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Autore: __Stella Swan__    13/11/2013    0 recensioni
«Okay, poniamo che Arthur sia un vampiro. Perché gli davi la caccia? Non credo sia stato solo perché ha allungato le mani sulla tua migliore amica», ragionò.
Serrai le labbra e mandai giù il nodo alla gola. Pensare al momento in cui mia madre era stata uccisa mia faceva sempre quell’effetto: mi faceva sentire debole e inerme. Mi avvicinai a lui e gli presi dalle mani la foto di mia madre, osservandola in tutta la sua bellezza. «Sheila non sarebbe stata la sua prima vittima», sospirai con un filo di voce. Gabriel guardò prima la foto, poi me, accorgendosi della somiglianza dei lineamenti.
«T-tua madre è…», cominciò balbettando.
Strinsi la presa intorno alla foto e alzai lo sguardo. «È ancora viva», mi affrettai a dire, fissando Gabriel negli occhi. «Se si può davvero considerare vita».
[Tratto dal secondo capitolo]
N.B: ho già pubblicato questa storia, ma ho apportato notevoli modifiche, per questo motivo ho deciso di ri-pubblicarla, in modo da mantenere anche la prima stesura. La storia è ispirata al racconto di Meg Cabot "La figlia dell'ammazza vampiri", riprendendo i fatti principali, ma modificando i personaggi e la location.
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Ice Heart Saga'
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Un ballo bollente

Mi sentivo troppo nervosa e non era normale. Più mi fissavo allo specchio, più riuscivo a vedere quanto agitatamente si muovessero le mie mani. Non era per il ballo, o per la missione. Era perché al piano di sotto Gabriel mi stava aspettando e tutto ciò non aveva senso. Vedevo me stessa appoggiata al lavandino riflessa di fronte ai miei occhi, l’espressione preoccupata e tesa tanto che non mi riconoscevo più. Ero cambiata in una settimana, tanto: sentivo che il ghiaccio intorno al mio cuore si stava poco a poco sciogliendo, dando spazio a una vita quasi normale per una comune diciottenne.
Diedi un’ultima occhiata, poi scomparii dal bagno. Camminavo piano perché non ero abituata alle scarpe col tacco, sebbene fossero bassi per il parere di Sheila. Erano dei sandali che avevo comprato nello stesso negozio del vestito, color argento con i nastrini blu più o meno della stessa tonalità del vestito. Controllai che il piccolo pugnale fosse fissato bene alla giarrettiera di Hilda, sperando anche che non si vedesse.
Arrivai agli scalini e feci un gran respiro. Dal salotto arrivavano delle voci: mio padre stava intrattenendo Gabriel mentre mi aspettava. Li sentivo chiacchierare degli esami, di cosa avrebbe voluto fare Gabriel dopo il liceo. E io non avevo intenzione di mostrarmi davanti a loro in quello stato.
Comparvi sulle scale e mio padre alzò il mento per guardarmi. Gabriel mi stava dando la schiena e appena vide l’espressione persa di Irvine, si voltò a sua volta. Quello che non mi aspettavo era la sua reazione, anche se ci speravo, infondo: spalancò gli occhi inarcando entrambe le sopracciglia. Aveva aperto bocca come se avesse voluto dire qualcosa, ma subito dopo la richiuse, deglutendo.
Era veramente mozzafiato: la giacca nera così come la cravatta, la camicia bianca sotto leggermente sbottonata, un semplice paio di jeans. Portava i soliti capelli scompigliati che splendevano sotto il mio lampadario e quegli occhi così attraenti, che mi lanciavano segnali indecifrabili, erano incollati su di me. Non riuscivo a togliere i miei dai suoi per qualche strano motivo: mi trovavo lì, di fronte a lui con lo sguardo fisso in quello di Gabriel. Vedevo solo quel blu e quasi mi sentivo affogare. Era una bella sensazione.
Scesi gli scalini uno ad uno, mentre la mia mente si ripeteva “piede destro avanti, piede sinistro, piede destro, piede sinistro” per non rischiare di cadere e nel frattempo i miei spettatori si alzarono in contemporanea. Mi sentivo leggermente in imbarazzo di quell’entrata in scena, siccome non ero abituata a tutto ciò. Mio padre annuiva con movimenti lenti e profondi, mentre Gabriel si limitava a fissarmi incredulo. Sembrava quasi avesse visto un fantasma.
Appena arrivai davanti a loro, mi strinsi nelle spalle. «Ricordatevi», dissi fissando prima mio padre, poi il mio accompagnatore, «io non metterò mai più le scarpe col tacco. Questa è la prima e ultima volta». Gabriel sciolse tutta la tensione in una dolce risata coinvolgente ,mentre mio padre non fiatò.
«Non ti preoccupare, nessuno ti obbligherà di nuovo», disse il ragazzo. Non gli risposi, limitandomi a sbatacchiare freneticamente il piede, impaziente da scomparire da lì e farla finita in fretta.
Mio padre ci scattò qualche foto a tradimento, probabilmente le ultime della mia breve vita.
Al settimo cielo, le guardò velocemente sulla macchina fotografica digitale e disse: «Presto le faremo vedere a tua madre». Non risposi, ma mi limitai a sorridergli. Tutto dipendeva da me.
«Sei pronta?», chiese Gabriel.
Ecco la domanda giusta: ero pronta? Prova a chiedermelo tra una settimana, magari ti risponderò di sì, disse la mia mente.
Chiusi gli occhi per ricacciare la voce da dove era venuta e sospirai. «Sono pronta». La mia voce non era molto rassicurante. Accompagnai le parole annuendo. «Andiamo?», chiesi.
Mentre mi avvicinavo alla porta, sentii mio padre avvicinarsi alle orecchie di Gabriel, dicendo: «Se non vuole ballare, obbligala». Scossi la testa cercando di non pensarci.
Mi voltai per guardare papà, che ricambiò il mio sguardo di preoccupazione e paura. Era molto più teso però, lo si capiva da ogni sua espressione: era immobile, sembrava quasi che non respirasse e si intravedevano le rughe sulla sua fronte. Un velo sottile di sudore freddo ricopriva ogni centimetro di pelle libera del suo corpo. Le mani erano mezze nascoste nelle tasche, ma i pollici che uscivano si muovevano all’impazzata. Il pensiero che presto l’avrei abbandonato anche io mi fece venire voglia di piangere.
«Kim», mormorò appena Gabriel mi raggiunse e mi mise il copri spalle. Ci girammo entrambi, scambiandoci lo sguardo più intenso che io abbia mai visto. «Stai attenta». Sorrisi a quella frase. La sentivo più o meno ogni sacrosanta sera e mi sarebbe mancata, infondo.
«Lo sono sempre», risposi sorridendo.
Uscii dalla porta col mio cavaliere accanto, mentre cercavo di ricordarmi ogni particolare della casa. Specialmente l’espressione di mio padre: non lo avrei mai dimenticata.
Ti proteggerò ad ogni costo, pensai.
Gabriel mi aprì la porta e mi fece salire. Aveva preso un auto nera sportiva, tirata bene a lucido: un’Audi TT favolosa. Sbuffai ripensando alla mia povera Mini Cooper al confronto.
Gabriel mi prese la mano ed estrasse qualcosa dalla tasca della giacca. Mi infilò poi al polso una rosa rossa, con delle decorazioni filamentose color argento e blu notte, come se avesse saputo il colore del mio vestito. Pensai per un momento a Sheila, ridacchiando. Certo, se l’era fatto scappare, me lo aveva pure detto al telefono.
«È tua l’auto?», chiesi. Chiuse la portiera e si allacciò la cintura.
«No, è di mio patrigno. Per questa sera me l’ha prestata».
«Ah». Mi voltai verso casa mia. Non volevo andarmene, ma sapevo che era la cosa giusta. Era il mio compito e chi lo avrebbe fatto se non mi fossi sacrificata io? Qualcuno avrebbe dovuto. Io avrei dovuto. E accettavo il mio destino, perché lo avevo deciso io.
Ma se solo pensavo che sarebbe finito tutto nell’arco di poche ore...
«Kim, cosa c’è’?», chiese Gabriel, avvicinandosi col viso e prendendomi la mano che tenevo incrociata con l’altra. Anche senza guardarlo, riuscivo a percepire quello sguardo preoccupato che mi trafiggeva il cuore. Non volevo abbatterlo ancora prima di arrivare alla festa.
«Cosa dovrebbe esserci? Sto benissimo», risposi sorridendogli. Rimase a guardarmi confuso, cercando di capire se gli stessi mentendo. Altroché se lo stavo facendo. «Allora andiamo?». Alla fine cedette, mi sorrise ed annuì. Ingranò poi la prima marcia.

La musica rimbombava al ritmo del mio cuore, facendomi sentire il sangue che fluiva nelle vene e in ogni piccolo capillare. Tu-tump, tu-tump. Sembrava quasi che il suolo sobbalzasse, perché ogni tanto mi sentivo in assenza di gravità. La vista era molto confusa e sfocata a causa dei globi che giravano sui soffitti e dei giochi di luce. C’era una massa unita di persone che si spostava da destra a sinistra, da un banchetto all’altro. Gabriel aveva insistito per entrare a braccetto e far ancora credere di essere “una coppia normale” così, in presenza di Arthur, non sarebbero sorti sospetti.
Appena entrammo mi sentii il cuore in gola.
Solamente in quel momento capii tutta l’eccitazione di Sheila. Era tutto magnifico.
La sala da ballo principale era circolare, abbastanza grande da contenere tutti i maturandi del liceo con rispettivi accompagnatori. Il pavimento era in legno liscio, di un color noce con striature più scure. Lungo le colonne in marmo, c’erano rose rampicanti, rosse come il fuoco; le sculture di ghiaccio che aveva accennato Sheila erano vicino ai bar ed erano piuttosto piccole.  
Alzai la testa e vidi che dal piano superiore scendevano dei mari d’edera rossa, abbellite con dei nastri coordinati sull’estremità. Tutto l’edificio sembrava immerso nel sangue. Era già stato grandioso poter affittare un luogo del genere, ma renderlo un incantevole sogno romantico aveva del miracoloso.
Appena mi girai, vidi Gabriel che mi stava fissando in modo strano. 
“Lui è innamorato di te Kim, innamorato perso”. Le parole di Sheila continuavano a frullarmi nella testa come uno sciame di api inferocite. Spostai lo sguardo e Gabriel mi accompagnò verso il primo banchetto. Tolsi il polso da sotto il suo gomito e sbirciai in giro alla ricerca della mia vittima. Non lo vedevo ancora e nemmeno Sheila era nei paraggi. Qualcuno mi toccò poi la schiena.
«Tieni, è vodka alla fragola», disse Gabriel porgendomi il bicchiere di plastica. Lo accettai volentieri e lo bevvi tutto d’un sorso. Gabriel non aveva ancora appoggiato le labbra per assaggiare la sua bevanda e si bloccò a fissarmi ancora con espressione stupita e sconcertata. Appena finii la vodka mi voltai verso di lui.
«Che c’è?», chiesi.
«No, niente, niente...». Il suo tono la diceva lunga.
«Non mi ubriaco, non ti preoccupare». Non rispose perché stava bevendo, così alzò un sopracciglio. Mi guardai ancora in giro, nervosamente. Vedevo qualcuno squadrarmi da capo a piedi, chiedendosi se fossi davvero io. Vidi anche quelle due primine: la più carina che andava dietro a Gabriel era verde di gelosia come il proprio vestito. Si dileguò con la sua comare appena posai i miei occhi su di lei. «Non vedo Sheila, sai dov’è?», gli chiesi.
Ci fu un momento di silenzio. Poi Gabriel rispose: «È là», indicando davanti a noi, attraverso la pista da ballo ancora semi vuota. Era da sola e sorrideva ad ogni persona le passasse accanto.
Nel suo vestito nero ed argento era bellissima, una diva del cinema. I capelli dorati erano raccolti in una coda piuttosto complicata, con due ciuffi che le scendevano sopra le tempie. Tutti la guardavano con la bocca aperta.
«Non vedo Arthur», sospirai. Vedevo invece la professoressa Mires in un lungo abito rosso, in tinta con l’intera decorazione della sala. Passava tra le coppie, scambiando due chiacchiere ed augurando loro di vincere il titolo di “Re e reginetta del ballo”. Gabriel fece spallucce.
«Si farà vivo». Posai il bicchiere sul tavolo dietro di noi. «Alla fine hai deciso come agire?».
«Certo. Lo pugnalerò con questo», e alzai lo spacco per fargli vedere il pugnale nascosto, «la punta è bagnata d’acqua santa. Andrà all’altro mondo in men che non si dica». La mia voce era di nuovo fredda come quella di un assassino. Notai che dopo aver finito di parlare stava ancora fissando la mia gamba scosciata. Chiusi velocemente la gonna e incrociai le braccia sul petto. «Sai, stavo pensando che mentre io impalo Arthur, tu potrai tenere impegnata Sheila. Almeno non c’è rischio che si butti in mezzo per difenderlo».
Lo sentii ridacchiare. «Credo che non ce ne sarà il bisogno». Indicò Leonard che chiacchierava allegramente coi suoi compagni di rugby. Aggrottai la fronte, confusa e spiazzata.
«Pensavo fosse rimasto a casa».
«Figurati se si sarebbe perso Sheila vestita così», e puntò la mia migliore amica. Non aveva tutti i torti, Leonard non l’avrebbe mai abbandonata tra le grinfie di un vampiro.
Incrociai ancora quegli occhi blu e per la prima volta mi convinsi delle parole di Sheila.
Gabriel non era venuto al ballo solamente per liberare la sua amica, ma... Non era possibile! Proprio impossibile!
Insomma, lui era Gabriel Vixen, il ragazzo più carino della scuola e io ero semplicemente Kimberly Drake, la Principessa di Ghiaccio. Mi sarebbe rimasto ben poco da vivere e sarebbe poi calato il sipario.
«Comunque non voglio che tu sia vicino a me quando...beh hai capito?», mormorai.
«Certo, l’avevo capito dalla prima volta che me l’avevi detto. “So badare a me stessa», disse imitando il mio tono di voce. «Non hai lasciato trasparire dubbi a riguardo».
«Mi piace ribadire i concetti», risposi sfacciatamente, lanciandogli un sorriso ingannevole. Mi sentii leggermente colpita nel vivo, perché notavo che Gabriel non si stava divertendo.
E allora? Non avevo certo deciso io di portarlo con me, era stato lui a invertire l’ordine naturale delle cose.
Mi arresi all’idea che sarebbe finito nell’arco di una mezz’oretta, tanto valeva staccarsi da Gabriel il più possibile, evitargli di soffrire. Potevamo litigare, ma davvero non trovavo il modo per farlo. Avrei avuto bisogno della goccia per far traboccare il vaso e Gabriel era un ragazzo con molta pazienza. A meno che non fosse stato veramente innamorato di me, come sosteneva Sheila, mi avrebbe scaricata seduta stante, obbligandomi a tornare a casa a piedi su dei trampoli che non sapevo domare.
Il vero problema era che, ormai, ero convinta che provasse qualcosa per me: non avevo bene idea nemmeno io di quali fossero i suoi sentimenti, ma come si era comportato la sera precedente, come mi abbracciava, come si avvicinava al mio volto… non ci voleva un genio a capire che gli piacessi. Sheila aveva ragione.
Per quel motivo non avevo idea di come procedere: avrei voluto rimanere con lui, una volta finito tutto, ma ormai non sapevamo più nemmeno noi se stavamo recitando o se ci stavamo facendo muovere dall’istinto.
«Ti va di ballare?», mi chiese. Sbattei le palpebre per tornare dal mondo dei miei pensieri.
«Ehm, mi piacerebbe davvero, ma...».
«Perfetto», mormorò prendendomi sotto braccio e portandomi verso il centro della pista. Non riuscii nemmeno ad impormi, talmente ero rimasta scioccata dal suo comportamento. Ma solo dopo lo shock iniziale mi resi conto che non volevo fermarlo.
Mi avvicinò al suo petto, prendendomi tra le braccia. Le luci si abbassarono, rabbuiando la sala. Riuscivo comunque a vedere quegli occhi blu elettrico riflettersi nei miei. Anche la musica divenne più dolce, suonando un lento che tutte le coppie iniziarono a ballare, l’uno abbracciato all’altra.
Stare tra le braccia di Gabriel era davvero rassicurante, al caldo. Mi sentivo bene, quasi come una ragazza normale. Non la figlia dell’ammazza vampiri, non la Principessa di Ghiaccio. Ero me stessa: Kim.
Gabriel sollevò la mia mano, stringendola delicatamente all’altezza delle mie spalle, mentre l’altra scivolava dietro il mio fianco, avvicinandomi sempre più. Sentivo i suoi respiri sulla mia pelle ed era una sensazione gradevole alla quale avrei anche potuto abituarmi. Mi sentivo un po’ a disagio davanti a tutti quegli occhi indagatori, ma ben presto mi dimenticai di ciò che mi circondava e vedevo semplicemente quel blu acceso che mi aveva stregato.
Solo in quel momento mi resi conto che ero felice di essere lì, insieme a lui.
Fortunatamente era lui a condurre le danze, anche perché la musica che suonava aveva un certo modo di ballare che tutti avrebbero dovuto conoscere. Era uno di quei balli in cui le coppie si sarebbero dovute scambiare tra loro, per questo non mi faceva impazzire l’idea di ballare.
«Sei tesa?», domandò fissandomi dritto negli occhi.
«Un po’», confessai ridacchiando nervosamente.
«Ascoltami, c’è una cosa che devo dirti». Mi fece fare una giravolta e mi strinse tra le braccia. «Credo che ormai anche tu abbia capito che in questi giorni non stessi recitando», cominciò. Mio dio, aveva intenzione di confessare tutto quello che provava in quel momento? Il mio cuore, avesse potuto, sarebbe saltato fuori dal petto. In silenzio assoluto continuai ad ascoltarlo. «So anche che tu non mi volevi tra i piedi, fino ad una settimana fa. Però io non riesco più a star lontano da te».
Mi trovai faccia a faccia con lui, le nostre mani immobili in alto. Gli tremavano le labbra, si notava perfettamente. E io ero letteralmente senza parole.
«Non capisco più niente quando sei nei paraggi, sei diventata un’ossessione». Ci allontanammo e quasi andai a sbattere contro un’altra coppia. Da lì a poco avremmo dovuto cambiare, interrompendo il discorso. Non avevo idea se fosse un bene o un male. «Promettimi che quando tutto questo sarà finito non scomparirai, ma tornerai da me. Dillo».
Mi fece girare attorno al suo braccio, trovandomi poi arrotolata contro il suo petto. Di nuovo così vicini da sentire il suo respiro sulle mie guance. Mi alzò il mento con l’indice, avvicinandosi lentamente. «Tornerò da te», mormorai in trance.
Girai fino ad allontanarmi da lui e sentii una mano fredda afferrare la mia, mentre cambiavamo di coppia. Non mi accorsi di chi fosse il ragazzo con cui ora stavo ballando perché la mia mente era ancora troppo confusa e il mio cuore sottosopra.
«Che piacere», disse infine. Mi costrinsi a guardarlo negli occhi e allora capii di quanto fossi stata stupida: per un momento rischiai di rimanerne catturata, affogando in quelle sfumature così chiare da sembrar bianche. Arthur mi strinse con una presa salda al suo petto, continuando i passi del ballo come se lo avesse saputo perfettamente a memoria.
Rimasi a bocca aperta, tra le braccia del vampiro che avrei dovuto uccidere.
Non potevo certo agire in quel momento, tra tutta quella gente.
«Tu…», mormorai infuriata.
Mi rispose con un sorriso affascinante e divertito. Con la coda dell’occhio vidi che Gabriel si era accorto del mio nuovo partner ed era palesemente preoccupato. Sheila era poco lontana da me, con un altro ragazzo. «La figlia di Hilda Drake tra le mie braccia, che onore». Mi sistemò un boccolo accanto all’orecchio, sfiorandomi con le due lunghe dita gelide. «Allora sei venuta veramente al ballo, quasi non ci speravo».
Velocemente mi allontanò dal suo petto, facendomi fare una giravolta, per poi ritirarmi verso di sé. «Non potevo perdermelo», mormorai sorridendo. Forse avrei potuto fargli credere di esser rimasta ammaliata, così mi avrebbe portato in un posto più appartato dove avrei potuto ucciderlo.
Invece che cambiare partner Arthur fece passare la ragazza a chi era accanto a lui, tenendomi con sé per un altro giro. «Non dovremo cambiare?», domandai innocentemente.
Mi lanciò un sorriso sghembo, mostrando i denti. «No, tu balli con me».
Tenni gli occhi fissi su di lui, combattendo contro quel maledetto potere della malia. Dovevo solo fingere di essere attratta da lui, non cedere sul serio. E anche Arthur mi fissava, avvicinandosi sempre di più al mio viso. Il mio cuore rimbombava nel petto, ma era una sensazione completamente diversa rispetto a quando succedeva con Gabriel: il mio bersaglio era tra le mie braccia, dovevo solo aspettare il momento più opportuno per porre fine alla sua vita.
«Che ne dici», mormorò leccandosi le labbra, «se ci allontaniamo da qui e andiamo dove nessuno può vederci?».
Sempre fingendo di pendere dalle sue labbra annuii, con sguardo perso.
Mi prese la mano e si allontanò insieme a me dalla pista da ballo. Trattenni l’istinto di voltarmi verso Gabriel, o avrebbe capito che fosse tutta una messa in scena.
Camminammo lentamente verso l’esterno, riparandoci sotto il gazebo ottagonale non lontano dalla sala principale. Era completamente agghindato di luci e rose rosse, si sentiva un profumo dolcissimo. Forse era anche Arthur, che tentava di penetrare nel mio cervello in ogni modo lecito e non.
Come se fossimo ancora sulla pista, mi prese le mani e cominciammo a ballare lentamente, fissandoci negli occhi. «Non eri qui con Sheila?», domandai.
Di nuovo una risata sensuale. «Dopo che ti ho vista l’altra settimana non ho più capito niente. Sono venuto al ballo solo per vedere te». Mi spostò i capelli dal collo e abbassò il suo sguardo sulla mia pelle, leccandosi le labbra. Le mani tremavano tra le sue, mentre cominciavo a sentire il cuore in gola. «Hai un profumo così dolce».
«Anche tu», risposi atona, osservando le sue sopracciglia dorate mentre si inarcavano.
«Sono riuscito a far breccia nel cuore di Kimberly Drake?», si domandò ridacchiando. La sua risata era come il suono delle campane, era da ammettere. Ma lo era semplicemente perché stava tentando di ammaliarmi coi suoi poteri. «Allora non sei così fredda come tutti pensano».
Posò le sue labbra sull’incavo della mia spalla, facendomi perdere qualche battito. Non mi sentivo a disagio perché nessuno lo aveva mai fatto, ma perché stavo offrendo la mia gola a un vampiro nel pieno delle mie facoltà mentali. Il suo bacio mi provocò un lungo brivido lungo la spina dorsale.
Infilai una mano nei suoi capelli, tenendolo vicino al mio collo, mentre continuava a baciarmi. Aprii decisa gli occhi e fissai di fronte a me, facendo dei lunghi respiri e concentrandomi sulla missione: io dovevo ucciderlo, in fretta.
Arthur ormai mi stava reggendo tra le sue braccia, inclinandomi leggermente all’indietro. Lasciai scivolare l’altra mano lungo il fianco. «Sentiamo quanto sei dolce», fiatò sulla mia pelle.
Mentre stava per sfiorarmi con i suoi canini presi in fretta e furia il pugnale, cercando di colpirlo sulla schiena. Se ne accorse subito e mi bloccò il polso, girandomi il braccio e tenendomi immobile col viso a poche spanne da terra. Strinsi i denti per il dolore e lo guardai in cagnesco, mentre sorrideva beatamente.
«Sei davvero troppo brava a resistere alla malia», confessò. «Sai come l’ho capito? I tuoi occhi erano ancora troppo vigili per aver davvero ceduto al mio potere. E la tua mente non faceva altro che pensare a Gabriel».
Mi maledissi col pensiero per non essere stata in grado di concentrarmi nemmeno quando la mia vita era in pericolo. Mi tirò su, avvicinandomi al suo volto. «Sei come tua madre: una lottatrice», mormorò sulle mie guance, facendomi raggelare.
Sentire mia madre chiamata in causa mi fece perdere la testa. Gli tirai un calcio per farmi lasciare andare e andò a sbattere contro il legno del gazebo. Tenni il pugnale nella mano, pronta ad utilizzarlo per il colpo di grazia.
Arthur camminava in tondo e io facevo altrettanto. Non toglieva lo sguardo da me, continuando a sorridere. «Fammi vedere cosa sai fare, cacciatrice».
Mi lanciai sul suo corpo, affondando un colpo che schivò fin troppo facilmente. Arthur bloccò il mio braccio e strinse il polso, facendomi cadere l’arma. Cominciai allora a sferrare pugni e calci, anche se non ero particolarmente comoda e fluida nei movimenti per colpa del vestito.
Caddi quasi fuori dal gazebo, mentre un ragazzo si stava avvicinando a noi. Arthur mi stava tenendo il braccio immobile dietro la schiena, obbligandomi a stare piegata per sentir meno dolore. Alzai la testa e osservai quel ragazzo di fronte a me, con un bicchiere in mano e l’espressione stranita. Respiravo a bocca aperta, chiedendomi che diavolo stesse pensando.
Guardò per un momento l’intero gazebo, alzando poi gli occhi al cielo e, facendo spallucce, se ne tornò sui suoi passi. Rimasi sbigottita nel vederlo mentre tornava sorridente nell’edificio principale.
Come faceva a non vederci?
Sentii Arthur ridere e mi tirò a sé, afferrandomi i capelli e mettendo in mostra la carotide. Gli afferrai il polso che stringeva i miei boccoli, cercando di fargli allentare la presa. Strinsi i denti e lui rise della mia espressione. «Credevo fossi molto più forte, principessa», scherzò.
Non riuscivo a muovermi. Mi schiacciò a terra e strinse le dita intorno alla gola, cominciando a soffocarmi. Non stava usando tutte le sue forze, però: stava giocando con me. Con un’unghia mi graffiò lentamente e sentii un dolore lento, ma sopportabile. Vidi il suo dito sporco di sangue, mentre lo avvicinava al volto. I suoi occhi divennero neri per la sete.
Si leccò il polpastrello, fissandomi negli occhi. «Il tuo profumo non mente», mormorò estasiato. Fece per avvicinarsi col volto alla mia spalla, dove mi aveva appena graffiato. «Ora, mia cara Kimberly, ti berrò così tanto sangue da farti perdere i sensi e ti porterò da mio padre per completare l’opera. Così potrai essere esattamente come tua madre».
Rabbrividii al suono delle sue parole.
Sentii il pavimento tremare, per cui cercai di piegare il collo per osservare chi stesse arrivando. Inizialmente vidi solo delle scarpe nere che si stavano avvicinando poi, inclinando ancora la testa, vidi Gabriel con le mani in tasca. Osservava davanti a sé con le labbra serrate: nemmeno lui mi vedeva.
Arthur si mise a ridere. «Ti si sta spezzando il cuore, vero?», domandò al mio orecchio. Non aveva ancora abbassato lo sguardo, per cui capii che Arthur doveva aver creato una sottospecie di barriera invisibile che teneva lontano gli sguardi di chi non avrebbe dovuto vedere nulla.
Sentii delle lacrime ristagnare sotto le mie palpebre, mentre sentivo il fiato venir meno. «Gabriel vattene», mormorai col poco fiato che avevo. Non poteva essere ucciso anche lui, non me lo sarei mai perdonata.
Gabriel allungò un dito e, corrucciando la fronte, fece per toccare qualcosa davanti a sé. Rizzò poi la schiena e sospirò rumorosamente. Velocemente lo vidi tirare fuori qualcosa dalla tasca e lo lanciò dentro il gazebo, colpendo in pieno Arthur. La boccetta di vetro esplose e il vampiro mi lasciò subito, allontanandosi con buona parte del corpo in fiamme.
Cominciai a tossire, mentre riprendevo fiato. Gabriel ora riusciva a vedermi e si avvicinò preoccupato, tirandomi su la testa. «Kim!», disse agitato. «Stai bene?».
Annuii e guardai davanti a me: Arthur era ancora steso a terra, mentre tentava di non urlare. Il suo petto era in fiamme e stava morendo lentamente.
Mi alzai immediatamente in piedi, cercando di non avvicinarmi troppo per non rimanere bruciata. Lo guardai piena di odio e lui ricambiò con la stessa moneta. «Come ti senti schifoso verme, sapendo che stai per morire?», ringhiai senza nemmeno rendermi conto di cosa stessi dicendo.
«Diventerai come me», profetizzò tra un urlo e un altro. «Mio padre ti troverà». La sua voce era sovrastata dalla musica della pista da ballo. «Ti ucciderà Kimberly, aspettalo con ansia perché ti farà soffrire in un modo che non puoi nemmeno immaginare e diventerai ciò che tu odi di più al mondo».
Inarcai le labbra, sfidandolo. «Non vedo l’ora», mormorai. Presi la boccetta d’acqua santa che avevo nascosto insieme al pugnale e gliela tirai sulla fronte, avvolgendolo completamente dalle fiamme e aspettando che si riducesse in cenere.
  
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