedevano più.
Le passavano attraverso senza guardarla, passavano oltre, andavano da tutt’altra parte, interessati ad altro.
Si sentì una figura di carta, piatta, incollata contro il muro. Una decorazione, un foglio che non occupava spazio, immeritevole di qualsiasi attenzione, sguardo, tocco.
Le gocce rosse le scivolavano tra le dita e picchiettavano a terra.
Si chiedeva come avesse fatto a non sentire prima quanto facesse male.

Ebe non sapeva nulla su ciò che la circondava e le informazioni su se stessa erano sfumate e confuse: il suo nome era davvero Ebe? Quant’era antiquato! Due vocali e una consonante che si potevano leggere anche al contrario.
E quante persone esistevano nel mondo? Aveva abbastanza risentimento per odiare gli uomini, essere misantropa, ma ne aveva a sufficienza per arrivare ad essere miscosmica? Che poi quella parola nemmeno esisteva. Tanto meglio! Aveva creato un bellissimo neologismo.
Per quanto odiasse tutti quanti, Josephine era sempre cento gradini sopra di loro.
 
-Dove.- parlò ad alta voce. Strinse le mani e sentì il bruciore scaldarla fino al cuore. -Dove metto tutte queste sensazioni, adesso?-
Si alzò e passò una mano sul tavolino, lasciando una striscia vermiglia e facendo cadere a terra gli smalti, frantumandoli.
-Non si possono mettere in un baule! Non posso riversarle ancora su di te!- quasi urlò, mentre calpestava a piedi nudi i frammenti e dava la schiena Me. -Stai marcendo troppo presto!- continuò infierendo sul miscuglio di vetro e smalto. -Non sei carina quando fai così! Nessuno mi ascolta, Me!-
Si girò verso la figura in poltrona e strinse i denti per non piangere ancora.
-Nessuno mi prende sul serio! E io cosa devo fare, adesso? Dove mi aggrappo!? Ti sembro stabile? Ti sembro forte? Brucia troppo!-
Brancolò di nuovo verso la poltrona e vi si accoccolò sopra, concentrandosi sul bruciore, causa e cura di tutti quei pensieri.
Cos’era l’amore, poi? Una svalutazione di se stessi o una sublimazione dei pensieri?
Amore e felicità sono due dei malintesi più belli e ricercati, ma rimangono sempre malintesi.
Si rese conto di odiare perfino le case, e non era una sensazione sbocciata da un giorno all’altro. Era maturata negli anni, li odiava tutti, da sempre, era solo stata troppo occupata a pensare ad altro per accorgersene. Ogni casa era stata costruita per una famiglia, una famiglia di persone più o meno felici, una famiglia tenuta insieme, secondo il senso comune, da quel tanto famigerato amore. Amore, amore, che parole orribile, che parola inflazionata, come suonava male, per nulla carina, con quelle lettere dure e sgraziate.
Sarebbe stato bello buttar giù tutte quelle case apparentemente piene d’amore.
 
-Sai Me, c’è ancora una cosa che dovevo dirti.- sussurrò svestendosi, ascoltando lo scroscio dell’acqua che riempiva la vasca. -A Josephine non starebbero mai bene le cose graziose, per nulla.-
Si immerse nell’acqua calda, tra le bolle soffici del bagnoschiuma. Reclinò il capo contro il bordo bianco e chiuse gli occhi per figurarsi meglio Me, che l’attendeva ancora nella stanza in cantina. -Rovina il mio mondo, ma non riesce a darmi fastidio, è letteralmente insopportabile. Lei è così e basta, devo solo mettermi il cuore in pace, niente fiocchi, niente colori pastello. È per questo non ho mai pensato di metterla su una poltrona affianco a Me. Non ne sarebbe felice, non le piacerebbe e non voglio che si annoi.-
L’acqua calda bruciava in modo tremendo e fece una smorfia. -Ah, mi sono pure rovinata, chissà quanto sangue ho perso.- sussurrò quasi senza aprire le labbra. -Sarebbe stato molto meglio, se fosse stato rosa. Molto più grazioso. Forse avrei anche ucciso qualcuno, pur di vederlo.-

Salire e cadere faceva indubbiamente parte della vita, ma quanto ancora avrebbe dovuto sentire quella sfera di ansia bloccarle la gola ogni volta che sapeva che l’avrebbe vista ancora, e lei non l’avrebbe notata?
Quanto ancora doveva morire un poco ogni volta che Josephine e non era con lei, ogni volta che toccava qualcun altro?
Dov’era la pace, la capacità di arrendersi, di lasciar scorrere via?
Cos’era quell’attaccamento, quell’istinto di sopravvivenza nei confronti di una sensazione che aveva semplicemente seguito il corso naturale delle cose?
Josephine rideva guardando negli occhi altre persone e Ebe non poteva non osservarla.
Sembrava che avesse solamente immaginato il tempo passato con lei e tutti gli sguardi e tutti i tocchi e tutte le parole.
Ebe, per un attimo, fu davvero in dubbio di essersi sognata tutto.

La soluzione di quella confusione era semplice da trovare, però era vaga e indefinita e ciò era il problema più consistente. Era lì a due passi, la soluzione. Ebe sapeva come fare: le sarebbe bastato allungare la mano e accantonare tutto in un angolo, o buttarlo direttamente in un cestino. Ma mancava qualcosa, dentro di sé un sentimento geloso e invidioso si rifiutava insistentemente e diceva che era sbagliato.
Sbagliato, sbagliato, sbagliato che lei lasciasse perdere tutto così, dopo tutto quello che aveva fatto, tutta l’emozione che ci aveva messo dentro.
Sapeva che non era buona cosa mettere la propria vita nelle mani di qualcuno; eppure no, ecco, avrebbe dovuto smetterla di trattare la sua anima come una tale puttana!
Non poteva essere lei, per una volta, a stare sopra a tutto? Perché doveva essere lei a stare male per gli altri? E cosa facevano, gli “altri”, nel frattempo?

Si era ferita fin dall’inizio, fin dal primo bacio, sì, proprio da sempre. Avrebbe dovuto accorgersene prima.
Come aveva fatto, come era riuscita a non sentire tutta quella sofferenza nata nel momento stesso in cui era nata anche la felicità? Lei sapeva che c’era, lo sapeva bene, doveva aspettarsela. Sapeva che prima o poi avrebbe fatto male, ma non immaginava così tanto, non credeva che avrebbe avuto l’inferno tra le mani e le fiamme in testa.
L’amore aveva alleviato il dolore generato dalla sua stessa presenza e, ora che si era frantumato, era tornato a soffocarla con il suo male.
L’amore era stato l’anestetico di se stesso, letteralmente, un inibitore di sensi.
 
Ah. Eccola, la soluzione alla confusione! Finalmente era limpida. Un lampo, un colpo di genio che sbucò in mezzo alle altre domande. La lesse con chiarezza, ma non osò allungare il braccio per afferrarla.
Ricordò i suoi pensieri e si mosse nella vasca, inaspettatamente.
Vivere è oggettivamente doloroso.
Nasci piangendo e l’ossigeno di cui vivi è anche ciò che ti farà morire, dopo aver rovinato la tua pelle, usurato il tuo organismo. Ogni cosa del mondo crolla inesorabilmente a pezzi se qualcuno non si prende cura di essa.
Aveva pensato a lungo a questa questione ed era giunta ad una conclusione soddisfacente: la felicità è un malinteso.


Basta con queste prese in giro, basta fare la bambola.
Ebe stava finalmente vedendo la tanto famigerata colpa originaria e si sentiva più adulta che mai, ma anche disperata, arrabbiata, frustrata.
Indolente, preferì lasciare che l’acqua rossa le entrasse nei polmoni.
 
   
 
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