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Autore: Shichan    15/11/2013    3 recensioni
Dieci anni sono il tempo in cui ha cercato di andare avanti senza chiedere aiuto, in cui ha provato a rifarsi una vita – ed era convinto di esserci riuscito –, in cui si è detto che poteva andare avanti, che lui e Mikasa dopotutto erano sopravvissuti, letteralmente. Perché tutti credono che se non ti uccide una guerra, nulla può farlo.
Nessuno pensa mai a quanto ti uccide la vita, però.

[ReinBerth accennato e implicito; MikaEren (onesided); JeanArmin se vi impegnate socialmente, ma tanto.]
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Diclaimer: i personaggi sono proprietà di Isayama Hajime. Eventuali riferimenti storici saranno riportati nelle note a fine capitolo.
Personaggi/pairing: ReinBerth sottinteso, MikasaEren (onesided), JeanArmin se qualcuno vuole impegnarsi a leggerlo tra le righe. JeanMarco implicito. È meno puttanaio di quanto sembri.
Note: questa fan fiction non verrà aggiornata con regolarità. Chi mi legge è abituato, chi si approccia per la prima volta ad una mia long lo metto in guardia: l’argomento e il livello di introspezione che mi sono prefissata comportano tempi di stesura lunghi, che messi assieme agli impegni universitari di certo non si accorciano. In compenso, i tempi dei capitoli/mazzata da 18 pagine word sono finiti (grazie al cielo, direi XD).
Se vorrete comunque seguirla, ne sarò più che felice (L).
Non aspettatevi il romanticismo. I pairing sono indicativi in quanto ciò che preme a me è descrivere rapporti sì di amore, ma non il romantico-sentimentale di per sé; ho conseguentemente segnalato un rating arancione, che però potrebbe anche cambiare in corso d’opera, diventando giallo. Lo segnalo per correttezza verso chi, vedendo un pairing, potrebbe aspettarsi un certo tipo di storia rimanendo deluso dopo <3

 

 

Lo studio del dottor Heiderich è perfetto nella sua semplicità e nelle modeste dimensioni.
Quando si entra la prima cosa che si vede è la finestra sulla parete direttamente davanti a sé; sotto di essa un divano dove puntualmente lui – come chissà quanti altri pazienti – siedono per un’ora in cui parlano delle proprie vite, delle perversioni, delle paure, delle fobie irrazionali che li logorano.
Sulla destra c’è la poltroncina dove il dottore, un uomo sui quaranta dai capelli biondi e gli occhi di un celeste così chiaro che sembra annacquato, siede con la cartelletta sulle gambe e la penna nella mano sinistra; il sorriso pacato lo invita a continuare quando si blocca nel suo racconto, la voce modulata gli pone domande per incalzarlo se l’incurvarsi di labbra non è sufficiente.
Veste sempre in modo ordinato, con camicie bianche che sanno di pulito.
Sulla sinistra c’è una scrivania quasi addossata alla parete, anonima abbastanza da non rivelare particolari che l’uomo reputa superfluo fargli conoscere, ma personalizzata quanto basta a dare al tutto un minimo di individualità. Solo un paio di volte ha intravisto la foto nella cornice che poggia sul legno: pare che il dottore abbia una famiglia.
Uno degli angoli ospita una pianta in vaso che sembra ben curata; la parete sulla destra mostra attestati con il nome di chi cerca di curarlo da quattro mesi.
Entrare in quella stanza una volta alla settimana è strano, ma al tempo stesso lì dentro sente di riuscire in qualche modo a respirare più facilmente: una sensazione di calma assoluta e di sicurezza lo accoglie con familiarità.
Il problema non è più entrare, ma uscire e tornare nella realtà fatta di strade e di persone, di sguardi che sente addosso come l’accusa di cui parla con il dottor Heiderich.
«Dunque?» si sente incalzare e sobbalza appena, le mani che si stringono tra loro sulle proprie gambe, lo sguardo che si sposta sul volto dell’uomo; abbozza un sorriso impercettibile, di scusa per essersi distratto. Incerto, si stringe nelle spalle e il dottore gli rivolge un sorriso accondiscendente – ma non c’è reale coinvolgimento, questo Armin lo ha capito dopo poche sedute passate ad osservarlo, visto che di raccontare i propri incubi non se ne parlava.
«Hai incontrato la signorina Ackerman?» gli domanda, facendogli la cortesia di ricordargli dove si è interrotto. Armin inspira, una tecnica – o un vizio – di quando deve affrontare un argomento che non gli piace.
«Ci siamo incontrati per caso» una pausa in cui inspira, perché avrebbe bisogno di più aria possibile per dirlo e invece sente di venire quasi soffocato da una presa invisibile «sulla tomba di Eren.»
Di primo impatto quella può sembrare una buona notizia; tuttavia, il piegarsi appena più severo delle labbra del medico mentre appunta qualcosa suggerisce come sia cosciente del lato controproducente della questione.
Sono quattro mesi che ha iniziato la terapia dal dottor Heiderich.
Dieci anni sono il tempo in cui ha cercato di andare avanti senza chiedere aiuto, in cui ha provato a rifarsi una vita – ed era convinto di esserci riuscito –, in cui si è detto che poteva andare avanti, che lui e Mikasa dopotutto erano sopravvissuti, letteralmente. Perché tutti credono che se non ti uccide una guerra, nulla può farlo.
Nessuno pensa mai a quanto ti uccide la vita, però.

Erano stati tempi bui, quelli dell’infanzia di Armin, come succede a tutti i bambini che nascono in tempo di guerra o quelli che ci finiscono in mezzo quasi per sbaglio. Lui era nato in anni di pace instabile e precaria, e infatti a quindici anni era finito a fare il soldato in un’età in cui di certe cose tu non dovresti quasi saperne nulla; succedeva quando il proprio paese viveva nel costante terrore di mettere piede fuori dalle mura della città perché farlo era quasi sempre sinonimo di morte.
I bambini crescevano in un inquietante mescolarsi della curiosità che dovrebbero avere e della paura che i genitori riflettevano su di loro, che gli insinuavano nella mente e nell’animo con raccomandazioni che suonavano quasi esasperate e sfumature di terrore nella voce che tremava pronunciandole.
Si cercava di non mandarli in guerra, perché tutti i genitori vogliono dare ai figli un futuro migliore; però, quando finivi nei campi di addestramento non era importante quanti anni avessi: era meglio se imparavi alla svelta come si caricava un’arma e come la si usava. E tra i ragazzini che finivano così c’erano due categorie: quelli che i genitori non sapevano più come far sopravvivere, impoveriti fino allo stremo delle forze, che scommettevano mandandoli in guerra dove – se avessero avuto fortuna e sangue freddo – magari sarebbero sopravvissuti. Poi c’erano quelli che invece ci finivano perché erano rimasti soli; Armin era uno di quelli, proprio come Eren e Mikasa. Tra loro, Ackerman era stata la più sfortunata: aveva perso i genitori in una sommossa interna, era stata praticamente adottata – anche se non formalmente – dalla famiglia di Eren… e poi aveva perso anche quella, ed erano rimasti solo loro due. Poco dopo, il nonno di Armin era venuto a mancare; era così che tutti e tre erano finiti in guerra, dove altrimenti andavi solo per volere di un tuo genitore o tutore(1).
Molti pensano che solo perché vedi la morte ogni giorno, puoi abituarti ad essa; che alla fine non riesce più a toccarti davvero, che l’odore dei corpi senza vita non ti nausea più allo stesso modo, che vedere il sangue non ti spaventa e persino che, alla lunga, nemmeno il senso di colpa di quando prendi la vita di una persona sia lo stesso. La verità è che quando sei in guerra non ti abitui mai, e se hai la fortuna di uscirne è difficile che ci sia ancora qualcosa di sano nella tua mente; perché o sei devastato da tutto il sangue che hai versato, dal ricordo delle persone che hai ucciso, oppure è alla vita che non sei più abituato.
La verità è che chi è stato in guerra poi si ritrova spezzato a metà: ha paura della morte, ha ucciso per sopravvivere, ma in qualche modo si sente in colpa ad ogni respiro che fa. Razionalmente Armin sa che non è meno meritevole di altri, che a quindici anni hai una paura folle di morire e una voglia pazzesca di vivere.
Ma questo non basta.
Questo non riporta in vita nessuno: né quelli che ha ucciso, né Eren.

«Da quanto non vedeva la signorina Ackerman?» domanda Heiderich, sfogliando la cartella di Armin alla ricerca di qualche accenno all’argomento nelle sedute passate. Informazioni vaghe, per lo più; ciò suggerisce automaticamente che quello è un argomento da sviscerare, ancora.
«Sette anni.» replica, e a Heiderich viene spontaneo alzare un sopracciglio. Ha Armin in cura da quattro mesi, di cui uno passato quasi nel completo silenzio e metà di un altro servito a capire come “approcciarlo”.
Arlert è una mente brillante, di questo il medico se ne è reso conto in fretta: generalmente le persone come lui che hanno vissuto la guerra in giovane età rifiutano di parlare perché la loro mente è troppo fragile, o perché si illudono che non parlarne allontani pensieri e ricordi, e conseguentemente curi il dolore e la paura. Oppure dicono tutto e subito, basta fare solo la domanda giusta ed è come distruggere una diga, lasciando che un impetuoso e inarrestabile fiume di parole lo investa con tutta la forza che la disperazione di un essere umano può avere. Arlert non è rientrato in nessuna delle due categorie fin dall’inizio: ha ventisette anni, e la sua guerra è finita ormai quasi dieci anni fa. In tutto quel tempo Heiderich non sa se abbia affrontato da solo gli incubi e il senso di colpa o se abbia semplicemente imparato a conviverci. In entrambi i casi non è cosa che una mente umana riesca a fare, a meno che la persona in questione non sia stata specificatamente addestrata per non essere toccata da tutto ciò che mediamente infligge danni alla psiche di un uomo.
Ci sono d’altronde solo due alternative, secondo l’esperienza di Heiderich: si diviene più forti o per un istinto di sopravvivenza tale da somigliare più a quello di un animale che a quello di un uomo, tanto che atti che sembrerebbero impensabili diventano né più né meno di un mezzo per raggiungere uno scopo, oppure perché c’è una persona ancora più fragile rispetto a noi. Il secondo caso colpisce generalmente chi ha vicino anziani e bambini che si ritrova costretto a proteggere.
Il primo è troppo poco razionale per Armin Arlert, che sta lì seduto a dare le risposte giuste e ponderate di un bravo studente.
E questo non significa guarire, Heiderich lo sa. Ne ha visti troppi come lui, in tutti quegli anni.
«Anche in quell’occasione era sulla tomba di Eren?»
«Non era una visita. Era il suo funerale.»
Mikasa Ackerman è quel bambino o quell’anziano da proteggere che Armin non può lasciare solo; allontanare lei dal dolore non gli lascia il tempo di guarire se stesso.
Ma lo illude di stare bene.

Heiderich non può saperlo, ma Mikasa non è mai stata il tipo da ragazza che aveva bisogno di essere protetta: di tutti i ricordi di Armin che la coinvolgono, lei forse è sempre stata la più forte del loro piccolo gruppo. Non aveva mai saputo dire se fosse solo una questione caratteriale, o se il fatto di aver perso i genitori o chi potesse occuparsi di lei prima degli altri le avesse temprato il carattere; Armin sapeva soltanto che Mikasa non l’aveva mai vista piangere, che di tutte le ragazze che c’erano in guerra quando erano stati arruolati era quella che sembrava non avere mai paura, che apprendeva più in fretta – insieme ad Annie –e che era anche una delle più dotate nel combattimento e nell’uso delle armi.
Non le aveva mai fatto il torto di reputarla crudele per questo, o poco umana: lui e Eren, meglio di chiunque altro, sapevano quanto lei tenesse a loro, di quanto avrebbe rischiato la propria vita per salvarli.
Ma Armin aveva anche capito presto che lui e Eren, per lei, non erano sullo stesso piano. Non perché Mikasa gli volesse meno bene o lo considerasse meno amico, ma c’era sempre stata una sorta di invisibile linea a dividerli, sottile abbastanza da permettergli di starsi vicini l’un l’altro, ma sempre lì a marcare una sfumatura di diversità nel loro rapporto, un’ombra che prendeva il nome di “amicizia” quando Mikasa guardava Armin e che si trasformava in “famiglia” quando lo sguardo si spostava su Eren.
Era stato sempre così, non un cambiamento graduale da quando la guerra li aveva colpiti ancora più da vicino, assimilandoli quasi. Solo di una cosa Armin si era reso conto troppo tardi: non era stato in grado di accorgersi di quel singolo momento, certamente durato meno di un istante, in cui per Mikasa Eren non era stato più solo la famiglia, ma il proprio intero mondo. Se ne fosse innamorata non glielo aveva mai chiesto – in guerra non c’era tempo per molte cose che alla loro età sarebbero dovute essere naturali –, ma avere il tuo mondo in una sola persona è sempre un rischio terribile.
Perché quando qualcuno o qualcosa – un amante, la famiglia, la guerra, il tempo – ti porta via quella persona non c’è nessuno che riesce a tirarti di nuovo su, ovunque tu sia caduto; e non importa che le ferite non siano profonde a vederle, saranno sempre troppo dolorose, troppo gravi, troppo tutto.
Quando Eren è morto, il modo di crollare suo e di Mikasa è stato diverso. Ad Armin non è mai capitato di doverlo descrivere, nemmeno negli ultimi mesi in cui si è aperto di più durante le sedute con Heiderich, ma sospetta che lo definirebbe un dolore inimmaginabile finché non lo si prova. Qualcosa di più forte del tipo di sofferenza fisica che provoca una ferita; direbbe che non sa nemmeno lui quanto sia stato il tempo passato a interrogarsi su tante cose che risposta non l’hanno mai trovata, e che forse non la troveranno mai.
Mikasa si è spezzata. È un modo di dire che usano tanto nei libri, ma pochi sanno quanto sia appropriato: lei è guarita da tutte le ferite da guerra, ha delle cicatrici che su un corpo femminile fa sempre un certo effetto vedere, e i capelli corti di chi per troppo tempo non ha potuto permettersi il lusso di tenerli lunghi per praticità. A distanza di sette anni Armin l’ha ritrovata con il portamento fiero che aveva sempre avuto persino prima della guerra, con quel modo di guardarti e non lasciar trapelare niente di quello che poteva agitarsi dentro di lei mentre ti osservava, con l’abitudine a dire poco e nulla.
E poi l’ha trovata vuota, e questo Mikasa non lo era mai stata se non dopo la morte dei suoi genitori, prima che quelli di Eren la prendessero con loro; allora Armin ha capito che era stata spezzata, che dove non erano riusciti la paura, il senso di colpa e il sentirsi assassini era riuscita la morte: la guerra si era portata via Eren, e con lui aveva strappato qualcosa anche a lei. Armin non sapeva se era l’anima, come quando muore una persona cara e senti morire qualcosa anche di te, una piccola parte e pensi che senza quella non potrai respirare e invece il giorno dopo ancora sopravvivi.
Capitava spesso, quando erano soldati: ogni compagno caduto era un piccolo pezzo che se ne andava, e ti chiedevi di quante parti fossi fatto, quante ancora potessi prenderti il lusso di perdere… e Armin si era chiesto, se ognuno di loro era divenuto parte dell’altro, allora perché solo alcuni si erano spezzati?
Perché solo a Mikasa era rimasta la rabbia cieca e l’irrazionale odio per chi era sopravvissuto?
Perché solo alcuni di loro erano rimasti in vita, ma erano come morti, mentre altri in qualche modo – che non comprendevano nemmeno – erano riusciti a rifarsi una vita?
«Per quale motivo non vi siete visti per così tanto tempo?» gli domanda Heiderich, un sopracciglio appena inarcato che fa sorridere Armin con una punta di amarezza.
Non c’è una risposta giusta, a quella domanda. Ci sono risposte che potrebbe dare e quell’uomo non capirebbe mai, ce ne sono altre che non vuole dare perché lui poi capirebbe troppo; ci sono risposte che potrebbe dare senza bisogno di mentire, altre che sarebbero una verità soltanto in parte, altre ancora che suonerebbero come le frasi fatte di chi ti dice una bugia senza curarsi di nasconderlo, sperando che tu capisca che è meglio non chiedere, perché non possono dirti più di quello che pronunciano meccanicamente.
«Le avevo promesso di non cercarla più.» è quello che risponde alla fine.

La porta dello studio di Heiderich si chiude, lasciando uscire Armin con il saluto abituale e impersonale “ci vediamo la prossima settimana”.
Oltre la porta che varca ogni mercoledì c’è un corridoio non troppo lungo e abbastanza stretto, che collega l’ufficio alla sala d’attesa ben arredata e luminosa, con sedie comode e riviste sempre nuove per chi non porta con sé qualcosa da fare aspettando il proprio appuntamento. La signorina seduta dietro una scrivania che si occupa di prendere appuntamenti, disdirne altri e amministrare i pagamenti delle sedute riconosce quelli che come Armin sono pazienti da terapia “a tempo indeterminato”, che è un modo gentile di dire che tornerà lì ogni volta lo stesso giorno e alla stessa ora finché il problema nella sua testa – qualunque esso sia – non sarà considerato individuato e risolto. Lo vede, gli sorride e lo saluta con distaccata cortesia.
Armin trova estremamente difficile uscire dalla porta di quello studio privato, anche se l’ha fatto già tante volte ed è migliorato rispetto all’inizio; ma ci sono giorni, ancora, in cui avverte quasi il bisogno di fermarsi a guardare la porta e interrogarsi, anche per ore, su cosa dovrebbe fare una volta uscito da lì.
E ci sono poi volte in cui va anche peggio, quelle in cui arriva lì davanti e deve fermarsi per ricordarsi come si respira fuori, perché non è lo stesso che fa dentro.
Ci sono giorni in cui fa una fatica immensa a ricordarsi di dimenticare tutto quello che Heiderich riporta indietro – non le immagini della guerra, quelle dopo anni di incubi le ha assimilate, non tanto da potersi abituare ad esse ma abbastanza da poterci convivere senza svegliarsi gridando ogni notte.
Sono le cose belle, che Armin cerca di ricacciare indietro mentre il medico continua a tirare, tirare, tirare finché non escono e lui non riesce più a tenersele dentro; il problema poi è ricacciarle indietro.
Alla fine posa una mano sulla maniglia, l’abbassa, e anche se sembra che aprire la porta sia come lasciarsi trascinare in un posto ancora più buio di quello da cui cerca di tirarsi fuori da quattro mesi, basta fare un passo senza pensare di starsi gettando nel vuoto e alla fine, in qualche modo, è fuori.
Ogni settimana è così.
Ogni settimana, da quattro mesi, è così.
Ogni istante, di ogni minuto, di ogni ora, di ogni giorno degli ultimi dieci anni è così.


Tra un appuntamento e l’altro, il dottor Heiderich si assicura di avere il tempo materiale di riporre con cura la cartella di un paziente, controllare dalla sua lista di appuntamenti chi sarà quello seguente, recuperare il suo fascicolo; dà uno sguardo generico agli appunti della seduta precedente, per non perdere troppo tempo a cercare tutto quando il paziente è già nella stanza.
Lo sguardo segue la lista di appuntamenti già passati – “ore 10, Hans; ore 11.30, Schulz” –, sorvola sull’ora che ha a disposizione per il pranzo, individua quello di Arlert che se ne è appena andato e incontra il nome che lo segue, e quello dopo ancora.
Ore 15.30, Lang; ore 17, Kirstchein”.


 

 

 

Note
(1) da alcune fonti che ne sanno molto ma molto più di me di storia *sigh* mi è stato detto che in alcuni casi e Paesi con un’autorizzazione (suppongo firmata) del genitore/tutore, anche un minorenne poteva essere arruolato.

Qualche linea guida generale per le età: Eren, Mikasa, Armin e tutti gli altri che appariranno sono stati arruolati all’età che hanno nel manga, quindi mi sono tenuta sui 15-16 anni. L’addestramento è durato un paio di anni, quindi a 17-18 sono stati ufficialmente impiegati negli scontri.
A 19-20 è morto Eren (e con lui altri personaggi), e l’ultimo incontro tra Mikasa e Armin è stato a quell’età per il suo funerale; passati sette anni, ora sono sui 26-27 anni.
Quando parlo di una durata della guerra di dieci, è perché conto dall’entrata effettiva in battaglia dei personaggi.
È meno complicato di quanto sembri, giuro XD

Il titolo, dal greco, significa “vita” (grazie Mari per la traduzione <3 ).

   
 
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