Diclaimer: i
personaggi sono proprietà di Isayama Hajime. Eventuali riferimenti storici saranno riportati
nelle note a fine capitolo.
Personaggi/pairing:
ReinBerth sottinteso, MikasaEren
(onesided), JeanArmin se
qualcuno vuole impegnarsi a leggerlo tra le righe. JeanMarco
implicito. È meno puttanaio di quanto sembri.
Note: questa fan fiction non verrà
aggiornata con regolarità. Chi mi legge è abituato, chi si approccia per la
prima volta ad una mia long lo metto in guardia: l’argomento e il livello di
introspezione che mi sono prefissata comportano tempi di stesura lunghi, che
messi assieme agli impegni universitari di certo non si accorciano. In
compenso, i tempi dei capitoli/mazzata da 18 pagine word sono finiti (grazie al
cielo, direi XD).
Se vorrete comunque seguirla, ne sarò più che felice (L).
Non aspettatevi il romanticismo. I pairing sono indicativi in quanto ciò che
preme a me è descrivere rapporti sì di amore, ma non il romantico-sentimentale
di per sé; ho conseguentemente segnalato un rating arancione, che però potrebbe
anche cambiare in
corso d’opera, diventando giallo. Lo segnalo per correttezza verso chi, vedendo
un pairing, potrebbe aspettarsi un certo tipo di
storia rimanendo deluso dopo <3
Lo studio del dottor
Heiderich è perfetto nella sua semplicità e nelle modeste dimensioni.
Quando si entra la prima cosa che si vede è la finestra sulla parete
direttamente davanti a sé; sotto di essa un divano dove puntualmente lui – come
chissà quanti altri pazienti – siedono per un’ora in cui parlano delle proprie
vite, delle perversioni, delle paure, delle fobie irrazionali che li logorano.
Sulla destra c’è la poltroncina dove il dottore, un uomo sui quaranta dai
capelli biondi e gli occhi di un celeste così chiaro che sembra annacquato,
siede con la cartelletta sulle gambe e la penna nella mano sinistra; il sorriso
pacato lo invita a continuare quando si blocca nel suo racconto, la voce
modulata gli pone domande per incalzarlo se l’incurvarsi di labbra non è
sufficiente.
Veste sempre in modo ordinato, con camicie bianche che sanno di pulito.
Sulla sinistra c’è una scrivania quasi addossata alla parete, anonima
abbastanza da non rivelare particolari che l’uomo reputa superfluo fargli
conoscere, ma personalizzata quanto basta a dare al tutto un minimo di individualità.
Solo un paio di volte ha intravisto la foto nella cornice che poggia sul legno:
pare che il dottore abbia una famiglia.
Uno degli angoli ospita una pianta in vaso che sembra ben curata; la parete
sulla destra mostra attestati con il nome di chi cerca di curarlo da quattro
mesi.
Entrare in quella stanza una volta alla settimana è strano, ma al tempo stesso
lì dentro sente di riuscire in qualche modo a respirare più facilmente: una
sensazione di calma assoluta e di sicurezza lo accoglie con familiarità.
Il problema non è più entrare, ma uscire e tornare nella realtà fatta di strade
e di persone, di sguardi che sente addosso come l’accusa di cui parla con il
dottor Heiderich.
«Dunque?» si sente incalzare e sobbalza appena, le mani che si stringono tra
loro sulle proprie gambe, lo sguardo che si sposta sul volto dell’uomo; abbozza
un sorriso impercettibile, di scusa per essersi distratto. Incerto, si stringe
nelle spalle e il dottore gli rivolge un sorriso accondiscendente – ma non c’è
reale coinvolgimento, questo Armin lo ha capito dopo poche sedute passate ad
osservarlo, visto che di raccontare i propri incubi non se ne parlava.
«Hai incontrato la signorina Ackerman?» gli domanda, facendogli la cortesia di
ricordargli dove si è interrotto. Armin inspira, una tecnica – o un vizio – di
quando deve affrontare un argomento che non gli piace.
«Ci siamo incontrati per caso» una pausa in cui inspira, perché avrebbe bisogno
di più aria possibile per dirlo e invece sente di venire quasi soffocato da una
presa invisibile «sulla tomba di Eren.»
Di primo impatto quella può sembrare una buona notizia; tuttavia, il piegarsi
appena più severo delle labbra del medico mentre appunta qualcosa suggerisce
come sia cosciente del lato controproducente della questione.
Sono quattro mesi che ha iniziato la terapia dal dottor Heiderich.
Dieci anni sono il tempo in cui ha cercato di andare avanti senza chiedere
aiuto, in cui ha provato a rifarsi una vita – ed era convinto di esserci
riuscito –, in cui si è detto che poteva andare avanti, che lui e Mikasa
dopotutto erano sopravvissuti, letteralmente. Perché tutti credono che se non
ti uccide una guerra, nulla può farlo.
Nessuno pensa mai a quanto ti uccide la vita, però.
Erano stati tempi bui,
quelli dell’infanzia di Armin, come succede a tutti i bambini che nascono in
tempo di guerra o quelli che ci finiscono in mezzo quasi per sbaglio. Lui era
nato in anni di pace instabile e precaria, e infatti a quindici anni era finito
a fare il soldato in un’età in cui di certe cose tu non dovresti quasi saperne
nulla; succedeva quando il proprio paese viveva nel costante terrore di mettere
piede fuori dalle mura della città perché farlo era quasi sempre sinonimo di
morte.
I bambini crescevano in un inquietante mescolarsi della curiosità che
dovrebbero avere e della paura che i genitori riflettevano su di loro, che gli
insinuavano nella mente e nell’animo con raccomandazioni che suonavano quasi
esasperate e sfumature di terrore nella voce che tremava pronunciandole.
Si cercava di non mandarli in guerra, perché tutti i genitori vogliono dare ai
figli un futuro migliore; però, quando finivi nei campi di addestramento non era
importante quanti anni avessi: era meglio se imparavi alla svelta come si
caricava un’arma e come la si usava. E tra i ragazzini che finivano così
c’erano due categorie: quelli che i genitori non sapevano più come far
sopravvivere, impoveriti fino allo stremo delle forze, che scommettevano
mandandoli in guerra dove – se avessero avuto fortuna e sangue freddo – magari
sarebbero sopravvissuti. Poi c’erano quelli che invece ci finivano perché erano
rimasti soli; Armin era uno di quelli, proprio come Eren e Mikasa. Tra loro,
Ackerman era stata la più sfortunata: aveva perso i genitori in una sommossa
interna, era stata praticamente adottata – anche se non formalmente – dalla
famiglia di Eren… e poi aveva perso anche quella, ed erano rimasti solo loro
due. Poco dopo, il nonno di Armin era venuto a mancare; era così che tutti e
tre erano finiti in guerra, dove altrimenti andavi solo per volere di un tuo
genitore o tutore(1).
Molti pensano che solo perché vedi la morte ogni giorno, puoi abituarti ad
essa; che alla fine non riesce più a toccarti davvero, che l’odore dei corpi
senza vita non ti nausea più allo stesso modo, che vedere il sangue non ti
spaventa e persino che, alla lunga, nemmeno il senso di colpa di quando prendi
la vita di una persona sia lo stesso. La verità è che quando sei in guerra non
ti abitui mai, e se hai la fortuna di uscirne è difficile che ci sia ancora
qualcosa di sano nella tua mente; perché o sei devastato da tutto il sangue che
hai versato, dal ricordo delle persone che hai ucciso, oppure è alla vita che
non sei più abituato.
La verità è che chi è stato in guerra poi si ritrova spezzato a metà: ha paura
della morte, ha ucciso per sopravvivere, ma in qualche modo si sente in colpa
ad ogni respiro che fa. Razionalmente Armin sa che non è meno meritevole di
altri, che a quindici anni hai una paura folle di morire e una voglia pazzesca
di vivere.
Ma questo non basta.
Questo non riporta in vita nessuno: né quelli che ha ucciso, né Eren.
«Da quanto non vedeva la
signorina Ackerman?» domanda Heiderich, sfogliando la cartella di Armin alla
ricerca di qualche accenno all’argomento nelle sedute passate. Informazioni
vaghe, per lo più; ciò suggerisce automaticamente che quello è un argomento da
sviscerare, ancora.
«Sette anni.» replica, e a Heiderich viene spontaneo alzare un sopracciglio. Ha
Armin in cura da quattro mesi, di cui uno passato quasi nel completo silenzio e
metà di un altro servito a capire come “approcciarlo”.
Arlert è una mente brillante, di questo il medico se ne è reso conto in fretta:
generalmente le persone come lui che hanno vissuto la guerra in giovane età
rifiutano di parlare perché la loro mente è troppo fragile, o perché si
illudono che non parlarne allontani pensieri e ricordi, e conseguentemente curi
il dolore e la paura. Oppure dicono tutto e subito, basta fare solo la domanda
giusta ed è come distruggere una diga, lasciando che un impetuoso e
inarrestabile fiume di parole lo investa con tutta la forza che la disperazione
di un essere umano può avere. Arlert non è rientrato in nessuna delle due
categorie fin dall’inizio: ha ventisette anni, e la sua guerra è finita ormai
quasi dieci anni fa. In tutto quel tempo Heiderich non sa se abbia affrontato
da solo gli incubi e il senso di colpa o se abbia semplicemente imparato a
conviverci. In entrambi i casi non è cosa che una mente umana riesca a fare, a
meno che la persona in questione non sia stata specificatamente addestrata per
non essere toccata da tutto ciò che mediamente infligge danni alla psiche di un
uomo.
Ci sono d’altronde solo due alternative, secondo l’esperienza di Heiderich: si
diviene più forti o per un istinto di sopravvivenza tale da somigliare più a
quello di un animale che a quello di un uomo, tanto che atti che sembrerebbero
impensabili diventano né più né meno di un mezzo per raggiungere uno scopo,
oppure perché c’è una persona ancora più fragile rispetto a noi. Il secondo
caso colpisce generalmente chi ha vicino anziani e bambini che si ritrova
costretto a proteggere.
Il primo è troppo poco razionale per Armin Arlert, che sta lì seduto a dare le
risposte giuste e ponderate di un bravo studente.
E questo non significa guarire, Heiderich lo sa. Ne ha visti troppi come lui,
in tutti quegli anni.
«Anche in quell’occasione era sulla tomba di Eren?»
«Non era una visita. Era il suo funerale.»
Mikasa Ackerman è quel bambino o quell’anziano da proteggere che Armin non può
lasciare solo; allontanare lei dal dolore non gli lascia il tempo di guarire se
stesso.
Ma lo illude di stare bene.
Heiderich non può saperlo,
ma Mikasa non è mai stata il tipo da ragazza che aveva bisogno di essere
protetta: di tutti i ricordi di Armin che la coinvolgono, lei forse è sempre
stata la più forte del loro piccolo gruppo. Non aveva mai saputo dire se fosse
solo una questione caratteriale, o se il fatto di aver perso i genitori o chi
potesse occuparsi di lei prima degli altri le avesse temprato il carattere;
Armin sapeva soltanto che Mikasa non l’aveva mai vista piangere, che di tutte
le ragazze che c’erano in guerra quando erano stati arruolati era quella che
sembrava non avere mai paura, che apprendeva più in fretta – insieme ad Annie
–e che era anche una delle più dotate nel combattimento e nell’uso delle armi.
Non le aveva mai fatto il torto di reputarla crudele per questo, o poco umana: lui
e Eren, meglio di chiunque altro, sapevano quanto lei tenesse a loro, di quanto
avrebbe rischiato la propria vita per salvarli.
Ma Armin aveva anche capito presto che lui e Eren, per lei, non erano sullo
stesso piano. Non perché Mikasa gli volesse meno bene o lo considerasse meno
amico, ma c’era sempre stata una sorta di invisibile linea a dividerli, sottile
abbastanza da permettergli di starsi vicini l’un l’altro, ma sempre lì a
marcare una sfumatura di diversità nel loro rapporto, un’ombra che prendeva il
nome di “amicizia” quando Mikasa guardava Armin e che si trasformava in
“famiglia” quando lo sguardo si spostava su Eren.
Era stato sempre così, non un cambiamento graduale da quando la guerra li aveva
colpiti ancora più da vicino, assimilandoli
quasi. Solo di una cosa Armin si era reso conto troppo tardi: non era stato in
grado di accorgersi di quel singolo momento, certamente durato meno di un
istante, in cui per Mikasa Eren non era stato più solo la famiglia, ma il
proprio intero mondo. Se ne fosse innamorata non glielo aveva mai chiesto – in
guerra non c’era tempo per molte cose che alla loro età sarebbero dovute essere
naturali –, ma avere il tuo mondo in una sola persona è sempre un rischio
terribile.
Perché quando qualcuno o qualcosa – un amante, la famiglia, la guerra, il tempo
– ti porta via quella persona non c’è nessuno che riesce a tirarti di nuovo su,
ovunque tu sia caduto; e non importa che le ferite non siano profonde a
vederle, saranno sempre troppo dolorose, troppo gravi, troppo tutto.
Quando Eren è morto, il modo di crollare suo e di Mikasa è stato diverso. Ad
Armin non è mai capitato di doverlo descrivere, nemmeno negli ultimi mesi in
cui si è aperto di più durante le sedute con Heiderich, ma sospetta che lo
definirebbe un dolore inimmaginabile finché non lo si prova. Qualcosa di più
forte del tipo di sofferenza fisica che provoca una ferita; direbbe che non sa
nemmeno lui quanto sia stato il tempo passato a interrogarsi su tante cose che
risposta non l’hanno mai trovata, e che forse non la troveranno mai.
Mikasa si è spezzata. È un modo di dire che usano tanto nei libri, ma pochi
sanno quanto sia appropriato: lei è guarita da tutte le ferite da guerra, ha
delle cicatrici che su un corpo femminile fa sempre un certo effetto vedere, e
i capelli corti di chi per troppo tempo non ha potuto permettersi il lusso di
tenerli lunghi per praticità. A distanza di sette anni Armin l’ha ritrovata con
il portamento fiero che aveva sempre avuto persino prima della guerra, con quel
modo di guardarti e non lasciar trapelare niente di quello che poteva agitarsi
dentro di lei mentre ti osservava, con l’abitudine a dire poco e nulla.
E poi l’ha trovata vuota, e questo Mikasa non lo era mai stata se non dopo la
morte dei suoi genitori, prima che quelli di Eren la prendessero con loro;
allora Armin ha capito che era stata spezzata, che dove non erano riusciti la
paura, il senso di colpa e il sentirsi assassini era riuscita la morte: la
guerra si era portata via Eren, e con lui aveva strappato qualcosa anche a lei.
Armin non sapeva se era l’anima, come quando muore una persona cara e senti
morire qualcosa anche di te, una piccola parte e pensi che senza quella non
potrai respirare e invece il giorno dopo ancora sopravvivi.
Capitava spesso, quando erano soldati: ogni compagno caduto era un piccolo
pezzo che se ne andava, e ti chiedevi di quante parti fossi fatto, quante
ancora potessi prenderti il lusso di perdere… e Armin si era chiesto, se ognuno
di loro era divenuto parte dell’altro, allora perché solo alcuni si erano
spezzati?
Perché solo a Mikasa era rimasta la rabbia cieca e l’irrazionale odio per chi
era sopravvissuto?
Perché solo alcuni di loro erano rimasti in vita, ma erano come morti, mentre
altri in qualche modo – che non comprendevano nemmeno – erano riusciti a
rifarsi una vita?
«Per quale motivo non vi siete visti per così tanto tempo?» gli domanda
Heiderich, un sopracciglio appena inarcato che fa sorridere Armin con una punta
di amarezza.
Non c’è una risposta giusta, a quella domanda. Ci sono risposte che potrebbe
dare e quell’uomo non capirebbe mai, ce ne sono altre che non vuole dare perché
lui poi capirebbe troppo; ci sono
risposte che potrebbe dare senza bisogno di mentire, altre che sarebbero una
verità soltanto in parte, altre ancora che suonerebbero come le frasi fatte di
chi ti dice una bugia senza curarsi di nasconderlo, sperando che tu capisca che
è meglio non chiedere, perché non possono dirti più di quello che pronunciano
meccanicamente.
«Le avevo promesso di non cercarla più.» è quello che risponde alla fine.
La porta dello studio di
Heiderich si chiude, lasciando uscire Armin con il saluto abituale e
impersonale “ci vediamo la prossima settimana”.
Oltre la porta che varca ogni mercoledì c’è un corridoio non troppo lungo e
abbastanza stretto, che collega l’ufficio alla sala d’attesa ben arredata e
luminosa, con sedie comode e riviste sempre nuove per chi non porta con sé
qualcosa da fare aspettando il proprio appuntamento. La signorina seduta dietro
una scrivania che si occupa di prendere appuntamenti, disdirne altri e amministrare
i pagamenti delle sedute riconosce quelli che come Armin sono pazienti da
terapia “a tempo indeterminato”, che è un modo gentile di dire che tornerà lì
ogni volta lo stesso giorno e alla stessa ora finché il problema nella sua
testa – qualunque esso sia – non sarà considerato individuato e risolto. Lo
vede, gli sorride e lo saluta con distaccata cortesia.
Armin trova estremamente difficile uscire dalla porta di quello studio privato,
anche se l’ha fatto già tante volte ed è migliorato rispetto all’inizio; ma ci
sono giorni, ancora, in cui avverte quasi il bisogno di fermarsi a guardare la
porta e interrogarsi, anche per ore, su cosa dovrebbe fare una volta uscito da
lì.
E ci sono poi volte in cui va anche peggio, quelle in cui arriva lì davanti e
deve fermarsi per ricordarsi come si respira fuori, perché non è lo stesso che fa dentro.
Ci sono giorni in cui fa una fatica immensa a ricordarsi di dimenticare tutto quello che Heiderich
riporta indietro – non le immagini della guerra, quelle dopo anni di incubi le
ha assimilate, non tanto da potersi abituare ad esse ma abbastanza da poterci
convivere senza svegliarsi gridando ogni notte.
Sono le cose belle, che Armin cerca di ricacciare indietro mentre il medico
continua a tirare, tirare, tirare finché non escono e lui non riesce più a
tenersele dentro; il problema poi è ricacciarle indietro.
Alla fine posa una mano sulla maniglia, l’abbassa, e anche se sembra che aprire
la porta sia come lasciarsi trascinare in un posto ancora più buio di quello da
cui cerca di tirarsi fuori da quattro mesi, basta fare un passo senza pensare
di starsi gettando nel vuoto e alla fine, in qualche modo, è fuori.
Ogni settimana è così.
Ogni settimana, da quattro mesi, è così.
Ogni istante, di ogni minuto, di ogni ora, di ogni giorno degli ultimi dieci anni è così.
Tra un appuntamento e l’altro, il dottor Heiderich si assicura di avere il
tempo materiale di riporre con cura la cartella di un paziente, controllare
dalla sua lista di appuntamenti chi sarà quello seguente, recuperare il suo fascicolo;
dà uno sguardo generico agli appunti della seduta precedente, per non perdere
troppo tempo a cercare tutto quando il paziente è già nella stanza.
Lo sguardo segue la lista di appuntamenti già passati – “ore 10, Hans; ore 11.30, Schulz” –, sorvola sull’ora che ha a
disposizione per il pranzo, individua quello di Arlert che se ne è appena
andato e incontra il nome che lo segue, e quello dopo ancora.
“Ore 15.30, Lang;
ore 17, Kirstchein”.
Note
(1) da alcune fonti che ne sanno molto ma molto
più di me di storia *sigh* mi è stato detto che in alcuni casi e Paesi con un’autorizzazione
(suppongo firmata) del genitore/tutore, anche un minorenne poteva essere
arruolato.
Qualche linea guida generale
per le età: Eren, Mikasa, Armin e tutti gli altri che appariranno sono stati
arruolati all’età che hanno nel manga, quindi mi sono tenuta sui 15-16 anni. L’addestramento
è durato un paio di anni, quindi a 17-18 sono stati ufficialmente impiegati
negli scontri.
A 19-20 è morto Eren (e con lui altri personaggi), e l’ultimo incontro tra
Mikasa e Armin è stato a quell’età per il suo funerale; passati sette anni, ora
sono sui 26-27 anni.
Quando parlo di una durata della guerra di dieci, è perché conto dall’entrata
effettiva in battaglia dei personaggi.
È meno complicato di quanto sembri, giuro XD
Il titolo, dal greco,
significa “vita” (grazie Mari per la traduzione <3 ).