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Autore: RuboLaVitaDentroDiMe    29/10/2013    2 recensioni
Sono 20 dollari al grammo per pensieri e parole felici.
5 per quelli tristi.
Qualcosa in più se li volete tagliati con un po' di consapevolezza.
100 se volete un'idea geniale. 37 se vi accontentate di ricordi mediocri.
Ve li regaliamo se dovessero essere gli ultimi della vostra vita.
E i sassolini sono compresi nel prezzo, giusto perché sappiate in quale buco vi siete cacciati, sappiate qual è la strada per tornare indietro, ma non possiate imboccarla.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A te.
Perché mi guardi e pensi che forse dovresti tendermi una mano, ma non puoi, perché con quella stai scrivendo un messaggio al cellulare.

Alla Bella Addormentata Sul Banco.
Copre tutti gli specchi con le sue sciarpine trasparenti e si rifiuta di guardarsi nelle vetrine dei negozi: non vuole farsi spoiler su se stessa.
A Nirvana.
Quando vaga per le corsie del centro commerciale calpesta solo le piastrelle bianche; quelle nere le lascia agli incoscienti che non hanno paura di cadere nel vuoto.
A Corpo difettoso.
Lui si che è interessante: prima fa la bella copia e poi scrive la brutta; non consegna nessuna delle due.
Alla piccola Incappucciata.
Conta i sampietrini, quando cammina per le vie del centro. Esiste solo la strada, in quel momento, la strada e niente altro. È stata investita una decina di volte, ma una decina di milioni ne ha contati.
Al signor Auro Fino.
È così depresso da quando ha scoperto che Platino valeva più di lui. Credo che si imbottisca di antidepressivi, ora come ora. Nessuno va a trovarlo nella sua stanzetta, reparto di Psichiatria, quarto piano, padiglione 7.
Alla signorina Penna Biro.
Scrive un testo, lo legge, sorride, lo guarda e poi ci infila in mezzo qualche errore ortografico e morfologico: si sa che se uno non li fa non può essere chiamato “scrittore”.
A Pompino.
Crede nell'umanità, ma non negli uomini. Non che gli si possa dare torto, in fondo.
A tutti quelli che rimangono.
Non valeva la pena di nominarvi uno ad uno. Non vogliatemene, è semplicemente la verità.
E anche un po' a me stessa.
Perché sono qui. Anche se non so dove sia questo cazzo di “qui”.

 

Bisogna che io impari ad aprire gli occhi e sorridere. Ma non c'è niente da fare: il pigolio della sveglia ha, per me, lo stesso suono delle campane a morto.

 

Corrono.
Corrono più che possono, tenendosi per mano; si allontanano da qualcosa che non ricordano.
Hanno il fiato della notte sul collo e una sfilza di lomografie che sfilano a velocità accelerata davanti a loro, con i loro tacchi alti sloga-caviglie.
Corrono e non sanno nemmeno dove stanno andando, ma non possono fermarsi, perché altrimenti li prenderebbero. E allora sarebbe davvero la fine.
Corrono e lui lo sa, che sono un Noi, ma non si ricorda più chi è l'altro pezzo ancorato alle sue cuticole; non sa chi si sta trascinando dietro.
Hanno ancora le gambe umide per l'amplesso silenzioso che li ha scossi nella camera di quel motel con le tendine tarlate e nei capelli sono rimpasti impigliati tutti i loro gemiti; dovevano fare piano, perché erano in fuga e amarsi scappando è difficile. Ma Loro li hanno trovati, perciò sono dovuti sparire in un lampo; lui si è persino dimenticato di rimettersi le scarpe.
Corrono, i loro polmoni inciampano sui bronchi, il cuore martella, i passi scalpicciano sulle tavole di legno mangiucchiato.
Pare un film in nero e nero, tutto quel susseguirsi di pensieri scuri. I lampioni si spengono, al loro passaggio, la luna si nasconde dietro il suo velo da monaca, tutte le luci si coprono gli occhi, per non dover guardare quello spettacolo penoso...
E loro continuano a correre.
Lui non lo sa, come ci è arrivato lì, come ci sono arrivati.
È un cazzo di vicolo cieco. È un cazzo di vicolo cieco.
Il mare sciaborda, al di là del vuoto, e corre la sua corsa, senza curarsi della disperazione degli altri.
Ma lui li sente. Sente che Loro, gli Altri, si stanno avvicinando.
Vuole correre ancora, ma l'altro pezzo di Noi non è d'accordo.

«Aspetta! Aspetta, cosa vuoi fare?»

Ora si ricorda.
Lui la ama e mica per finta: lei è sempre stata attaccata alle sue cuticole, anche quando non lo voleva più nessuno. Lui la ama per davvero.
Una spiegazione gliela deve.

«Dobbiamo saltare».

Il pezzo di Noi si sgrana e guarda il vuoto con un vuoto ancora più grande negli occhi.
Lei gli fa pena, gli fa pena quel suo sguardo perso: è un'espressione da bambina, da marionetta di cera...
Lei non capisce; non li sente i latrati di tutti quei Giusti che stanno correndo verso di loro con la lingua di fuori, il respiro pesante e l'ordine di far diventare Giusti anche loro due, l'ultima sacca di resistenza Sbagliata dell'umanità.

«Ma se saltiamo rischiamo di morire».

Lui le sorride. Guarda il mare, che se ne fotte di tutto e di tutti, guarda l'ingresso del pontile e vede già le luci delle torce di quei mostri.
Lei proprio non capisce. Il punto è un altro.

«Se non saltiamo rischiamo di vivere».

 

Dottor Reggitempo.
Esperto di Fanculismo.
Laureato in cazzeggiamento.
Dottorato in aeronautica pantofolaia.
Record mondiale di pacchi tirati agli amici.
Tesi sulla composizione chimica e la classificazione della noia.
Persona difettosa.

 

È che a volte... tutto sparisce, no? C'è solo questa grande sala bianca, senza quadri né finestre, un grande silenzio che urla tutto intorno e tanta voglia di fuggire via.
Uno potrebbe pensare che si pensa bene, in quel posto. Che è un buon modo per mettere in ordine la propria mente.

Si sbaglia.
È che c'è bisogno di bilanciare, no? Insomma, è tutto così posato, tutto così impeccabile. Fanculo, alla fine ci si ritrova ad avere un grande casino nel cervello, perché l'universo tende al disordine, e se tutto è ordine allora il disordine si concentra nell'unico posto che lo può contenere.
La mia testa.
Non è che questa cosa duri molto, no? Tipo qualche ora, qualche giorno, a volte qualche vita.
È che basta per farmi impazzire. Ogni volta che esco da quella stanza bianca c'è una vena di follia in più, in me. Una vena di follia in più, ma un pezzo di testa che ha la cicatrice del più ordinato, per chissà quale motivo.
E, pezzo dopo pezzo, un giorno mi troverò ad avere un cervello totalmente in ordine. Perfetto. Pulito. Posato.
Diventerò parte di quella grande sala bianca.
Impazzirò definitivamente.
Sarò Ordine.
Andrò contro natura.

 

Fate calare il sipario.
La farsa è finita.
Che nessuno si azzardi ad applaudire.

 

Giorno dopo giorno passa una settimana.
Settimana dopo settimana passa un anno.

Anno dopo anno passa un'era.
Era dopo era passa il mondo.
Mondo dopo mondo passano gli universi.
Universo dopo universo passa il tempo.
E tempo dopo tempo tutto resta sempre così com'è.
Aspettando di abbracciare il nulla.

 

Hai presente quando lo guardi e ti senti bene? Quando non riesci a fare a meno di staccargli gli occhi di dosso, perché la tua attenzione è rivolta solo a lui?
Hai presente quando le gambe all'improvviso sono molli, quando una matita per gli occhi e un mascara sono le tue armi migliori, assieme ad un reggiseno imbottito?

Hai presente le sere passate a piangere perché lui non ha bisogno di te, ma tu dipendi da lui come la Terra dal Sole?
Hai presente le lotte continue contro la verità dei fatti, cercando di dare un senso nascosto alle sue parole?
Hai presente quando un suo sorriso vale più di un biglietto vincente della lotteria e quando il suo compleanno è festa nazionale, quando lo prendi per mano e lo porti via, dalla sua ragazza, dai suoi amici, da tutto il resto? Anche se per lui sei solo una amica?
Dai, le hai presente tutte queste cagate?
Sì? Davvero?
Ah, cavolo. Mi dispiace per te.
Le hai presente, eh?
Io no.

 

Impara a sorridere a salve, Piccolo Uomo. Credimi, è importante.
Ché finora te ne sei rimasto a sparare le tue pseudo-smorfie a destra e a manca e mi hai sempre beccata di striscio, ma una volta o l'altra mi centrerai in mezzo agli occhi e allora tanti saluti, è stato un piacere e buonanotte.
Che poi, credi che non me ne accorga di tutto quel dolore che fa le capriole attaccato alla tua ugola o che gioca ad acchiapparello tra le fessure dei denti per finire a scivolare sulle gengive?
Per esempio, sei felice, Piccolo Uomo?
Sai, te lo chiedo perché ascoltare bugie travestite da verità mi diverte molto.
Quindi, su, siediti con me e raccontami un po' di sane cagate mentre ci beviamo un tè.
E non preoccuparti di mettere la sicura: quelle puoi spararle quanto ti pare.
Perché morire per un sorriso mi farebbe incazzare parecchio, ma lasciarci le penne per una bugia... beh, credo ne valga veramente la pena.

 

Jameela ha il volto incorniciato in una finestra.
In una vita passata deve essere stata un quadro del Louvre e Nicolò deve essere stato uno di quei turisti che lo guardano a bocca aperta e orecchie chiuse.
Ne è sicuro, mentre la fissa attraverso il vetro della propria, di finestra.
Jameela lo guarda di sfuggita, ogni tanto, ma non lo bada. Continua a fare quello che sta facendo. Scrive qualcosa che Nicolò muore dalla voglia di leggere per sapere come parlano le sue mani.
Nicolò vorrebbe sentire la sua voce che snocciola verità in quella lingua così cantilenante...
Nicolò vorrebbe sapere da dove viene, Jameela, ma non l'ha mai vista, al di fuori di quella stanza. Jameela esiste solo dentro la cornice di una finestra.
Nicolò non sa nemmeno se Jameela si chiami Jameela. Il nome glielo ha dato lui, cercandolo a caso fra le liste di nomi arabi, su Internet.
È che dopo due anni passati ad osservarla vivere senza poter essere parte della sua vita Nicolò proprio non ce la faceva più ad averla parte della propria senza nemmeno un nome.
Jameela non lo saluta, quando lo nota. Jameela non gli regala un sorriso. Jameela non incontra mai i suoi occhi.
È uno di quei giorni, oggi. I giorni in cui la porta si apre e Jameela piange.
Nicolò si nasconde dietro le tende della propria camera, mentre l'uomo la picchia. Forse è suo padre. Forse è suo marito. Urla, le sue parole incomprensibili attraversano tutti i vetri e perforano i timpani di Nicolò.
È quella la lingua che lei parla? Non la vuole più sentire, una lingua capace di fare tanto male a Jameela.
Jameela singhiozza, sola, accartocciata su se stessa, quando Nicolò torna al suo posto.
Jameela non lo guarda.
Nicolò si chiede se nessuno le abbia mai asciugato le lacrime. Se qualcuno le abbia mai detto in quella lingua strana che è bellissima. Si chiede se qualcuno le abbia mai sorriso e le abbia mai alzato il mento per conoscere i suoi occhi.
Lui lo farebbe.
Le alzerebbe le maniche per baciare i lividi sulle braccia. Cercherebbe tra le ciglia il nocciola, il verde o il nero delle iridi.
Le toglierebbe il velo, per sapere di che colore sono i suoi capelli.
E non le parlerebbe. Si siederebbe solo accanto a lei, senza una parola.
Perché è così che si fa con un'opera d'arte.
La si guarda. La si protegge. Non le si fa male.
In silenzio.

 

K cs fai stase?
Nn lo so, nn è k c'ho voglia di stare a casa, xò! C'è, che palle!
Cmq dom sera c 6, vero?
Ovvio. C'è ank Andre. Sai, è, tipo, stra gasato in qst giorni. Siamo ass da tipo 3 mesi.
Ma ché, dici che dom scpate?
Boh. C'è, nn lo so, ma spero.
Cazzo, cm ti invidio! Anke io vorrei un ragazzo cm Andre.
Eh, l so.
Cmq, fai festa la prossima sett, vero?
Credo di sì, nn so dv, xò. Xk ho un sacco di gente da kiamare e nn so se i miei mi lasciano.
Ah. Beh, io nn vedo l'ora. C'è, fai 14 anni, vecchia!
Lo so. Lo so.

 

Lo so io, il motivo per cui il mondo va così male: è che nessuno si ferma mai ad annusare veramente il profumo dello smog, del bianchetto, della benzina o di un pennarello indelebile.

 

Mi piacciono i tuoi pensieri, Raminga. Fanno parte di quel mazzo di riflessioni che soffierei via dalla realtà, mentre i tuoi occhi stanno chiusi in altri mondi.
Ti prenderei tutte le rimuginazioni, i discorsi sui Massimi Sistemi, i sogni, le cazzate e poi li venderei a chi di pensieri non ha e va avanti con le solite mentalità preconfezionate, vuote, ma riempite di cotone, di quello sterile, eh, sia mai che una infezione di intelligenza li colga.
Sarei costretto a farlo di nascosto, in nero, bada bene, ché pensare veramente a questo mondo ormai è illegale, e chiederei milioni per un piccolo istante di lucidità, di tristezza infinita, di idee originali.
Ma se non hai voglia di darli via, i tuoi pensieri, Raminga, né ti va di farteli fottere da quei bastardi come me, allora potremmo andare a passeggiare lungo le strade trafficate, pestare qualche gomma americana e poi guardare giù dal cavalcavia, cercando di indovinare quale casa automobilistica ha prodotto i cervelli che viaggiano dentro le scatolette di lamiera.
E allora sono sicuro nascerebbe in noi quell'istinto di vandalismo che solo i veri pensatori hanno – quelli che sanno che il mondo è talmente rovinato che l'unico modo per sistemarlo è cercare di danneggiarlo di più – e ci sorrideremmo a vicenda e cominceremmo a lanciare contro i parabrezza in movimento saliva, sassolini e anche qualche pezzo di cervello, sperando che uno dei tre riesca a fare breccia nel vetro e renda l'umanità un po' più interessante, senza bisogno di vendere pensieri stupefacenti a nessuno.

 

Non funzionava più. La sua anima. Non funzionava più.
Non che per lui fosse stata una sorpresa e che per il mondo fosse stata una grande perdita, comunque.
Cristo, si era mai vista un'anima più banale di quella? Scontata, zoppa, consumata...
Lui voleva genialità. Solo quella. Mica facile da trovare, eh? Ce l'avevano solo gli spacciatori buoni, e costava pure un fottio.
E così aveva cominciato a vendere ogni tassello del proprio essere: un ingranaggio di qua, un sentimento forte e scontato di là... a prezzi irrisori, chiaro, dopotutto uno mica può vendere a cifre stratosferiche merci di merda.
Non gli dispiaceva per niente liberarsi di quel ciarpame, e, in fondo, il modo per pagarsi e spararsi in vena la propria dose di genialità, uno dovrà pur trovarlo, no?
O quello o finisci a fare marchette di vita, prostituendo il tuo Io per esistenze in cui non credi.
Poi, un giorno, i pezzi erano finiti e lui si era ritrovato con un'anima che non funzionava più.
Sul momento ne era stato addirittura felice: niente più inutili sentimenti, niente più noie, niente più crucci.
Solo tanta indifferenza e tanta genialità.
Poi erano finiti i soldi e con loro le sue dosi quotidiane.
Era stato difficile, ma ce l'aveva fatta. Aveva centellinato tutto il talento che gli era rimasto nel quadratino ripiegato di carta argentata ed era andato avanti, sniffandone un po' solo ogni tanto.
Poi era finita anche quella genialità tanto assuefacente e allora sì che erano stati cazzi amari.
Erano arrivate le crisi di astinenza e una di quelle ti può uccidere da un momento all'altro, sai? Basta che ti distrai un attimo e, tac!, già non esisti più.
All'improvviso quell'anima inutile grattava da dentro il suo corpo per poter uscire.
L'odore del caffé non portava nessuna lucidità, la vista di Manhattan dall'alto del suo grattacielo non gli faceva né caldo né freddo, la bionda ossigenata che si infilava nel suo letto non glielo faceva nemmeno venire dritto, la Nona Sinfonia di Beethoven non lo commuoveva...
Ormai era solo un corpo vuoto in movimento, scheletrico, con delle enormi occhiaie scure in cui si accumulava la poca sanità mentale rimasta, nel tentativo di evadere dai dotti lacrimali.
Non ce l'ha fatta, a riprendersi. Quelli come lui non ce la fanno mai.
Potete trovarlo in via Ovunque, sotto i portici del numero Quale, ora.
Elemosina per un po' di anima straccia. Ogni tanto un povero Cristo si ferma, gli lancia un brandello di Qualcuno avanzato a cena e poi torna alla sua vita felicemente zoppa, banale, scontata consumata...
Era l'onorevole signor Sorriso, una volta.
Ora è il vecchio Perso Nel Vuoto.
Per gli amici, semplicemente Nessuno.

 

Odori di Niente e Sigarette.
Odori di tristezza andata a male, e hai una data di scadenza scritta in braille sulla nuca, per farlo sapere anche a me.
Odori di liste della spesa vuote.
Odori di moto dei pianeti, con la tua ellittica inclinata nel verso opposto di quella terrestre.
Odori di un traballante re minore, l'unico accordo per chitarra scordata che hai imparato prima di gettare la spugna.
Odori di smalto nero per uomini, di anfibi lucidi, di papillon a pois, di camice strappate a far vedere i capezzoli e di piercing al naso.
Odori di testa fra le mani e di angosce che si autoproclamano migliori amiche.
Odori di maggiore età che bussa timida alla porta e spera che qualcuno le venga ad aprire.
Odori di gite in campagna con un cestino da picnic, una tovaglia a quadri e un involto di erba nella tasca dei pantaloni.
Odori di un libro di nomi con un Giovanni evidenziato a sangue.
Odori di ghiaccio che si scioglie e di foglie secche che si decompongono sotto le suole di gomma.
Odori di buchi nei boxer a righe e di occhiali scheggiati.
Odori di te, il che non è mica poco.
Odori anche un po' di me, mi sembra.
Ma forse ho solo il naso tappato.

 

Perché il mondo è tanto brutto, Granello Di Senape? Me lo sai dire?
Perché ci siamo io e te, forse?

Può essere, ma perché io e te esistiamo? Perché qualcuno ci ha voluti piazzare qui, in mezzo a gente che non capiamo, in mezzo cose che non vediamo, in mezzo a piaceri che fanno venire un orgasmo a qualcun altro, ma a noi no?
In fondo noi non siamo normali, l'abbiamo sempre saputo. Come potremmo essere simili a quelle cose che camminano in giro per le strade tutti i giorni, col sorriso sulla bocca, il pianto negli occhi, l'ordine nella testa e l'amore nel cuore?
Noi non abbiamo niente di tutto ciò. Sulle nostre labbra c'è il silenzio, dietro le nostre palpebre la noia, nella nostra mente il caos e nel cuore... nulla.
Ecco il perché, Granello di Senape. Ecco il perché noi esistiamo.
Siamo qui per rendere il mondo un posto peggiore.

 

Quando non ce la faremo più – domani, dopodomani, fra un paio di ore, un decennio, qualche secolo, o all'alba della prossima era glaciale – scenderemo in cantina, chiuderemo a chiave la porta e addestreremo un topo e uno scarafaggio a recitarci commedie di Plauto e tragedie di Eschilo: rideremo e piangeremo, ci sfioreremo la mano e sarà abbastanza.

 

Resta solo questo, allora. Un fondo di birra. Un biglietto del cinema. Una foto strappata. Un sorriso lontano. Un eco di felicità.

 

Si può sapere cosa accidenti stai facendo da tre ore, ragazzo?

Cerco un senso a questa versione del cazzo. E non lo trovo.

Perché sbagli, mi sembra più che ovvio.

Sentiamo un po', allora. Illuminami, nonno.

È il punto di vista, che non funziona: non devi cercare un senso a quel testo, ché è normale non trovarlo, devi semplicemente dargliene uno.

È esattamente quello che sto facendo: cercare di dargli un senso.

Ma allora proprio non vuoi capirla, figliolo! Non devi cercare. Cercare non è mai una buona idea, per quelli miopi quanto te. Il massimo che puoi sperare è di sbattere il naso contro un lampione o di trovarti con un pugno di mosche, a patto di riuscire a prenderle: quelle sono bastarde, sai?

Va beh, nonno, e allora come la mettiamo con il “chi cerca trova”?

E questo chi l'ha detto?

Non lo so. Doveva essere qualcuno di intelligente, immagino.

Oh, non lo metto di certo in dubbio. Solo le persone intelligenti riescono a sparare certe merdate.

 

Ti prenderei la mano e la porterei con me. Mi basterebbe quella per saperti al mio fianco. Quella sinistra, però, perché quella destra non ti assomiglia.
La mano sinistra ha i polpastrelli che sanno di tabacco, quella destra non sa nemmeno come tenere fra le dita una sigaretta.

Il pollice sinistro ha l'unghia obliqua, strana, e ha una forma irregolare, quello destro è troppo aggraziato, con l'unghia squadrata e perfetta.
La tua mano sinistra scrive: ha il callo dello scrittore sul dito medio e il dorso sempre sporco dell'inchiostro che si trascina dietro, lungo la sua inesorabile avanzata. La destra è analfabeta, non sa che cosa sia il piacere di avere potere sul mondo, la realtà sulla punta di una biro.
Ti prenderei la mano sinistra e te la porterei via.
Lo farei anche sapendo che senza di quella tu saresti monca di te stessa e moriresti di insufficienza dell'essere.

 

Un giorno ci sarà un dizionario con il mio nome sopra. Un giorno il mio nome comparirà sulla copertina di un libro. Un giorno ci sarò io tra gli svolazzi della brochure di una conferenza.
La mia scuola, quel liceo in cui sputo sangue e bile ogni giorno, mi chiamerà al telefono, esitante, e mi chiederà se ho voglia di sprecare un pomeriggio per parlare ai ragazzi.
Un po' come quegli incontri che ci costringono ad ascoltare ora, in un'aula magna che di magno non ha nulla, con quelle persone che, teoricamente, dovrebbero aiutarti a capire meglio dove vuole andare la tua vita, ma che invece ti fanno solo invidia, perché sono arrivati e tu invece ancora corri.
Tipo quella gente con le discariche sotto il naso che pubblicano cose come “Cinque passi per raggiungere la felicità”, “La strada per il successo”, “La mia storia: come la mia vita è cambiata con una matita e un paio di mutande pulite” o altre cazzonate simili, no?
Ecco, mi immagino esattamente così.
Mi siederò su quelle trappole di poltrone a rotelle che ti trascinano in giro per il palco anche se non vuoi e sorriderò stolidamente alle masse ormonali che mi fisseranno dal basso.
Un mio ex professore, che ora farà tanto il gentile ma che ai tempi sarà stato il mio incubo, mi presenterà dicendo che mi ricorda con piacere e chiedendo ai ragazzi di ascoltarmi con attenzione, perché ogni testimonianza è preziosa, per chi sta per scegliere l'indirizzo della propria vita.
Io sorriderò di nuovo. E rimarrò in silenzio per un po'.
Sorriderò di nuovo.
“Sì, ragazzi, mi chiamo Allegra e sono qui oggi per parlarvi delle facoltà che dovete scegliere se mai voleste imboccare il mio stesso cammino. Per chi non lo sapesse, io sono una fallita.”
Poi mostrerò loro anche il libro cazzone che ho scritto: “L'arte di non farcela.”
Loro annuiranno compiaciuti e applaudiranno il mio talento.
Io continuerò a sorridere.

 

Vomitare fa bene all'anima. Mettiti un dito in gola. Sfiora il tuo cuore. Rimetti il mondo giù per lo scarico e guardati allo specchio. Poi alzati, esci di casa e sii felice, con lo stomaco vuoto e la taglia giusta di pantaloni.

 

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Xanto, corri veloce, il nostro Patroclo sta soffiando tra le labbra i suoi ultimi respiri. Corri veloce, Xanto, rischiamo di non arrivare in tempo.
Patroclo è stanco, Xanto. La guerra per conquistare Troia è solo dentro di lui, lo sappiamo bene. Tutti la vogliono, quella Troia, ma lui è l'unico a sapere che non può prenderla.

Non ci saremmo dovuti incazzare così tanto, Xanto. Non ci saremmo dovuti rifiutare di combattere assieme a lui, e ora lui sta per...
Corri veloce, Xanto.
Perché cazzo fa così male? Noi non saremmo dovuti essere quelli invincibili, quelli invulnerabili, quelli immersi delle sacre acque dello Stige? E allora perché, Xanto, perché? Perché siamo così fragili, così persi in attesa di un soffio di vento che ci disperda ancora di più in mezzo all'avena?
Dici che quello stronzo di Patroclo è riuscito a pungerci proprio sul tallone che pensavamo al sicuro, coperto da quelle cazzo di Nike?
Fa male, Xanto. Fa male e fa paura. Se non ci sbrighiamo Patroclo perderà la sua guerra.
Non ha nemmeno voluto accettare la nostra armatura, quella con cui nascondiamo tutte le debolezze: è semplicemente andato incontro al vuoto, con gli occhi chiusi.
Ti prego, Xanto. Più veloce. Più veloce. È tardi.
Più veloce.

 

Yvonne, si chiamava. Credo di esserne quasi sicura.
Deve avermelo sussurrato senza che io le chiedessi niente, tra le quattro pareti di quel bagno che sapeva di merda, e di trip, se un trip può avere odore. Probabilmente sì.
Dovevamo scopare, io e lei.
Avevo deciso la sera prima di essere lesbica, quindi, sì, l'idea era quella: prendersi una sconosciuta in mezzo alla folla di gente e portarsela in bagno, per inaugurare quella nuova sessualità.
Credo anche di esserci arrivata vicina. Le mutande non c'erano più, le spalline del vestito erano abbassate e l'orlo era sollevato, le calze avevano fatto una brutta fine...
E poi stop.
È finita che io stavo sulle sue ginocchia, sulla tavoletta appiccicosa di un gabinetto intasato, e dalle nostre bocche è uscito qualcosa che assomigliava a un discorso, più intimo dell'assenza di mutande, in qualcosa che era un po' inglese, un po' italiano e un po' né inglese né italiano.
È stato un girotondo di rondelle di liquirizia, di treni che perdono la coincidenza, di preservativi che si rompono troppo facilmente, di lasagne che odorano di ragù fatto in casa e di amore materno...
Poi, secondo dopo secondo, lei è svanita e io sono rimasta sola su quella tavoletta di merda.
Ogni tanto ci ripenso, a Yvonne, e mi chiedo cosa ci facesse in mezzo a tutti quei Gennaro, Nicoletta, Domenico e Lucia.
Non è che lei abbia proprio un volto, nei pensieri. Yvonne è un vestito in poliestere, un paio di calze venti denari, un profumo da quattro soldi e una voce anglofona che caracolla sulla r di ragù.
Non so se sono ancora lesbica.
Sono semplicemente rimasta fedele a quel sesso che fra noi non c'è stato.

 

Zitti tutti, ché comincia il film.
Non aspettatevi tutto questo granché, eh? Nessun attore famoso, nessun regista di eccezione... non c'è nemmeno un copione, se proprio vogliamo dirla come sta.
Ci sono solo io, con un dito di cerone spalmato sul viso a suon di colpi di cazzuola, e un sacco di figuranti che compaiono per la durata di un fotogramma e poi riprecipitano nel mare magnum dell'anonimato.
È la mia vita, mica si può puntare all'Oscar.
Ma sapete, Anticicloni, quando uno muore prima o poi deve fare i conti con tutto quello che è rimasto impigliato nella sua rete da pesca.
Ti siedi su una poltrona della sala vuota, poggi le braccia sui braccioli e i piedi sullo schienale davanti, ingoi manciate di popcorn e aspetti. Da solo.
Settantadue anni di film. Mica pochi, eh?
Ecco, guarda: la prima ragazza che mi ha dato un bacio, le partite a pallone passate ad aspettare in panchina, l'università e le notti sprecate a studiare, il figlio morto dopo poche settimane di vita, qualche prostituta caricata in macchina all'incrocio, le buste paga che non bastavano mai, la casa sull'albero che è caduta prima che riuscissi ad entrarci una sola volta, le sedute con la psicologa della scuola, la nonna in una casa di riposo e l'intera famiglia in processione a trovarla, le gite alla baita di montagna con il parroco...
E poi il film finisce.
Settantadue anni.
Ed è solo quando ti avvii verso la porta, perché stanno per dare un'altra proiezioni a cui tu non sei invitato, che scopri una biografia scritta a inchiostro sbavato lungo le linee bluastre delle tue vene, sulla schiena le firme e le dediche di chi ti ha odiato, sopportato e apprezzato, sui polsini i sogni rimasti chiusi nel portamonete.
Allora capisci veramente di aver vissuto una vita.
Magari l'hai vissuta male, magari per finta.
Ma che si fottano tutti. Hai vissuto una vita.

 



Istruzioni per l'uso:
Forse questa volta dovrei dire qualcosa. E forse lo farò, staremo a vedere...
Tutto è nato dalla voglia di disordinare. Disordinare tutto quello che avevo intorno. Quando ti più ordinato poteva esserci. E mi sono ritrovata a voler disordinare l'alfabeto. Sì, avete presente quegli esercizi da contest che vengono dati ogni tanto: ogni storia deve cominciare con una lettera diversa. Ok, va bene. Solo che quello che c'è, dentro quelle stupide lettere, è semplicemente il caos, appunti di vita, pensieri, conversazioni, storie...
Alcune frasi sono rubate, altre sono adattate, altre hanno vita propria, alcune sono mie. Qualche paragrafo si collega ad un altro. A volte è solo senza senso.
Lascio a voi l'interpretazioni di ogni piccola scheggia.
 
Fate attenzione, però. Sono parole stupefacenti, queste. Sono parole illegali.
Potete assumerle come vi pare. C'è qualche pillola, qualcosa da sniffare, qualcosa da spararsi in vena, qualcosa da sciogliere sulla punta della lingua, anche qualche collirio.
Qualcuno è tagliato male, qualcuno è solo di stricnina, qualcuno è troppo puro perché i vostri neuroni lo reggano...
Quindi... con cautela. Assumeteli con cautela.
Spero solo che nessuno di voi finisca come me: in un vicolo, con qualche pensiero ancora infilato nelle vene del braccio, le narici secche, che sanguinano ricordi e le pupille dilatate a guardare vite che non ci appartengono.

Commentate, se vi va. Non fatelo, se preferite. Un drogato di parole ha solo bisogno di scrivere e di leggere. Cosa, non ha importanza.
Alla prossima
LadraDiVita da oggi Derubata da qualcosa che non capisce
  
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