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Autore: Edward    14/04/2008    19 recensioni
Tornò a guardare davanti a se, con una scrollata di spalle, quando qualcuno gli andò a sbattere contro, urtando la sua spalla con una forza tale che quasi lo fece cadere a terra.
Riconobbe distrattamente una testa bianca che continuava ad andare avanti, senza nemmeno girarsi per chiedere scusa, e il rosso mosse istintivamente una mano.
La strinse attorno al braccio del ragazzino, trattenendolo.
«Aspetta»
Quello si girò a guardarlo, puntando i sui occhi chiari, quasi argentati, su di lui. Attento, impassibile, totalmente preso.
[Un mondo perennemente bianco e grigio, monotono. Un'atmosfera malinconica, noiosa. Aria di pioggia, sempre.
E un ragazzino dai capelli bianchi che si infila letteralmente a forza nella sua vita.]
Genere: Generale, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allen Walker, Rabi/Lavi
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Aveva il viso completamente gelato, lo sentiva a malapena sotto il tocco delle dita altrettanto fredde

Titolo: Eternal

Serie: D.Gray-man

Personaggi: Lavi, Allen

Pairing: Lavi x Allen, implicito

Rating: Giallo

Genere: Generale, Drammatico

Avvisi: Alternative Universe, One-Shot

Note: Questa fic non è necessariamente shounen-ai, ma estremamente puccia, quindi ho messo che il rapporto Lavi Allen è implicito. Non preoccupatevi se Allen sembra un moccioso, è fatto apposta XD E’ per il fine della storia, ecco. (non so come ho fatto a resistere, avevo una voglia matta di farci la yaoi <3)

La fic è più concentrata più sul contenuto che sulla forma, me ne rendo conto, ma è questione di atmosfera, e come effetto era voluto.

E poi…basta. Aww…credo che comincerò a dedicarmi totalmente a questo genere. Puccio & Angst, che ne dite? <3

 

 

 

 

 

Eternal

 

 

 

 

 

Aveva il viso completamente gelato, lo sentiva a malapena sotto il tocco delle dita altrettanto fredde. Solo l’occhio destro, chiuso e protetto dalla benda di pelle nera, sembrava aver conservato un minimo di calore.

Nemmeno la lunga sciarpa rossa che teneva attorno al collo sembrava dargli conforto, come invece aveva fatto altre volte, lasciando passare l’aria fredda attraverso i sottili buchi della stoffa fino alla gola, tanto che dovette schiarirla con un colpo di tosse per non rischiare di perdere la voce.

Faceva freddo, quella sera, e nevicava.

Era Natale, dopotutto.

La gente camminava per strada distrattamente, velocemente, stancamente, osservando vetrine o fermandosi a parlare per strada, lasciando monetine inutili dentro pentole scure, affiancate da altrettanti Babbo Natale improvvisati.

Lavi sospirò, ficcandosi le mani gelate nelle tasche dei pantaloni, cercando di infilare la punta del naso sotto la sciarpa di lana con il solo movimento del viso, lanciando intanto occhiate attente attorno a se.

Non aveva un posto dove andare. Non uno in cui aveva voglia di tornare.

Abitava da solo in un appartamento piccolo e spoglio, che non riteneva adatto per la notte di Natale.

Scosse la testa al pensiero, inspirando profondamente, per poi riprendere a camminare.

Era finito vicino alla periferia della città. Le luci ad intermittenza erano più opache, quasi spente, i rumori e i suoni attutiti da un lieve vento che sembrava non voler arrivare fino a lì.

Ci fu un urlo, e Lavi guardò dietro di se, lanciando un’occhiata annoiata ad un gruppo di tre uomini che gridava e rideva, abbracciandosi per sorreggersi a vicenda. Lì vicino, un bambino li fissava, sorridendo a modo suo da dietro una mascherina bianca che portava davanti alla bocca.

Tornò a guardare davanti a se, con una scrollata di spalle, quando qualcuno gli andò a sbattere contro, urtando la sua spalla con una forza tale che quasi lo fece cadere a terra.

Riconobbe distrattamente una testa bianca che continuava ad andare avanti, senza nemmeno girarsi per chiedere scusa, e il rosso mosse istintivamente una mano.

La strinse attorno al braccio del ragazzino, trattenendolo.

«Aspetta»

Quello si girò a guardarlo, puntando i sui occhi chiari, quasi argentati, su di lui. Attento, impassibile, totalmente preso. Poi seguì con lo sguardo quello di Lavi, che puntava ai suoi piedi, accigliato.

«…dove sono le tue scarpe?»

Il ragazzino scosse piano la testa, senza cambiare espressione. Sembrava curioso, eppure un po’ diffidente.

«Le hai perse?»

Le ciocche bianche ondeggiarono ancora una volta.

«Te le hanno rubate?»

Si fermò, poi annuì lentamente.

Lavi lo lasciò andare, passandosi una mano tra i capelli. «Sai parlare?»

Sorrise.

Il ragazzino sorrise, annuendo ancora. Però non rispose, voltandosi un attimo a fissare delle persone che camminavano poco lontano. Curioso, ancora una volta.

«...hai un posto dove andare?»

Scosse la testa, frettolosamente, corrucciando per la prima volta lo sguardo, come se l’altro avesse detto un’assurdità.

Lavi sospirò, ancora una volta, non sapendo che fare. La mezzanotte era passata da poco, l’unico posto in cui avrebbe potuto portare il ragazzino era la centrale di polizia distante un paio di isolati.

Fissò per un attimo gli occhi grandi e limpidi del più piccolo, che sembravano quasi in attesa.

«Ti va di venire a casa mia?»

Quello annuì, stringendosi nella giacca chiara che portava, sorridendo.

 

 

Camminavano da un po’ di tempo ormai, fianco a fianco, senza aver detto una parola. Ogni tanto Lavi lanciava occhiate preoccupate e perplesse al ragazzino, che invece si guardava attorno curioso, sembrando analizzare, osservare, imparare. Un paio di volte era rabbrividito alle folate di vento più forti, starnutendo un attimo dopo, scuotendo la testa come un cane bagnato per far tornare i capelli al proprio posto, riprendendo ancora una volta a guardarsi in giro.

«Tieni» borbottò il rosso prima di lasciar cadere la sciarpa scura sopra la testa del più piccolo. Poi si alzò il colletto delle giacca e tirò su col naso, già sentendo la differenza di temperatura, rabbrividendo.

«Ci siamo quasi» disse ad alta voce, più rivolto a se stesso che all’altro.  Che comunque annuì, puntando lo sguardo su di lui, serio.

«Grazie» disse.

«Prego» borbottò Lavi distrattamente. Poi realizzò e si voltò a guardarlo di scatto, sorpreso. Sorrise, sentendosi stranamente felice – gli sembrava di aver superato chissà quale enorme prova – ripentendo ancora, con più convinzione, la sua risposta. «Prego»

 

 

Gli porse una ciotola di ramen appena scaldato, sedendosi poi di fronte, prendendo il proprio piatto e cominciando a mangiare. Il ragazzino guardò lui, poi il cibo. Il suo stomaco brontolò e lui prese a saggiare la pasta, lentamente.

Lavi gli aveva chiesto il nome, poco prima. Eppure l’altro non aveva voluto rispondere.

Sapeva parlare, da quando aveva potuto sentire, non era questione di comprensione il problema. Non sembrava giapponese, ma dopotutto neanche lui lo era, e se la cava abbastanza bene con la lingua.

«Mi dici il tuo nome?» piegò la schiena in avanti a infilare il viso nella traiettoria degli occhi del ragazzino, che colto alla sprovvista si ritirò. «Per favore?»

L’altro non disse nulla, abbassando lo sguardo.

«Non lo sai?»

«Avevo un foglietto, prima» rispose facendo spallucce il più piccolo, ficcandosi poi una mano in tasca, tirando fuori un pezzetto di carta bagnata, porgendoglielo. Quando il rosso lo prese in mano, riprese a mangiare.

Lavi fece una smorfia, cercando di decifrare la scrittura. Che poi scrittura non era. C’erano solo segni confusi e righe, trattini e punti.

Solo una parola, appena leggibile e dall’inchiostro sbavato, spiccava timidamente in mezzo a quella confusione.

«…d’accordo. Allengli porse nuovamente il foglio, e il ragazzino che aveva appena trovato un nome lo ripose con noncuranza nella tasca, dove lo aveva preso un attimo prima. Poi alzò lo sguardo, e sgranò gli occhi, per la prima volta veramente sorpreso.

«Io sono Lavi»

Gli stava tendendo la mano con un sorriso.

«Piacere.»

«…piacere» rispose l’altro con lieve sorriso spiazzato.

Lavi sorrise ancora, riprendendo a mangiare stranamente gongolante.

 

 

«Allora…» Il più grande guardò vagamente perplesso il divano rosso che aveva davanti, poi un angolo del letto che intravedeva poco lontano, nella propria stanza da letto. « Beh, non credo ci sia molto da fare…» decretò con un sospiro secco, passandosi una mano tra i capelli. «Io qui, tu di là.»

Allen rimase un attimo fermo a fissare a sua volta il piccolo e stretto e scomodo divano su cui avrebbe dovuto dormire Lavi. Scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli come poco prima. «Starai scomodo.»

«Aw, no, ti prego» si lagnò l’altro. «E’ un classico: tu dormi di là, io dormo qui. Non esiste che ti faccio dormire su questo coso»

«Ma...se stiamo tutti e due di là starai più largo.» provò a replicare il più piccolo.

«Allen, davvero.»

«Ma…»

«Aaalleeeen…» cantilenò il rosso con un sorriso, poggiandogli le mani sulle spalle per spingerlo verso la stanza. «Buonanotte.»

L’altro non rispose, ancora corrucciato.

Lavi sospirò e tornò nella saletta, lasciandosi cadere a peso morto sul divano con uno sbuffo sconfortato.

«Che diavolo sto facendo…» borbottò contro un cuscino prima di sporgere un braccio oltre lo schienale, tastando con le dita la parete fino a trovare un piccolo interruttore. Lo premette, e tutto si fece buio.

 

 

Dovevano essere le tre, le quattro.

Comunque non troppo presto – o tardi – perché era ancora tutto scuro, troppo buio per poter essere anche solo l’alba.

Sentì un peso contro la schiena, un calore piacevole, e piano piano aprì l’occhio sinistro, ancora appannato dal sonno.

Vide un piccola figura alzare le braccia sopra la sua testa, facendo svolazzare una coperta forse troppo pesante per lui, poggiandogliela sulle spalle. Poi la sollevò di poco e ci si infilò sotto, cercando di fare meno movimenti possibili, premendo lentamente le spalle contro il petto del rosso, raggomitolandosi in quel piccolo spazio che si era creato quando Lavi si era girato sul fianco prima di addormentarsi.

Quello, quando si rese conto che la piccola figura non era altri che il ragazzino che aveva trovato poche ora prima, mugugnò contrariato.

«Allen…»

Il più piccolo si fermò, ma non disse niente. Forse sperava che si riaddormentasse, ma quando la mano stanca dell’altro gli circondò il polso dovette ricredersi.

«Torna a letto…»

«Vieni anche tu» bisbigliò lui, trattenendo il respiro per ascoltare la risposta.

«…hai paura…?» chiese distrattamente Lavi, strusciando il viso contro il cuscino, cercando di scacciare via il sonno.

«Fammi stare qui, allora» continuò il ragazzino, tentando nuovamente di infilarsi tra le braccia del ragazzo, che troppo stanco e non troppo motivato lo lasciò fare, muovendosi appena per fargli posto. Poi poggiò la testa contro lo schienale del divano, sospirando.

Allen fece lo stesso, contro il suo braccio, stringendosi le ginocchia contro il petto come poteva. Da quel momento in poi, finalmente, riuscì a dormire.

 

 

*

 

 

Inarcò la schiena all’indietro, lasciandosi sfuggire un mugugnò incontrollato, stanco, e il getto di acqua calda gli fini dritto sul petto, sulla gola, facendolo rabbrividire per l’improvviso cambiamento.

Poi la piegò in avanti, sentendosi scricchiolare pericolosamente alcune ossa, e l’acqua gli bagnò la testa, i capelli, scivolando lungo la fronte, la guancia, l’occhio destro e il profilo del viso.

Sospirò, poggiando le mani contro la parete, quasi spingendo.

Sentì la porta del bagno aprirsi, con un cigolio fastidioso, e poi richiudersi con una piccola botta.

«Allen?»

Si girò appena e lo vide muoversi, come un’ombra scura dietro la tenda della doccia, e sedersi per terra, vicino all’entrata. «Tutto bene?»

«Ci mettevi tanto» si giustificò quello, forse arricciando le labbra e gonfiando le guance, perché la voce arrivò stranamente soffocata.

Lavi sorrise, mentre scuoteva la testa, allungando poi una mano oltre la vasca, serrando le dita attorno ad un asciugamano bianco, su cui spiccava il nero della benda, per poi portarli entrambi dietro la tenda.

Allen intanto osservava, accigliato, quei movimenti.

«Non te la levi mai?»

Un grattare secco e un po’ cigolante interruppe lo scorrere dell’acqua. «Solo se devo»

«Posso vederlo?»

«…perché?» La tenda fu spostata, lentamente, rivelando l’espressione divertita dal rosso. «C’è una brutta cicatrice, sai?»

Non portava la benda. Quella la teneva stretta in una mano, serrata quasi convulsamente, ma c’era pur sempre un ciuffo di capelli che gli copriva parte del viso.

«Posso vederlo?» ripetè il più piccolo, marcando appena la frase con un tono curioso che non riuscì a nascondere.

«E’ una cosa brutta, bruttissima» insistette invece l’altro, andandogli vicino, con circospezione.

«Posso vederlo?»

Lavi rise, incredulo. Gli si accovacciò di fronte, poggiando un gomito sul ginocchio per non perdere l’equilibrio, poi si passò una mano tra i capelli ancora bagnati, rivelando con un sorriso l’occhio destro.

Un po’ nervoso.

Allen sbattè le palpebra un paio di volte, forse sorpreso, tendendo una mano pallida verso la nuova scoperta. Poi la ritirò, come se si fosse scottato, eppure non l’aveva nemmeno sfiorato.

Fece invece un sorriso, quasi gongolante anche se un po’ timido, e si alzò in piedi, seguito un attimo dopo dal più grande.

«Tutto qui?» chiese sorpreso il rosso, scrollando appena la testa, e i capelli scesero di nuovo davanti al viso.

«Tutto qui» confermò il ragazzino, continuando a sorridere.

Lavi corrucciò lo sguardo, non del tutto convinto, sorpreso da quella strana reazione.

Ma non riuscì a replicare nient’altro, perché il più piccolo si voltò e uscì velocemente dalla porta, sparendo in un attimo.

«Preparo da mangiare!» lo sentì gridare.

 

 

 

Allen mangiucchiava concentrato la sua porzione di mitarashi dango da qualcosa come dieci minuti, fissando davanti a se con pacata indifferenza. Però ogni tanto lanciava delle occhiate al rosso, seduto davanti a lui, che a mangiare non ci aveva neanche provato.

«Non ricordi niente?»

Scosse la testa, senza alzare lo sguardo. Non si sentiva in colpa, dopotutto non era colpa sua, ma lo stupore dell’altro lo metteva a disagio.

«Niente di niente?»

Sembrò pensarci, lasciando perdere per un attimo l’ultima polpetta, alzando gli occhi verso il soffitto, forse per immaginarsi o ricordare chissà cosa.

«C’era un uomo» disse dopo un po’, tornando a mangiare.

«Che uomo?»

«Non ricordo» rispose facendo spallucce. «Ma credo mi abbia fatto questa»

Lavi arricciò le labbra, seguendo con lo sguardo la mano del ragazzino che si posava davanti all’occhio sinistro. E vide la sua smorfia, un po’ amara, che gli aveva già visto fare altre volte, proprio quando si toccava quella sottile cicatrice che gli segnava la parte sinistra del viso.

«Ti fa male?»

Allen scosse la testa, coprendosi anche l’altro occhio con le dita della mano, sospirando. Fece un grosso respiro, tirando su con il naso – ma non stava piangendo, sembra più un gesto di stizza – e quindi tornò a fissare davanti a se, con un sorriso cordiale.

«Vado a prendere altri mitarashi dango.»

E si alzò dalla sedia senza attendere una risposta.

 

 

*

 

 

Il mattino del giorno dopo, Lavi lo trovò sdraiato sopra di se, con la testa poggiata sopra il suo petto, mentre le braccia erano raccolte vicino al viso, con le mani che premevano leggermente contro il mento.

Perplesso, cercò di riordinare le idee.

Era convinto di averlo portato di nuovo nel suo letto proprio quella notte.

Sospirò, cercando di non svegliarlo.

Evidentemente, Allen era tornato nuovamente da lui e dal suo scomodo divano, ancora una volta.

 


*

 

 

Lavi si sedette con uno sbuffo sconfortato, sdraiandosi, in pratica, sulla panca di legno che avrebbe dovuto come minimo ospitare quattro persone.

Un ragazzo lo raggiunse, pochi minuti dopo, sedendosi dalla parte opposta, scrutandolo con aria infastidita.

«Niente?»

«Niente» rispose il rosso, con voce lamentosa, quasi da sotto il tavolo. Poi si tirò su a sedere, lentamente, sbadigliando. «Nessuno l’ha visto, nessuno cerca ragazzini con i capelli bianchi e cicatrici sul viso» si portò una mano davanti alla bocca, poi lanciò un’occhiata tranquilla al ragazzo che lo osservava ancora così severamente. «Ne, Yu, non è che mi offriresti qualcosa da mangiare?»

Kanda non ebbe neanche il tempo di precisare che lui non era Yu, quando un piatto si posò rumorosamente davanti agli occhi di Lavi, che alzò subito lo sguardo verso il cameriere che li aveva appena serviti.

«Ciao Allen-chan»

«Ciao» rispose con un sorriso quello.

«Ehi» si intromise il giapponese «Non è qui come cliente, evita di servirlo senza nemmeno chiedere il permesso»

«Bla bla bla» gli fece il verso il ragazzino, e il rosso scoppiò a ridere, cercando però di soffocarsi da solo con il cibo quando l’altro ragazzo lo fulminò con lo sguardo.

Allen fece la linguaccia e se ne andò, andando a salutare allegramente una coppia che era appena entrata nella tavola calda.

«Scusalo Yu, lo sai com’è fatto.»

«Insegnagli un minimo di decenza, diamine» borbottò seccato Kanda «Dopo tre mesi un po’ di rispetto avrebbe potuto anche impararlo»

 

*

 

 

La terza notte dal loro primo incontro, quando lo sentì avvicinarsi furtivamente verso di lui, infilarsi sotto le coperte e respirare sulla sua spalla, il rosso gemette, stancamente, circondando con un braccio la vita del più piccolo, che cercò di protestare, scusandosi, un po’ strepitando, incolpandolo di non essere un buon padrone di casa. Ma alla fine si arrese, lasciandosi trasportare come la sera prima nel letto della camera affianco.

Poi Lavi lo fece scivolare sul materasso, scoprì la coperte, ci si infilò sotto con lui e riprese a dormire.

 

 

*

 

 

Erano passati altri cinque mesi.

Nessuno, niente.

Allen sembrava essere apparso dal nulla.

Lavi da una parte se ne rammaricava, dall’altra sperava di poter restare ancora un po’ con quel ragazzino che piano piano si stava abituando al mondo che lo circondava.

Però, dopotutto, sapeva che alla fine non sarebbe durata.

Nulla durava.

Si perdeva nel tempo, nelle parole e nei ricordi.

La storia continuava, con o senza spettatori.

 

 

*

 

 

Si era fermato ancora una volta alla tavola calda, per dare un saluto a Kanda e Allen – ultimamente sembravano litigare più del solito, forse proprio perché il più piccolo aveva cominciato a ricordare insulti abbastanza creativi o azzeccati – ma quando si era seduto al solito tavolo non aveva trovato nessuno dei due ad accoglierlo.

Aveva però intravisto un uomo, che usciva proprio mentre lui apriva la porta del locale, che gli sembrò familiare. Quello non si accorse del suo sguardo accigliato, forse perplesso, e continuò a camminare, infilandosi una mano infreddolita nella tasca dei pantaloni scuri,  mentre si passava l’altra tra i capelli neri, cercando invano di farli restare su. Gli sarebbe servito un cappello, forse.

 


*

 

 

Era notte.

Una di quelle calde e pesanti notti d’agosto che ricordava sempre con una punta di terrore.

Sentì Allen muoversi, accanto a lui, scendendo silenziosamente dal letto. Aprì piano l’occhio, ancora mezzo addormentato, senza capire.

Borbottò il suo nome, stancamente, tendendo una mano per invitarlo a tornare sotto le lenzuola sottili, con un gesto delle dita.

Ma quello sussurrò qualcosa, infilandosi dei pantaloncini buttati per terra, e sparì oltre la porta.

Ci fu un rumore, che Lavi riconobbe come quello di uno sportello che sbatteva, poi una scalpiccio frettoloso di passi e infine quello secco di un interruttore che si abbassava.

«Ahi…» si lamentò il rosso, nascondendo il viso dietro un braccio «Allen…ti odio…»

Quello fece una mezza risata, salendo nuovamente sul letto, costringendolo a guardarlo.

«Lavi» lo chiamò a bassa voce. «Lavi!»

«Che c’è…sono sveglio…»

Qualcosa gli premeva insistentemente sulla testa, crepitando ad ogni suo minimo movimento. «Lavi! Dai, guarda!»

Lavi aprì l’occhio, di nuovo, arricciando le labbra stizzito.

Poi si portò una mano sul capo, ritrovandosi a toccare le mani fredde di Allen che stringevano qualcosa, della carta. Un pacchetto, forse.

«Mh..?»

Guardò distrattamente l’orologio digitale posato sul comodino. La mezzanotte era passata da poco. Scrutò il sorriso del più piccolo e l’involucro che teneva fra le mani.

«…oh»

Allen ritirò le mani, torcendosele distrattamente, senza più dire nulla. Allora il rosso accennò un sorriso, seppur perplesso e un po’ imbarazzato, mettendosi a sedere a sua volta, incrociando le gambe per poggiare il regalo tra di esse.

«Vediamo…» borbottò distrattamente, sotto lo sguardo attendo del ragazzino, cominciando a scartare il pacchetto.

«…oh» disse nuovamente. Poi, dopo un attimo di esitazione, riprese a strappare la carta, facendo più attenzione, cercando con lo sguardo il titolo del vecchio libro che aveva intravisto, sospirando rassegnato quando lo riconobbe.

«Allen…» alzò la testa per guardarlo, sorridendo debolmente «Deve esserti costato un sacco…»

«Lo guardavi in libreria» fece spallucce l’altro, rispondendo al sorriso con uno più entusiasta.

«Ma…»

«Ti piace?»

Lavi annuì, ridacchiando. «Lo volevo da mesi»

Allen annuì a sua volta, sorridendo, poi strinse le dita attorno al bordo delle lenzuola e si infilò di nuovo sotto, agitandosi un po’ prima di riuscita a sistemarsi, chiudendo gli occhi e poggiando poi la testa vicino alle gambe dell’altro.

Che lo guardò perplesso, senza capire. «Non spegni la luce?»

Il più piccolo scosse la testa, rimanendo in silenzio.

Lavi allora guardò il libro, la luce accesa e l’espressione rilassata del ragazzo.

Sospirò, sorridendo, e si mise a leggere.

 

 

*

 

 

«Ho una voglia matta di vedere com’è vestito Yu» chiocciò Lavi dopo un po’, rigirandosi tra i denti un dolcetto a forma di zucca che stava mangiucchiando da qualche minuto.

«Non credo che uscirà dalle cucine, per questa sera.» rispose Allen, seduto di fronte a lui, con una scrollata di spalle. «Ha detto qualcosa riguardo la dignità, ma non ne sono sicuro. Bah»

Il più grande ridacchiò, di nuovo, lanciando uno sguardo agli altri tavoli e ai camerieri, alla ricerca del giapponese. «Da cosa si è vestito?» chiese con ghignò.

«Non so.» fece spallucce nuovamente l’altro, tendendo una mano per prendere una cannuccia caramellata dal piatto del rosso.

«Oooh, peccato. Vorrei tanto vederlo…ehi capo!» Lavi si alzò in piedi, sporgendo oltre il tavolo per attirare l’attenzione del proprietario del locale. «Ci mandi Yu-chan?»

«Non sono mica un pupazzo, stupido. Nessuno mi manda da nessuna parte.»

«Oh, Yu!» esclamò con un sorriso il ragazzo, incontrando lo sguardo perennemente seccato di Kanda.

«Allora, cosa vuoi?» il moro brandiva tra le mani un blocchetto e una penna con la quale prendere appunti, e Allen lo guardò per un attimo con aria scettica.

«Te. Resti a farci compagnia?»

Il giapponese inarcò un sopracciglio. Guardò il sorriso di Lavi, che andava da un orecchio all’altro, poi guardò l’altro ragazzino, che aveva preso a succhiare pigramente il suo lecca lecca, guardando da un’altra parte con aria annoiata.

«Vai al diavolo, stupido.»  Quindi girò sui tacchi e si allontanò. «Ti porto altra roba» disse però prima di sparire dietro un gruppo di persone.

Allen sbuffò, forse ridendo, e si alzò in piedi a sua volta, sospirando. «Vado anche io» replicò in risposta allo sguardo accigliato del rosso. Si passò poi le mani sui pantaloni neri, cercando di distendere le pieghe che si erano formate, passando poi alla giacca altrettanto scura, prendendo poi tra le mani la tuba che era posata vicino al piatto dei dolci. Se la mise in testa, con un sospiro, scuotendo la testa per abituarsi alla sensazione del capello.

«Di’ un po’ Allen-chan» chiese curioso Lavi «Da cos’è che ti saresti vestito

Quello era già a metà strada, quando si girò, si tolse la tuba e fece un inchino con un ghigno.«Da cappellaio matto, ovviamente»

 

Si allentò la sciarpa che teneva al collo, sospirando pesantemente.

Era appena uscito dal locale, portandosi appresso una vaschetta piena di caramelle e cioccolato, dicendo a Yu e di dire ad Allen che lo aspettava fuori. Aveva davvero troppo caldo, lì dentro.

Si portò un pezzo di cioccolato alle labbra, pensieroso, tenendolo tra i denti prima di succhiarlo distrattamente. Alla fine non era riuscito a capire per bene da cosa si era vestito Kanda. Aveva un cappotto nero con i bottoni d’argento e una spada al fianco, ma proprio non gli sembrava un costume da Halloween, quello.

Sospirò, fermandosi un attimo per adocchiare una panchina libera davanti al locale, raggiungendola lentamente, quasi ciondolando, lasciandosi cadere su di essa con uno sbuffo stanco.

Inclinò la testa all’indietro, fino a poggiare la nuca contro il freddo legno dello schienale, chiudendo gli occhi.

Erano passati dieci mesi dal loro primo incontro.

Quasi un anno.

Pensò che in tutto quel tempo Allen non si era ricordato nulla.

Pensò – con un sorriso ed uno sbuffo quasi esasperato – che in tutto quel tempo non avevano smesso di dormire insieme.

E ultimamente – si disse che era solo il freddo, solo quello – lo sentiva, la notte, stringersi più forte a lui. Girarsi, in silenzio, scrutandolo quando lo credeva addormentato – sentiva i suoi occhi fissi su di lui, come la prima volta che li aveva visti. Attenti, curiosi, totalmente presi da qualcosa che non riusciva a capire – e rimanere a guardarlo tutta la notte, finchè lui esasperato non faceva finta di svegliarsi e si girava dall’altra parte.

Il tempo stava scadendo.

Lo sentiva distintamente, con quella fredda consapevolezza che certe volte non poteva far altro che infastidirlo.

Qualcosa stava arrivando.

E lui non sapeva cosa.

 

Stava fissando con aria pensierosa e concentrata la porta della tavola calda, in attesa di Allen, quando vide proprio una testolina bianca sbucare da una gruppo di persone che stavano uscendo in quel momento.

Fece per alzare una mano per attirare l’attenzione, quando sentì la panchina vibrare per un attimo, sotto il peso di una corpo che si lasciava cadere pesantemente affianco a lui, sbuffando lamentosamente.

Nonostante non fosse un evento così drastico, Lavi fermò la mano appena in tempo, lanciando un’occhiata furtiva al tizio che gli si era appena seduto affianco.

Gli sfuggì un «…oh» totalmente involontario.

«Amico tuo?» chiese quello quasi contemporaneamente, indicando Allen – affiancato da Kanda, che borbottava qualcosa innervosito – con un cenno del capo.

«Tu…ti ho già visto, giusto?» chiese invece Lavi con un mezzo sorriso, voltandosi totalmente verso il giovane che gli sedeva affianco.

Che arricciò le labbra, senza rispondere, limitandosi a lanciargli un’occhiata di soppiatto con un sorriso.

«Forse.» strinse la sigaretta tra le dita guantate ed espirò il fumo. Lanciò un’occhiata al ragazzino dai capelli bianchi, poi ancora una al rosso. «Dopotutto…»

 

*

 

 

Gli premette una mano sulla faccia, stancamente, spingendolo fin quanto gli permetteva la lunghezza del braccio.

«Allen, piantala di fissarmi…»

Quello gli prese la mano tra le proprie, se la strinse al petto senza dire nulla e continuò.

Lavi lo guardò, scocciato, sospirando un attimo dopo.

«Non riesco a dormire se mi guardi tutta la notte…» tentò di spiegare pazientemente. Il ragazzo sbattè un paio di volte le palpebre, senza però cambiare espressione, alzandosi poi sulle ginocchia per tornare tra le braccia dell’altro, che gemette sconfortato.

«Voglio una vita privata» biascicò lamentosamente Lavi, lasciandolo fare.

Ci fu una piccola pausa, poi Allen rise.

«Oh, certo, questo mi conforta molto…»

«Anch’io voglio una vita privata…» sussurrò il più piccolo, quasi addormentato, e a nulla valsero i tentativi di Lavi per farlo rispondere. Fino al mattino dopo, non parlo più.

 

 

*

 

 

«Di’ a quella stupida mammoletta di presentarsi a lavoro, altrimenti lo sbattono fuori. E io non ho nessuna intenzione di coprire i suoi turni!»

«Ma…!»

Kanda chiuse la chiamata prima che lui potesse replicare, lasciandolo perplesso e un po’ preoccupato.

 

 

Sentì in lontananza una porta sbattere, un rumore secco di qualcosa che cadeva altri suoni che non distinse.

Aprì gli occhi.

Entrambi, senza riflettere.

Si alzò in piedi, intontito dal sonno, cercando a tentoni la benda sul comodino. Non la trovò, e lasciò perdere. Scrollò un po’ la testa mentre si alzava in piedi, lasciando cadere un ciuffo rosso davanti al viso.

Sentì un lieve rumore, ancora, che sembrò quasi distinguere. Camminò a piedi scalzi, senza far rumore, fino al piccolo salotto.

E lo vide, lì, sdraiato e svestito sul divano. Gli abiti, gettati su una sedia, grondavano acqua e odore di pioggia da tutte le parti.

Lavi serrò un pugno, impercettibilmente. Poi scosse la testa, forse arrabbiato, andando e tornando dalla camera da letto nel giro di pochi secondi. Aprì una coperta e la stese sul corpo del ragazzino, che mugugnò infastidito, prendendolo poi quasi in braccio, non troppo bruscamente, infilandosi a sua volta sotto la coperta, sul divano.

Allen si svegliò, continuando a borbottare, ma lui si limitò a sussurrargli un seccato «Dormi, stupido»

Quello rimase immobile per un attimo, forse rendendosi conto della situazione, poi si rilassò alla sua spalla, tornando a respirare regolarmente

Lavi sospirò, confortato. Almeno era tornato.

 

 

Allen aveva smesso di parlare, di nuovo.

Scuoteva la testa, sbuffava, sorrideva cordialmente quando gli chiedeva qualsiasi cosa non riguardasse la precedente notte, ma non emetteva un solo suono.

Poi Lavi lasciò perdere, con uno sbuffo seccato e uno sguardo incerto, e il ragazzo tornò sorridente e normale come prima.

 

 

*

 

 

Ne era sicuro: anche Allen se ne rendeva conto.

Il tempo, stava per scadere.

Ma che fosse il suo o quello di Allen, non avrebbe saputo dirlo.

 

 

*

 

 

Lo vide lì, con la schiena piegata su un foglio di carta, e scarabocchiare velocemente qualcosa. Gli si avvicinò, curioso, incrociando le mani dietro la schiena per chinarla in avanti.

«…ah» si lasciò sfuggire, sorpreso.

Allen si voltò di scatto, tanto che per poco non gli colpì un braccio. Strinse il pugno attorno al foglio, accartocciandolo con forza.

«Ma quello…non è il foglio che…?» Lavi sporse di nuovo il viso, e riuscì ad intravedere gli stessi segni sbavati dal tempo e dalla pioggia di un anno prima.

Il più piccolo annuì, lentamente, lasciando andare a poco a poco la presa sul pezzo di carta. Poi si girò, di nuovo, e riprese a marcare quegli stessi segni, forse per renderli più leggibili.

Il rosso lo guardò ancora per un attimo, fissando con occhi pensierosi i capelli bianchi del ragazzino. Poi li carezzò, distrattamente, e si allontanò.

Il corpo teso di Allen si rilassò, e continuò a scrivere.

 

 

*

 

 

Quella notte non se ne accorse, ma Allen, seduto a gambe incrociate sul letto, lo guardò per tutto il tempo.

 

 

 

*

 

 

«Allora» cominciò Lavi con un sorriso, battendosi le mani sulla gambe per alzarsi in piedi. «Yu-chan dovrebbe arrivare tra poco!»

Allen distolse lo sguardo dallo schermo della televisione, impassibile e leggermente annoiato.

«Perché deve venire pure quello?» borbottò poi lamentosamente, premendosi meglio contro lo schienale del divano, fin quasi a lasciarvi un solco con la propria forma.

«Ma dai, è Yu-chan! E poi è Natale!» esclamò il rosso, sorpreso e in fondo divertito.

Il più piccolo scosse la testa, sbuffando, andando con lo sguardo alla ricerca di un orologio che potesse dirgli l’ora.

«Sono le undici» rispose distrattamente per lui Lavi. «Lo chiamo sul cellulare, guarda. Magari si è pure dimenticato»

E con un sorriso il ragazzo andò nella camera da letto, chinandosi di poco per prendere l’apparecchio poggiato sul comodino.

Poi sentì il rumore di una porta che sbatteva con violenza, e si sentì gelare.

 

 

La stanza era vuota.

La televisione accesa, l’albero che oscillava ancora un po’, scosso probabilmente da una giacca tirata con troppa forza dall’attaccapanni lì affianco.

Allen non c’era.

 

 

Se avesse potuto, avrebbe riso.

Istericamente, senza controllo.

Invece non poteva, perché non ne aveva il fiato, ne la possibilità. Aveva appena quasi investito Kanda che saliva le scale, perché era troppo occupato a correre giù per esse per poterlo anche soltanto vedere, e non gliene fregava assolutamente niente.

Quando fu in strada cominciò a guardasi attorno, ovunque, girando su se stesso nella speranza di ritrovarselo dietro e sorridente con un regalo dell’ultimo momento fra le mani.

Era solo uscito. Un attimo solo, non era una tragedia.

Eppure lo sapeva, lo sentiva.

Il tempo era scaduto.

Tic tac, tic tac.

 

 

Si fermò un attimo per riprendere fiato, poggiando i palmi delle mani sulle ginocchia per non cadere, ansimando e gemendo per il dolore che sentiva al petto. Sentiva fitte, ad ogni boccata d’aria, che sembravano ucciderlo ogni volta.

Ma poi riprese a correre, ignorandole, come ormai faceva da quasi un’ora.

Poi le riconobbe.

Le luci ad intermittenza, opache come le ricordava.

Le macchine, i passanti, i Babbo Natale finti e le pentole nere.

«Dopotutto quel ragazzino non è solo tuo»

Lavi si fermò, all’istante, talmente all’improvviso che per poco non cadde in avanti.

L’uomo gli sorrise, impercettibilmente, alzandosi la tuba con un gesto della mano, a mo’ di saluto.

Si sentirono delle urla, divertite, delle risate.

«Lui dov’è»

Fu lapidario, secco e quasi ringhiante, e la risposta lo fu altrettanto.

«Al solito posto»

Un orologio batté le ore.

…dieci, undici…dodici colpi.

Mezzanotte.

L’uomo si fece da parte, scuotendo la testa con un sorriso. Alzò un braccio ed indicò davanti a se, verso un punto imprecisato.

Lavi non ci pensò neanche. Lanciò un’occhiata ostile all’altro e riprese a correre, senza voltarsi, in quella direzione.

 

 

Si svegliò lentamente, senza rendersene conto. Si ritrovò a fissare un mondo ricoperto di bianco e luci spente, in lontananza. Davanti a se, invece, vedeva sottili fili d’erba che gli solleticavano la guancia, mentre la manciata di neve su cui era rannicchiato gli bagnava i vestiti.

Provò ad alzarsi, istintivamente, poggiandosi alla prima fredda pietra che trovò. La fissò, impassibile, memorizzando inconsciamente i dati di quella persona. Una lapide, una croce fatta di marmo freddo.

Scosse la testa e tirò su col naso, rabbrividendo. Incrociò le gambe e si guardò attorno con la stessa espressione.

Poi, istintivamente, si ficcò una mano in tasca, e le dita si strinsero senza pensarci attorno ad un pezzetto di carta.

Dei segni, familiari, ed un nome dai colori sbavati.

Corrucciò lo sguardo, poi sentì una voce, e guardò davanti a se.

 

 

Gli si gettò praticamente addosso, stringendolo con forza al proprio petto, cadendo su di lui fino a fargli sbattere la schiena contro il terreno gelido.

Ma poi sentì le sue mani premergli contro lo stomaco, con altrettanta forza, per spingerlo via. Si lasciò allontanare, sorpreso, sentendo di nuovo quella stessa risata premergli contro.

Lo aveva trovato.

Dio, lo aveva trovato.

«Allen, dove…»

Di nuovo, si sentì gelare.

Vide la pallida mano del ragazzino stretta attorno al foglio che gli aveva visto ricalcare con tanta concentrazione pochi giorni prima.

Vide il suo sguardo curioso, diffidente, come tanto tempo prima. Fisso su di lui, impassibile e attento.

Si sentì pizzicare gli occhi.

«Allen…»

Quello piegò la testa di lato, poi guardò di nuovo il pezzo di carta. Glielo porse, senza dire nulla.

Lavi deglutì, aprendo appena la bocca per dire qualcos’altro, senza sapere bene cosa. Guardò il foglietto, e notò distrattamente qualcosa che prima non c’era. Non riuscì a capire i segni, come la prima volta, ma non gli interessava.

Deglutì, di nuovo, mentre si passava il palmo della mano sul viso, scacciando le lacrime che chiedevano insistentemente di scendere.

«Hai un posto dove andare?»

I capelli bianchi ondeggiarono di nuovo.

Sentì la propria voce tremare. «Ti va di venire a casa mia?»

Allen annuì, con un sorriso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ogni vigilia di Natale, a mezzanotte, perderai la memoria.

Ogni cosa, ogni più piccolo ricordo.

Questo perché hai fatto qualcosa di sbagliato.

“Sei stato maledetto.”

Così ti dirà l’uomo Bianco e Nero, se lo incontrerai di nuovo.

 

 

E in basso, all’angolo del foglietto, altri segni più recenti, come se fossero stati scritti appena pochi giorni prima.

 

 

Segui il ragazzo dai capelli rossi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eternal

The End

Until the next Christmas

 

 

   
 
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