I giardini che nessuno sa
…
Ti darei gli occhi miei
per vedere ciò che non vedi.
L'energia, l'allegria,
per strapparti ancora sorrisi.
Dirti sì, sempre sì,
e riuscire a farti volare,
dove vuoi, dove sai,
senza più quel peso sul cuore.
Nasconderti le nuvole
e quell'inverno che ti fa male.(*)
Non
ricordava da quanto tempo era lì: forse qualche istante o qualche interminabile
ora.
No,
non lo sapeva.
Ricordava,
tuttavia, i tenui colori, quasi sibilati, di un’alba che aveva visto lentamente
sfumare nel malva e nel pervinca e poi d’improvviso divenire d’azzurro, mentre
la stella dorata, dalla linea dell’orizzonte adagio risaliva la sua volta fino
a splendere ardente.
Adesso,
quello che vedeva, era quell’astro che silente calava oltre la linea. Il sole
si stemperava nella magnificenza di un meriggio che intingeva con assoluta
maestria le sue pennellate, prima nell’oro e poi nel cremisi.
L’effetto
finale era un mirabolante caleidoscopio di tonalità che digradavano l’uno
nell’altra in una perfetta e abbagliante iridescenza.
Ma
lei pareva inerme allo spettacolo che ancora una volta, quel sole riusciva a
rimandare.
Instancabili,
i suoi occhi sembravano seguire le fasi alterne di un giorno che aveva inizio
all’aurora e terminava nel crepuscolo.
Una
lacrima ricadde giù per la gota fluendo su un percorso non più sconosciuto.
Lambì le labbra serrate in una smorfia di quieto dolore. Non si incresparono al
tocco salino, ne si smossero per assaporarne tutta l’acre sofferenza che
portavano con se.
Era
lì, figura inerme, stancamente accomodata sui gradini del portico, col capo
inclinato su una colonna che ben poco avrebbe potuto sostenere del suo
incontenibile patimento.
Lo
sguardo perduto chissà dove, oltre le nuvole intarsiate dai raggi del sole,
trascinato via dall’irriverente e profumata brezza di una primavera ancora
troppo gelida per il suo cuore.
Guardava
altrove, chissà dove, in cerca di chissà cosa.
L’infinito
sembrava così distante, così irraggiungibile eppure così vicino.
Abbassò
per un attimo le palpebre. Un movimento lieve ma che le sembrò decisamente
pesante.
La
brezza parve frinire tra le ciglia scure, quasi a serrarle sulla rima
inferiore, come un sigillo di tanti segreti.
L’eco
dei ricordi, degli sguardi, delle immagini parve prendere il soprassalto e
rivendicare il suo posto nelle iridi spente.
Riaprì
gli occhi a quelle pozze velatamente ambrate sature di una nebbia che impediva
di scorgere altro.
Le
figure dei ricordi, dei rimorsi, dell’ira e della rabbia che ancora
albeggiavano dentro di lei, riaffiorarono e con esse, le inenarrabili lacrime
continuamente versate da un cuore infranto.
L’una
accanto all’altra, legati da un invisibile filo che non voleva assolutamente
spezzarsi e far diradare la nebbia, le foto di un passato non troppo lontano,
iniziarono a muoversi in una danza confusa.
Anni
che si rincorrevano fino a quell’ultima scena.
Ogni
qual volta i suoi occhi ritrovavano il ristoro di Morfeo, il primo raggio di
luce, al risveglio, era accompagnato dalla landa bianca e dalla figura riversa.
Rabbrividì.
Come
sempre.
Un
fremito che dalla fievole linfa, scoteva il corpo già percosso d’un dolore
illimitato, fonte strana di inesauribili lacrime.
E
l’immagine della superficie immacolata, della pozza scarlatta che l’intingeva
quasi come un fiore prezioso in mezzo a tanta consuetudine, tornava a diradare
la foschia negli occhi.
Era
sempre lì.
Il
profilo rimirava verso un orizzonte offuscato dagli alti alberi, ma era certa
che quegli occhi scuri, riuscissero a guardare ben oltre. Scorse una lacrima,
l’ultima, scender giù di lato dall’angolo dell’iride. Le labbra, leggermente
schiuse, accennavano ad un sorriso.
Era
strano dirlo, ma quella figura supina, sembrava in pace con se stessa.
La
sua ultima espressione era dipinta sul profilo mentre una lieve brezza
innalzava impalpabili cristalli di neve. L’atmosfera era stranamente ovattata e
si beava degli ultimi raggi del crepuscolo.
Il
manto era intinto in polle d’oro e giochi di ombre si alternavano trascinati
dal vento.
Sentì
ancora le lacrime.
Più
calde, più amare, scendere dagli zigomi fino al mento, inesorabili,
melanconiche, avvilenti, insaziabili.
E
sentì il cuore.
Straziato.
Avvertiva
il sangue fluire da quella ferita che le lacerava il petto. Così indelebile.
Così irreparabilmente insanabile.
E
alle lacrime, al cuore che avrebbe voluto balzar fuori dal petto per urlare il
dolore, si aggiunse un mugolio quasi sussurrato, una lenta voce che sibilava
una nenia a quel corpo riverso, quasi a volerlo consolare, quasi a voler
convincere se stessa, di poter ancora cantare.
Raccolse
le ginocchia e le serrò tra le braccia, in un moto quasi irreale, di resistenza
a quello struggimento così immane.
Il
cigolio del cancelletto parve distrarla e le fece innalzare lo sguardo verso la
figura che continuava ad osservarla da qualche minuto.
-
Sta bene, signora? – le chiese l’uomo abbigliato con la divisa di un corriere
espresso.
Non
gli rispose ma timidamente, drizzò in piedi andandogli incontro.
L’uomo
chinò leggermente la visiera sul capo, evidentemente a disagio per la
situazione.
Gli
occhi arrossati dalle lacrime, il volto stretto nella morsa del patema, levò
una mano piano in sua direzione raccogliendo la busta che le stava consegnando.
Senza
proferire, il messo le porse un foglio su una cartelletta ed una penna. Doveva
firmare la ricevuta di consegna del plico.
Solo
quando il rombo del motore fu abbastanza distante da essere oramai
impercettibile, voltò le spalle al cancello e tornò alla quiete del suo
portico.
Sedette
ancora sui gradini di legno e con fare meccanico si guardò intorno con
circospezione.
Non
si era mai accorta di quanto le sue mani potessero tremare. Le rughe ne avevano
coperto una parte ma erano ancora lunghe e flessuose.
Sollevò
il lembo della busta di cartone usata dal corriere per l’inoltro ed estrasse
dal suo interno una busta da lettera dal colore giallo paglierino.
Il
cuore le si fermò per un attimo e le parve di morire.
Un
fischio assordante prese ad ululare con rabbia e a farle perdere la percezione
del momento.
Avvertì
la vista oscurarsi credendo che il cuore avrebbe cessato di palpitare in quel
preciso istante.
Sbatté
più volte le palpebre come fossero le ali di un airone e lentamente si riprese
dallo stato di forte inquietudine.
Le
dita brandivano la lettera ma parevano incapaci di rivelarne il contenuto.
Una
sensazione acuta, indefinita, si impossessò di lei.
Subitaneamente,
fiotti di lacrime presero a scenderle copiosamente, certe di cosa avrebbero
letto i suoi occhi.
E’ buio…o forse no…forse, sono solo i miei occhi che intrepidi
attendono un’alba che non c’é.
I miei occhi così spenti, così oscuri.
Non sento neppure la mia voce, la sua eco indistinta trova
dimora chissà dove, lontana da me.
Vedo le mie braccia, le mie gambe, inermi, a qualsiasi movimento.
Giorno per giorno, le immagini si ripetono alla mia vista, ma io
non le vedo.
Tento di distinguerne i contorni, ma vedo solo lei.
Cosa c’è oltre le mie iridi mamma?
Cosa posso vedere fuori da questi miei occhi?
Nulla.
E sento un peso enorme, ingombrante, immane, sul mio cuore. Mi
lacera l’anima mamma, non riesco a respirare, a sospirare, a sibilare.
Sono qui, fuori dal mondo con i miei dolori, i miei peccati.
Saturo d’un presente buio, privo di ogni sole, di una luce che possa brillare
per me, per noi…
Dov’è lei, mamma?
E’ forse oltre quel mondo privo di sofferenza e peccato?
E’ forse laggiù? Oltre l’irraggiungibile?
Vedo le tue mani mamma. Tese, che mi cercano, ansiose di
guidarmi verso un cammino che non è il mio, per impedirmi di cadere.
Ma io sono già caduto mamma, in questa vita che un fardello
troppo pesane mi ha addossato. E non riesco ad alzarmi, mamma.
Non riesco a raggiungere le tue mani.
La mia mente tenta invano di difendersi dal cuore adirato, dal
mio sangue che fluisce in una piena torrenziale che scorre via portando con se
ogni mio desiderio di vita.
Mi travolge, ed io ansimo.
Perché ci sono mamma?
Perché respiro ancora?
Cosa faccio ancora qui?
Perché cammino in un mondo che non voglio?
Alzo il capo al cielo.
E’ bianco, mamma. Scende la neve.
Com’è bella la neve.
La sento. E’ qui, sulla mia mano. Soffice, candida, bianca,
pulita. Gelida. E’ forse questo il gelo che copre il mio cuore, mamma?
Mi dispiace mamma.
Cado e non riesco ad alzarmi, non ho la forza di raggiungere le
tue mani.
Mi dispiace.
Mi dispiace.
Mi dispiace.
Vorrei tanto poter reagire mamma, ma non ce la faccio.
Vorrei tanto trovare il modo di rialzare il capo, le mie stanche
membra…ma è tutto così strano intorno a me.
Lei sta andando via mamma, ed io non posso lasciare che vada
senza di me.
Non questa volta.
Non ce la farei.
Mamma, ti ricordi di quand’ero campione?
Non liberartene mai, non buttare mai quei ricordi mamma, lascia
che possano respirare sulla tua pelle, che possano vivere dentro di te.
A volte sai, quei ricordi, i miei sogni, le mie emozioni,
potranno consolarti mamma…un giorno che non potrò raccontarteli, che non potrai
leggere di me, quel giorno non molto lontano, mamma, permetti a quelle immagini
di sfiorare la tua mente e di vivere di me.
Lasciali vivere li, dentro di te.
Conservali nello scrigno del tuo cuore e rendili orgoglio di una
vita spezzata, luce di un domani che potrà ancora esserci sul tuo cammino.
Saranno brevi, forse lunghi, intensi, caldi, freddi, luminosi o
bui, saranno i miei pensieri mamma, e li ritroverai ogni volta che nei tuoi
occhi vedrai il mio sorriso.
E se chiuderai gli occhi, sentirai i miei passi, la mia risata,
la mia evanescenza.
Tutto di me, sibilerà intorno a te come una dolce carezza.
Sarò io mamma, e sarò accanto a te.
Perdonami mamma.
Se stai leggendo questa lettera, è perché è già accaduto.
Ti vedo mamma.
Sei riversa su di me, incredula e inerme. Non sai cosa fare.
Nemmeno io lo so mamma, sono solo un piccolo uomo che sta
compiendo un atto d’amore.
Vorrei poter trovare le parole per spiegarti, ma non è facile.
Non riesco neanche a spiegarlo a me stesso.
Un giorno non molto lontano, qualcuno ha oscurato il mio sole ed
io, non riesco a farne a meno.
Non posso.
Il suo respiro, mamma, lo sento sul mio, come la sua pelle, le
carezze, i baci che mi sfiorano.
Mi manca tutto di lei. Il suo profumo, la sua vita che è anche
la mia.
E allora mamma, se lei sta andando, devo seguirla.
So che non mi comprenderai.
Non c’è spiegazione, versi, sguardi, nulla che possano
giustificare, ma non c’è niente neppure per lenire il mio dolore mamma, il mio
insaziabile desiderio di lei.
Mamma, quando sarò terra dei ricordi, sfiorami con la tua mano gentile,
accarezza il mio cuore e senti la mia essenza, l’amore e la passione consumata
bagnata dal sole della gioventù, danzante sulla brezza dell’inverno.
Perdonami mamma, per la tua sofferenza, per quella di papà e di
mio fratello.
Perdonami…ma se l’ho fatto, è stato perché non avevo scelta,
nella piena consapevolezza mamma, che rinascerò ancora, con lei accanto,
nell’amore che da sempre ci ha legato e che indelebile resterà nel tempo.
Mamma, quando ti sentirai sola, leggimi in queste righe.
Trovami tra i versi di questa lettera che ti ho lasciato quale
simbolo del mio incommensurabile affetto.
Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto.
Nulla potrà mai cambiare l’affetto che nutro per te, mamma.
Non piangere mamma, io sarò sempre con te.
Ovunque tu mi cercherai, io ci sarò.
Sarò il primo raggio di luce mamma, al risveglio al mattino, e
l’ultima stella che brillerà in cielo prima che la notte ti culli nella sua
quiete.
Sarò il sorriso di mio fratello mamma, e quando lui ti
accarezzerà, sentirai la mia mano sfiorare la tua gota.
Quando i suoi occhi brilleranno, vedrai rifulgere i miei.
Non temere mamma, non andrò via per sempre.
Sarò sempre qui, al tuo fianco.
Con lei, mamma.
Lascia, mamma, che io viva nell’Eternità.
Se
la brezza fosse divenuta una folata impetuosa, non avrebbe avuto modo di
accorgersene.
Era
lì, immobile e indefinita tra le parole di quella lettera.
Fu
un gesto compulso il suo.
Strinse
i fogli tra le mani e drizzò in piedi correndo via oltre il cancello.
Non
capiva, non sentiva, non cercava. Sapeva solo che le sue gambe correvano chissà
dove, verso un luogo che evidentemente sapevano cercare.
Quasi
un magnetismo, ad attirarla.
Correva.
A perdifiato, senza fermarsi.
Solo
il tramonto la seguiva, nei suoi intarsi d’oro sparsi qua e là in una volta
intinta nell’arancio.
Poi,
arrestò il passo. Non aveva bisogno di andare avanti.
Era
arrivata alla sua destinazione.
Rimase
immobile di fronte la pietra bianca. Una stele che si innalzava nel prato verde
e riportava due date troppo vicine tra loro.
Il
fiato le usciva a fiotti ed affannato ma poco a poco, si equilibrò.
Strinse
gli occhi in esili fessure, quasi impercettibili iridi volte a guardare con
iracondia quella tavoletta di pietra bianca.
-
Come hai potuto?
COMEEEEEEE???????? – urlò con tutto il fiato che aveva.
-
E adesso cosa me ne faccio di
questa lettera? COSAAAAAAAAAAAAAAAAAAA? Tu non ci sei, te ne sei andato,
MALEDIZIONE! Non ci sei più ed io non ce la faccio…senza di te! – sibilò dopo
le urla, lasciandosi cadere sulle ginocchia.
Erano
l’uno di fronte all’altra.
-
Perché l’hai fatto? Perché
sei andato via? Perché sei morto e mi hai lasciato in quest’oblio? – sussurrò
mentre i singulti prendevano il posto delle parole.
-
Perché non posso più
accarezzarti? – domandò alla piccola lapide sfiorandola con il palmo.
-
PERCHEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE????
– urlò colpendo il rettangolo di pietra con i pugni.
-
Mamma… -.
La
sua voce la raggiunse nell’immediato. Come il melodioso suono di un flauto
dolce, ne avvertì scorrere le note e raggiungere il cuore.
Fremiti
cominciarono a percorrerle il cuore. Alzò il capo e con gli occhi arrossati dal
pianto, cercò con smania la figura.
Si
voltò quindi e rimase accecata dal sole.
L’astro,
nella sua immensità, troneggiava imponente nel cielo e dinanzi a lui, come un
umile suddito, una sagoma dai colori appena percettibili alla penombra del
crepuscolo.
Tremanti,
le labbra erano incapaci di unirsi in una smorfia o semplicemente di sibilare qualche parola.
Il
cuore era fermo lì, in gola, a serrarle i suoni del cuore.
Levò
adagio un braccio verso quell’ombra, con le gambe ancora ripiegate su se
stesse.
-
Tu…-
-
Mamma…non piangere! Io sono
qui. – le disse chinandosi all’altezza. - Mi dispiace, mamma. Sono io fonte
della tua disperazione, e me ne dolgo, mamma. Mai avrei voluto darti tanta
angoscia. Perdonami, se puoi. Comprendimi se puoi. –
-
Io…-
-
Ssst….non temere: io sono
qui, per te…solo per te. – le sussurrò ancora regalandole un sorriso
disarmante.
Continuava
a guardare la sagoma dai contorni indistinti, a tremolare sotto i suoi occhi,
con la mente in preda ad un turbinio di pensieri.
L’arancio
si stava scaldando in un acceso carminio mentre il sole, lentamente, si
spegneva dietro l’orizzonte.
-
Cercami mamma…ovunque tu
vorrai, io sarò, accanto a te. Non mi hai perduto mamma, non accadrà mai perché
io vivrò nei tuoi occhi. Non scordarlo mai. –
-
Come faccio, senza di te? –
-
Devi andare avanti mamma, per
papà, per mio fratello, per te…e per me. Devi preservare il mio ricordo,
viverlo nel sorriso e nell’affetto. Io
ci sarò sempre, mamma. – le disse sorridendole con un volto ricolmo di quiete.
Continuò
a scrutarne gli occhi chiusi e comprese che era in pace con se stesso. Oltre
quelle onici brillanti, non c’era inquietudine, rabbia, solo serenità, la pace
interiore di un amore ritrovato.
Allungò
morbidamente una mano fino a che la guancia non fu chiusa nel suo palmo.
E
lei provò subito un immenso calore, un’indistinta sensazione di quiete. Era di
fronte a lei, e le sorrideva.
Chinò
le palpebre quasi a voler trattenere quell’indicibile dolcezza, quel contatto
etereo eppure così reale.
Poi,
allungò la mano sulla sua, fino ad intrecciare le dita.
Riaprì
gli occhi e la sua immagine era ancora lì, affievolita dall’incalzante
notturno.
Il
porpora stava cedendo il passo all’indaco.
-
Ti voglio bene, mamma. –
Le
lacrime sgorgavano copiose, incancellabili.
-
Anche io. Per sempre! –
esclamò con un sorriso appena accennato sul volto.
-
Ciao mamma. –
-
Ciao…Holly! -.
(*) da ”I giardini che nessuno sa” di Renato Zero
In
attesa della pubblicazione del nuovo capitolo di Orchidea Selvaggia (in
lavorazione), ho deciso di pubblicare una One Shot – Spin Off di Tradimento
d’Amore scritta l’anno scorso.
Buona
lettura a chiunque vorrà leggermi.