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Autore: sonyx1992    12/11/2013    0 recensioni
Storia 3° classificata al concorso "Viva le Emozioni" indetto da Frantasy94.
Sara e Francesco si sono ancora visti ma ora non si riconoscono più. Eppure uno ha cambiato la vita dell'altro. Lei ricorda ancora le sensazioni che le erano rimaste di quel giorno; lui ripensa al desiderio che gli è nato di voler dare un po' di colore a quel mondo nero.
Ma il treno corre, ha degli orari da rispettare, non aspetta. Francesco, vestito di nero e grigio, corre per prenderlo; Sara, che vuole essere notata per i suoi colori stonanti, ha smesso d'inseguirlo già da un po'.
"Sara non poteva rispondere alle sue richieste ma ad una sì, ad una lei conosceva bene la risposta. Era quella che l’aveva spinta lì, su quella panchina, che la faceva fuggire di casa ogni giorno, che la faceva nascondere in abiti sgargianti in una folla nera. Era la cosa di cui aveva voluto liberarsi e contro cui non riusciva a vincere completamente.
Afferrò la penna, girò il foglio e rispose: “E’ l’indifferenza della gente”."
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia 3° classificata al concorso “Viva le Emozioni!” indetto da Frantasy94.

3°posto: Il treno del mistero di sonyx1992

Storia molto originale, complimenti! L’attinenza al luogo e all’emozione erano impeccabili, hai perso un punto sull’utilizzo dei prompt perche non hai inserito le forbici, peccato! Lessico e grammatica hai fatto un errore stupidissimo di battitura e per questo non ho potuto darti il 10 (Lei s sedeva lì).

Lo stile e buono, ma quando cambi i punti di vista (luilei) ti conviene segnalarlo, perché puoi mandare un po’ in confusione il lettore, e personalmente a me è successo ecco perché 6 nel gradimento.

http://freeforumzone.leonardo.it/d/10329000/viva-le-emozioni-/discussione.aspx/1

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IL TRENO DEL MISTERO

Siamo figli del nulla, figli di una generazione che ha vissuto troppo e che ha esaurito le energie per continuare a vivere. Figli di una società che ha picchiato troppe volte la testa e si protegge, ora, con elmi corrotti. Siamo padri di un futuro incerto e spaventoso, che neanche i Maya con i loro calendari riescono a prevedere. Siamo discendenti di un passato folle, stremato, stanco di combattere.

Siamo ragazzi imprigionati che sognano la libertà degli uccelli nel cielo. Intrappolati in una rete tecnologica, con wi-fi, internet, browser e tablet. Costretti ad adeguarsi ad un mondo che si evolve in fretta e che non aspetta.

Chi rimane indietro, non vale niente. Non serve a niente.

Sei inutile e lo sai. Ma ti devi adattare. Devi accettarlo.

 

Sara non voleva essere inutile. Non voleva essere buttata da parte, essere disprezzata o, peggio ancora, diventare invisibile agli occhi degli altri.

Per questo motivo, si vestiva sempre con colori sgargianti e vestiti appariscenti. Solo per farsi notare. Per essere ancora vista.

Come quel giorno, mentre sedeva su una delle panchine della stazione: indossava una felpa grande, da uomo, con le spalle larghe e di un rosso fuoco, che bruciava. Una scritta gialla era disegnata sul petto, cosicché gli occhi della gente erano costretti a posarsi proprio su di lei e su quei due colori troppo forti per stare bene insieme.

Era una felpa orribile e Sara la odiava. Soprattutto quel giorno, quando l’aveva abbinata a pantaloni verdi e a scarpe nere, basse.

In fondo, però, non le importava molto di cosa pensava la gente di lei; se ridevano del suo modo di vestire o se la ammiravano. L’importante è che la notassero. Punto.

Accanto a lei, quel giorno, seduto sulla sua stessa panchina, c’era qualcuno. O meglio, qualcosa.

Una scatola era stata impacchettata con cura, con una carta da regalo bianca ed un fiocco blu. Nessuno avrebbe potuto credere che proprio quella ragazza vestita con colori contrastanti era l’autrice di quel pacchetto. Perché da lei ci si poteva aspettare dei toni altrettanto fastidiosi messi insieme, magari in tinta con quella sua ridicola felpa e non di certo delle tonalità così perfette insieme. Sembrava assurdo, ma Sara era così. In fondo, in fondo, dentro di lei, i colori erano in armonia. Solo in superficie stonavano fra loro.

 

“Il treno delle ore 18.45 è in arrivo al binario 2. Non superare la linea gialla.”

La vocina metallica ripeteva le parole con freddezza, senza accorgersi che la sua debole voce si perdeva nel rumore della stazione.

I treni fischiavano e le voci delle persone si perdevano tra gli stridii dei binari.

Al binario 2, pressoché affollato come al solito, Sara perdeva il suo sguardo nel vuoto, poco interessata alla fretta della gente che attendeva con impazienza il treno.

Vestita con i suoi colori sgargianti e le scarpe nere, fissava un punto indefinito di fronte a sé, con la testa che viaggiava chissà dove.

Aveva pensieri disordinati lei e spesso non riusciva a stargli dietro completamente; riusciva a perdersi perfino nella sua mente, come se non riuscire a stare al passo con la realtà non fosse sufficiente.

Non riusciva a capirlo, lei, quel mondo frettoloso che non aveva neppure il tempo di fermarsi per aspettarla.

Ormai, si rendeva conto che faticava perfino a sopportarlo. Era stanca di andare avanti, di strascicare i piedi, di cercare la forza per correre ma subito dopo perderla ed inciampare.

Andare in quella stazione e sedersi su quella panchina erano un pausa. Lei si sedeva lì e osservava le altre persone affannarsi e tentare disperatamente di non inciampare come lei, per prendere in tempo il loro treno.

Poi, dal nulla, lo sguardo di Sara cadde accanto a sé, mentre la sua mano tastava un materiale che, ormai, riconosceva d’istinto.

I suoi occhi chiari fissarono, vuoti e stanchi, il pezzetto di carta piegato e indirizzato a lei. O, meglio: alla “ragazza dai colori sgargianti”.

Le sembrava buffo che qualcuno la chiamasse così, riconoscendola per i suoi vestiti.

E meccanicamente, come faceva ormai ogni volta che trovava un biglietto per quella ragazza dagli strani colori, lo aprì con le dita, delicatamente, leggendo quelle parole dall’inchiostro nero.

**************************

Francesco aveva conosciuto Sara proprio lì, in quella stazione, con indosso le sue tinte strambe. I suoi colori l’avevano colpito subito. Era impossibile non notarla.

Lui aveva le cuffie nelle orecchie, il passo spedito, un treno che stava per perdere. E lei, invece, era lì, seduta tranquillamente su quella panchina a sfoggiare la tinta inguardabile dei suoi abiti.

L’amò, fin da subito. Non ne capì il motivo, ma il solo notarla da lontano, il solo scorgere il suo sguardo distaccato e perso nel vuoto gli fece battere forte il cuore. E rallentò la sua corsa.

All’improvviso non gli importava più del treno che avrebbe perso e della fretta che aveva.

Voleva solo sedersi anche lui su quella panchina, vestirsi nello stesso modo di lei e farle compagnia.

Mystery Train di Jon Bon Jovi rimbombava nelle sue orecchie e nel suo cervello. Anni dopo, avrebbe ricordato ancora quella canzone e, inconsciamente, l’avrebbe ripetuta dentro di sé, pensando a lei.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“She's a ride on a mystery train

To a place you've never been before

Better hold on tight to that mystery train

You're not in Kansas anymore

She's a ride

Mystery train”

 

 

“Lei è la corsa di un giorno sul treno del mistero

Per un posto in cui non sei mai stato prima

Meglio tenersi aggrappati a quel treno del mistero

Non siamo in Kansas, non più

Lei è una corsa sul treno del mistero.”




 

 


Il treno del mistero. A quel tempo, Francesco non sapeva ancora cos’era e non aveva mai preso un treno del genere.

Lui era sempre stato abituato a sapere quello faceva e, soprattutto, a conoscere il posto dove stava andando. Il treno del mistero non era proprio nei suoi pensieri.

Eppure, quel giorno, i suoi piedi si mossero da soli, verso quella panchina. Si fermarono davanti alla ragazza con i colori appariscenti ed attesero con calma che lei alzasse lo sguardo.

Sara lo fece e si ritrovò davanti un ragazzino della sua età, debole, inerme, fragile. I vestiti scuri, tutti dello stesso colore: grigio topo, nero. Portava toni muti e freddi quel ragazzo, non le piaceva per niente.

Eppure, non capiva i suoi piedi, che lo avevano portato proprio lì, davanti a lei.

“Ti serve qualcosa?”, domandò con voce sicura. Si accorse solo dopo aver parlato che lui aveva le cuffie nelle orecchie e non poteva sentirla.
Francesco, al contrario, l’aveva sentita benissimo. Ma non riusciva a muoversi. A parlare. Quasi temette che anche il respiro si fosse fermato.
Neppure quando lei si era alzata di scatto da quella panchina, sentendosi presa in giro da lui, riuscì a fermala, restando inebetito a fissarla mentre scompariva tra la gente.


Il giorno seguente, Francesco tornò lì, in quella stazione, al binario 2.
Anche Sara ci ritornò e, come sempre, si sedette sulla sua panchina, pronta a sfoggiare i suoi nuovi colori, disordinati come al solito.
Lui, questa volta, decise di essere più prudente. Si fermò lontano, appoggiandosi ad una colonna e, di tanto in tanto, la fissava di nascosto, facendo attenzione che lei non si accorgesse di nulla.
Fortuna che Sara non si guardava in giro spesso e teneva sempre il suo campo visivo fisso davanti a sé, perso nel vuoto di un punto misterioso e di qualche pensiero ignoto.
Si incontravano sempre, tutti i giorni, in quella stazione, a quel binario, lei seduta sulla panchina, lui appoggiato ad una colonna con le cuffie infilate nelle orecchie, sperando, un giorno, di trovare il coraggio per avvicinarsi a lei di nuovo, facendo breccia nel campo visivo dei suoi pensieri. Non lo trovò mai.


L’inverno arrivò gelido ed improvviso, portando con sé una leggera folata di coraggio che serviva a Francesco.
Sara, quel giorno, aveva i colori più ordinati del solito e gli occhi tristi, nascosti da una testa bassa.

Sembrava che non le importasse più dello sguardo della gente, che avesse imparato a vivere senza l’attenzione degli altri; pareva che avesse capito che, nonostante tutto il suo impegno, restava sempre sola in quel mondo.

Poi, alla stessa ora, se ne andò, lasciando dietro di sé solo più desolazione ed una panchina vuota.

Francesco si avvicinò e vi si sedette, tirando un grosso respiro per poi guardare a fianco, dov’era seduta lei prima. Vi appoggiò sopra una mano, immaginando di toccare la sua. Infine, chiuse gli occhi, per rendere tutto più vero e reale.

Non seppe quanto tempo restò lì ma, quando si alzò per andarsene, una cosa era certa: la panchina non era più vuota e sola. Un bigliettino per Sara era stato lasciato lì da qualcuno.

Quando, il giorno seguente, Sara si sedette sulla sua panchina, non notò subito quel pezzo di carta piegato.
Lo sbirciò di tanto in tanto, con quella curiosità timida che ti trattiene dall’interessarti delle faccende altrui.
Sapeva di non essere la destinataria di quel bigliettino ma non poteva impedire ai suoi occhi di caderci sopra ogni volta, con un interesse sempre più incontenibile.
Infine, non si trattenne più: si sbirciò intorno, ancora titubante e diffidente, per poi afferrarlo con una mano e tenerlo stretto, come un tesoro.
Quando fu sicura che nessuno le prestava attenzione, aprì il palmo della mano davanti ai suoi occhi per studiarlo meglio.
Una scritta riportava:
“alla ragazza dai colori sgargianti”.
Lo aprì, presa da una curiosità improvvisa quanto inarrestabile e il suo sguardo scorse, impaziente, la calligrafia incerta e nera che colorava il foglio. Di certo, era la scrittura di un ragazzo.

 




 

“You with the sad eyes

Don’t be discouraged

Oh, I realize

It’s hard to take courage

In a world full of people

You can lose sight of it all

And the darkness inside you

Can make you feel so small”

 

“Tu con gli occhi tristi

non scoraggiarti

ho capito che

è difficile prendere coraggio

in un mondo pieno di gente

puoi perdere tutto di vista

e l’oscurità dentro te

può farti sentire così piccolo”





Una canzone. O una poesia, non lo sapeva. Scritte così, quelle parole non le ricordavano niente che avesse sentito o letto quindi non lo sapeva.
Arrossì. Distolse gli occhi dal bigliettino e si osservò intorno, cercando, tra la gente, l’autore di quelle parole.

Un ammiratore segreto? Una coincidenza? Un maniaco?
Sara non lo sapeva. Ma per quanto fosse assurdo quel biglietto e inutili tutte le domande che si faceva, quelle parole la fecero sorridere.


Nei giorni a venire, i messaggi si ripeterono e Sara si ritrovava ad aprirli, ogni volta, con una curiosità insensata.
In ognuno c’erano canzoni, pensieri, poesie, frasi dedicate a lei o pensate per lei.
Una volta, si fece coraggio e decise di rispondere; quella mattina, prima di uscire di casa, si era portata apposta con sé una penna, che ora le tremava tra le dita.
Girò il fogliettino su cui era scritta la frase di quel giorno e, appoggiandosi alla panchina, domandò:
“chi sei?”.
Il giorno dopo, il biglietto era lì e sotto la sua scrittura incerta c’era la calligrafia nera che rispondeva:
“Uno che ha bisogno di sedersi accanto a te”.

Iniziarono a scriversi attraverso i fogliettini bianchi lasciati sulla panchina.
Meglio del cellulare. Anche se, a volte, capitava che quando Sara arrivava il bigliettino non c’era e se l’era rubato il vento o qualche passante incuriosito. Allora soffriva e se ne dispiaceva.

Ma quando poteva prenderli, stringerli, leggerli e rispondere, si sentiva felice e accettata. Non dal mondo vero, per quello non bastavano dei messaggini con uno sconosciuto, ma da un piccolo spazio, una piccola parte di quella realtà che tanto cercava d’inseguire.
L’ultimo bigliettino lo stringeva proprio tra le mani e riportava solo una breve frase:
“guarda sotto la panchina”.
Lei si abbassò e sotto vi trovò un involucro, appoggiato contro il muro.
Se lo mise sul grembo e lo aprì. Il cd riportava la scritta:
“alla ragazza dai colori sgarcianti” ed una piccola dedica, scritta su un altro fogliettino: “per ascoltare la stessa musica che parla di te”.
Quel giorno, Sara era tornata a casa prima del solito. Si era chiusa in camera, chiudendo fuori il mondo, la sua fretta e i suoi problemi e inserì il cd nello stereo. Ascoltò le canzoni senza mai fermarle, lasciandole scorrere libere come gabbiani, come volavano liberi i suoi pensieri. Di alcune coglieva parole, di altre si accontentava di seguire il ritmo.
Poi, arrivò quella del primo biglietto. Riconobbe immediatamente le parole. Era True Colors di Cindy Lauper. Ed era per lei. Parlava di lei. Era stata dedicata a lei.
Ascoltò quella canzone più volte, con un’emozione sempre più forte, finché non le scoppiò dentro e non le uscì dagli occhi, bagnando il suo viso con lacrime salate.
Amava quella canzone e amava la persona che gliel’aveva dedicata.


Le settimane passarono e con esse, i messaggi indirizzati a Sara dai colori sgargianti.
Poi, un giorno lesse il suo messaggio:
“Vorrei sapere chi sei, cosa fai, perché vieni qui, tutti i giorni, alla stessa ora e ti siedi su quella panchina a fissare il vuoto. Vorrei sapere cosa ti turba e cosa ti spinge a vestirti in modo diverso dagli altri. Vuoi distinguerti ed è proprio grazie a questo che ho scorto i tuoi colori in questa macchia nera. Vorrei sapere cosa mi ha spinto a scriverti, cosa mi attrae di te. Vorrei capire perché sento di amarti e se è vero o se è il mio cuore impazzito. Vorrei parlarti e dirti tutto, farti compagnia, ascoltarti e sedermi lì, accanto a te, dove c’è sempre quel posto vuoto. Ma, soprattutto, vorrei capire cosa mi frena”.

Sara non poteva rispondere alle sue richieste ma ad una sì, ad una lei conosceva bene la risposta. Era quella che l’aveva spinta lì, su quella panchina, che la faceva fuggire di casa ogni giorno, che la faceva nascondere in abiti sgargianti in una folla nera. Era la cosa di cui aveva voluto liberarsi e contro cui non riusciva a vincere completamente.

Afferrò la penna, girò il foglio e rispose: “E’ l’indifferenza della gente”.

A quel punto, la situazione sembrò capovolgersi. Non era più Francesco a consolare Sara con le sue parole, ma il contrario. Era arrivato il suo turno di scoprirsi, di lasciarsi conoscere da lei.
Sara se n’era appena andata quando si era seduto sulla panchina ed aveva aperto il bigliettino che gli aveva lasciato:
“Voglio vedere i tuoi colori”.
Francesco abbassò lo sguardo sulla sua maglietta nera e i suoi jeans scuri. Sospirò e appoggiò la penna nera sul foglio bianco.
“Sono solo una macchia. Non mi riconosceresti nella folla. Mi confondo facilmente e seguo la corrente. Faccio parte dell’indifferenza della gente.”.
Il giorno dopo si rattristì nel vedere Sara delusa da quelle parole. Ma lei non si arrese. Si guardò intorno lo stesso, alla ricerca di lui, sicura di poterlo riconoscere lo stesso.
Francesco non si nascose al suo sguardo, nemmeno quando si posò su di lui, appoggiato alla colonna.
Fu una frazione di secondo, ma Sara non lo vide lo stesso.
Si confondeva nella macchia nera.

“Non poterti vedere mi fa sentire sola.”

Le mani di Francesco tremarono, incapaci di fare qualcosa. Si sentiva un vigliacco ma, nonostante tutto, non trovava il coraggio di avvicinarsi a lei e sedersi su quella panchina. Non capiva cosa lo tratteneva. La paura di deluderla, rovinare tutto? Proprio non lo sapeva.

Girò il foglio che riportavano le ultime parole di Sara e vi appoggiò sopra la penna. Restò lì per qualche secondo, con la biro immobile, senza riuscire a muoverla per tracciare delle parole, mentre lei lasciava un piccolo puntino nero su quel foglio bianco.

E, improvvisamente, si rese conto che quel puntino sembrava lui. Erano dello stesso colore ed entrambi erano piccoli ed inutili. Ma quando quel puntino si muoveva, quando usciva dai suoi contorni e disegnava lettere e parole, riusciva a consolare una ragazza. Riusciva a farla sorridere e a darle sollievo. Diventa utile e necessario per qualcuno.

Ma Francesco non era ancora pronto per uscire dalla folla di quel foglio bianco.

 

Sara si rigirò il foglio tra le mani, per cercare la calligrafia nera di lui. Ma, oltre alle sue parole, non c’era nient’altro. Che non avesse trovato il biglietto?

Lo ripiegò con cura e lo mise dove lo aveva trovato, sicura di trovare la sua risposta quando l’avrebbe aperto l’indomani.

Ed invece niente, quel foglietto restò bianco ed abbandonato su quella panchina.

L’ammiratore segreto o il maniaco non c’erano più. Francesco non c’era più.

E Sara si ritrovò di nuovo sola a mostrare i suoi colori da quella panchina, mentre si ricordò il motivo per cui tornava sempre in quella stazione, tutti i giorni.

****************

 

Lei l’aveva deciso subito, appena aveva messo piede fuori casa. Voleva un cambiamento, forte e decisivo, che le avrebbe cambiato la vita e che, con un salto, l’avrebbe aiutata a raggiungere quel mondo frettoloso.

Era entrata nella stazione e si era avvicinata alla linea gialla, nel binario 2. Abbassò lo sguardo e la fissò, inerme alla gente che le passava intorno.

Quel giorno, indossava ancora i colori freddi della folla: bianco, nero, grigio.

Avrebbe preso un treno e sarebbe andata via, lontano, dove poteva ricominciare da capo, dove poteva riprendere la corsa dietro al tempo.

Qualcuno le arrivò dietro e, senza riuscire ad evitarla, si scontrò con lei, facendola cadere oltre la linea gialla.

Sara vide il tempo rallentare, come una magia. Sembrava che il suo corpo ci impiegasse un’eternità a superare quella linea d’arresto.

Poi, una mano l’afferrò per il polso e la tirò indietro. Lei si voltò e i suoi occhi si scontrarono con un viso magro, debole, minuto. Un ragazzo la fissava preoccupato, impedendole di cadere oltre la linea.

“Stai bene?”

Portava colori freddi, uguali a quegli degli altri: grigio topo, nero. Si chiamava Francesco.

E aveva portato Sara ad un cambiamento: l’aveva spinta a modificarsi, a comprarsi nuovi vestiti, ad uscire dalla macchia.

Quel breve incontro le aveva cambiato la vita.

E non le fece mai dimenticare il tempo che si rallentava mentre cadeva oltre la linea.


**************

Francesco non ricordava quell’incontro e quando si erano visti per la seconda volta, con lui che si avvicinava a lei e alla sua panchina, nemmeno Sara l’aveva riconosciuto.

Ma qualcosa li avvicinava e li attraeva a vicenda.

Sara tornava in quella stazione per ricordare quel giorno: si sedeva su quella panchina e fissava la linea gialla che aveva oltrepassato.

E Francesco, dopo qualche giorno di silenzio ed indecisione, riprese a scriverle. Le parole, quel giorno, tremavano perfino sul foglio: “Ho bisogno di te”.

 

Sara lesse il biglietto e lo richiuse, tornando a fissare la linea gialla.

Si alzò dalla panchina, tornò a casa e si chiuse nella sua camera, gettandosi sul suo letto, portandosi quel bigliettino con sé.

Poi, chiuse gli occhi e appoggiò un braccio sopra la fronte, respirando profondamente.

Accese lo stereo, il cd per lei incominciò a cantare e le sue parole attraversarono Sara con violenza.

Il giorno dopo, tornò alla stazione con un pacchetto regalo, dalla carta bianca e il fiocco blu. Lo portava sotto al braccio e quando si sedette sulla panchina, lo appoggiò accanto a sé.

Poi, dal nulla, lo sguardo di Sara cadde accanto a sé, mentre la sua mano tastava un materiale che, ormai, riconosceva d’istinto.

I suoi occhi chiari fissarono, vuoti e stanchi, il pezzetto di carta piegato e indirizzato a lei. O, meglio: alla “ragazza dai colori sgargianti”.

Le sembrava buffo che qualcuno la chiamasse così, riconoscendola per i suoi vestiti.

E meccanicamente, come faceva ormai ogni volta che trovava un biglietto per quella ragazza dagli strani colori, lo aprì con le dita, delicatamente, leggendo quelle parole dall’inchiostro nero.

 

 

 


“And I’ll see your true colors

Shining through

I see your true colors

And that’s why I love you

So don’t be afraid to let them show

Your true colors

Your true colors

Are beautiful

Like a rainbow”

 

“E io vedo i tuoi colori veri

che risplendono dentro te

vedo i tuoi colori veri

ed è per questo che ti amo

quindi non avere paura

di mostrarli

i tuoi colori veri

i colori veri sono belli

come un arcobaleno”


 

 

Era un atro pezzo di True Colors, la sua canzone.

Sara socchiuse gli occhi, abbassando le sopracciglia e si sforzò di tenere indietro le lacrime che le pizzicavano gli occhi.

“I miei colori veri, eh?”, sussurrò a bassa voce, fissando poi il pacchetto regalo accanto a sé, con i suoi toni ordinati e perfetti.

Infine, prese la penna, girò il foglio e rispose al biglietto. Lo piegò con cura e lo nascose sotto la panchina, appoggiandovi vicino il suo pacchetto regalo.

“Il treno delle ore 18.45 è in arrivo al binario 2. Non superare la linea gialla.”

Sara si alzò dalla panchina e mosse passi incerti ed indecisi verso il binario. Quel giorno, indossava una felpa rossa e dei pantaloni verdi. Sul petto riportava una scritta gialla a caratteri cubitali: “Be yourself”.

Si fermò vicino alla linea gialla e si fissò le scarpe. Sorrise amaramente, perché quelle erano la sola parte di lei ad essere rimaste uguali, nere come la folla.

Un rumore metallico iniziò ad avvolgerla, portando con sé l’eco di un treno in arrivo.

Francesco era in ritardo quel giorno. Non era lì, per fermarla, afferrare il suo polso e tirarla indietro.

E Sara ricordava quel tempo che aveva rallentato appena aveva oltrepassato quella linea. L’aveva capito fin da subito, fin dal primo giorno: era quello che le avrebbe permesso di raggiungere di nuovo il mondo che le sfuggiva.

Era rimasta indecisa per mesi, continuando a tornare a quella stazione per sedersi su quella panchina ma, finalmente, oggi, in quel giorno, era riuscita a ritrovare il coraggio di avvicinarsi di nuovo a quella linea.

Il treno stava arrivando. Era il treno del mistero, che l’avrebbe portata chissà dove, quello di cui cantava Bon Jovi nelle orecchie di Francesco. Il treno del mistero.

Sara alzò la testa, fissò davanti a sé, sorrise. Infine mosse un piede, poi l’altro. Attraversò la linea gialla e il tempo si rallentò, come sotto l’effetto di un incantesimo.

Sentì il treno arrivare, la gente inorridire. Lo stridio dei freni mentre cadeva sulle rotaie fredde, il dolore mentre il suo corpo si scontrava contro quel duro materiale. Le fitte improvvise e rapide che l’attraversarono quando il treno le arrivò contro.

Ma fu solo un attimo. Il tempo che, fino a poco prima, si era rallentato, ritornò a scorrere veloce e rese rapido il dolore e la morte di Sara.


*************

Francesco si sedette sulla panchina, il volto rigato dalle lacrime. Lasciò cadere le braccia accanto a sé ed alzò lo sguardo, mentre le gocce che uscivano dai suoi occhi gli bagnavano le orecchie, quel giorno libere dalle cuffie.

Il binario era stato chiuso, recintato dal filo della polizia che teneva lontani i curiosi e la folla.

Non c’era nessuno. Era sera tardi e la stazione era, ormai, chiusa. Francesco aveva oltrepassato il nastro giallo che gli ordinava di stare indietro e si era seduto su quella panchina.

Improvvisamente, senza alcun senso, iniziò a guardarsi in giro, alla ricerca di un messaggio da lei.

Lo trovò, era sotto la panchina, appoggiato al muro.

Francesco prese il pacchetto regalo e il biglietto e se li mise sulle gambe.

Si stupì dei colori che aveva scelto Sara: bianco e blu, ordinati e perfetti insieme.

Francesco lo aprì lentamente, sciogliendo il nastro e tirando via la carta bianca. Infine aprì la scatola che conteneva il regalo di lei.

Quando lo vide, gli occhi iniziarono a sgorgare più lacrime. Francesco tirò fuori l’orsacchiotto peluche e lo tenne davanti a sé. Aveva indosso vestiti strani, colorati, imperfetti tra loro. I colori di Sara.

Poi, prese il bigliettino che aveva scorto vicino al pacchetto, sotto la panchina.

C’era su la sua calligrafia nera, con le parole di True Colors che macchiavano il bianco. Lo girò e lesse le parole di lei, tremando e singhiozzando dolorosamente: “Ho una paura tremenda dei miei colori veri. Non riesco a vedere l’arcobaleno che dici te ma proverò a rallentare il tempo, a recuperare il mondo che ho perso, che mi ha lasciato indietro e ricomincerò da capo. Grazie di tutto, amico misterioso. Non voglio lasciarti solo in questa macchia nera. Non lo farò. Ti lascio questo peluche che porta i miei colori e che, come me, cerca di distinguersi dalla folla. Stai con lui e pensa a me.”

Francesco si raggomitolò su se stesso e appoggiò la testa tra le sue ginocchia. Strinse forte il peluche contro il suo petto, pensando di stringere Sara.

Lei non tornerà più. Lei ha ricominciato da capo, è corsa con i suoi abiti sgargianti dietro a quel mondo che la voleva lasciare indietro. Lei è una corsa sul treno del mistero.


 

   
 
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