Fanfic su attori > Cast Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: MarySmolder_1308    07/12/2013    4 recensioni
L'amicizia è un sentimento essenziale, che ti travolge improvvisamente.
E così ti ritrovi legata a persone che non avresti mai immaginato di poter conoscere, con cui non avresti mai immaginato di parlare.
L'amicizia spesso e volentieri ti cambia la vita e lo fa senza che tu possa rendertene minimamente conto.
Non ti chiede il permesso. Lo fa e basta.
E' questo che succede a Maria Chiara Floridia, 26 anni, specializzanda in chirurgia al terzo anno al Saint Joseph Hospital, quando incontra i famosi Ian Somerhalder, 33 anni, e Nina Dobrev, 24 anni.
Il problema è che anche l'amore agisce in questo modo.
Possono questi due sentimenti entrare in contrasto?
Possono lottare fra loro, logorando tutto ciò che è sul loro cammino?
Possono far sorgere dei dubbi?
Possono distruggere una persona?
In un mondo in cui è ormai difficile instaurare delle relazioni, tre persone si ritrovano tra le grinfie di questi sentimenti.
Vincerà l'amore o l'amicizia?
--
Ci tengo a precisare che non sono una scrittrice professionista. Utilizzo la scrittura per esprimere al meglio tutti i miei pensieri, tutte le mie sensazioni, tutte le mie emozioni. In ogni capitolo cerco di dare il massimo, quindi spero possiate apprezzare!
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ian Somerhalder, Nina Dobrev, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
POV Ian
“Un altro giro, andiamo, Austin!” grugnii al barista.
Austin mi guardò serio, aggrottando le sopracciglia.
“Ian, scordatelo, hai davvero esagerato stasera”
“Solo un altro bourbon” implorai, riducendo gli occhi a due fessure.
“No!” Austin si mise a braccia conserte.
“Ah, sì? Sai che ti dico? – mi alzai, barcollando, e presi le chiavi della macchina – Io me ne vado! Ora esco e vado in un altro bar e non puoi fare niente per fermarmi” conclusi canzonandolo e sventolandogli le chiavi davanti al viso.
Austin scosse la testa. Velocemente, mi ritrovai senza chiavi in mano. Austin se le mise in tasca.
“Ehi!” protestai.
“Ian, non posso lasciarti guidare. Sei troppo ubriaco. Ora ti chiamo un taxi”
“Amico, sei scorretto – agitai l’indice in aria – Taxi?! Taxi?! Te lo scordi” cominciai a sghignazzare.
Provai a recuperare le chiavi un paio di volte, ma senza successo.
Sospirai, rinunciando all’impresa.
Feci il gesto da militare ad Austin e dissi: “Adieu” continuando a ridere.
Uscii dal bar e mi guardai intorno. I lampioni pubblici illuminavano il mio cammino ed erano la dannazione per i miei occhi. Vedevo tutto troppo splendente e troppo movimentato. Ah, la mia testa! Sembrava essere al centro di un ciclone. Mi appoggiai a un muro con la schiena, prendendomi la testa tra le mani.
“Smetti di girare, smetti di girare” dissi ripetutamente.
Chiusi gli occhi forte.
In un attimo mi ritrovai immerso in un ricordo.
 
“Mamma, mamma, posso andare in bicicletta?” le chiesi esaltato, aggrappandomi alla sua vita.
“Papà, Bob e Robyn non sono in casa, piccolo mio, e io non saprei come aiutarti. Perché non aspetti loro?” mi sorrise, scompigliandomi i capelli.
Corrucciai la fronte, mostrando il labbro inferiore.
“Caro, sai che il labbruccio funziona solo con tua sorella. Vai a giocare, appena rientra uno dei tre, potrai prendere la bicicletta” mi diede un bacio sulla fronte.
Mi allontanai da lei, brontolando.
“Perché non posso? Io so andare in bicicletta, uffa!” pensai tra me e me.
Salii le scale e andai nella stanza dei miei genitori. Mi arrampicai su quel lettone spazioso e mi sdraiai a pancia in giù, sbuffando.
Cominciai a muovere le gambe.
“Si abbassa la destra, si alza la sinistra; si abbassa la sinistra, si alza la destra” mormoravo, mentre le gambe compivano quei movimenti, accompagnate dal ‘tic tac’ dell’orologio sul comodino della mamma.
Il tempo passava. Ma perché non rientrava nessuno? Sbuffai nuovamente e rumorosamente e scesi dal letto.
Che noia!
Mentre camminavo lungo il corridoio, diretto verso la mia stanza, sentii il portone richiudersi. Sorrisi e mi precipitai sulle scale, scalpitando per la felicità.
“Robert, sono le sei del pomeriggio, dove sei stato?”
“Non sono affari tuoi” sbottò papà, con voce strana.
La mia felicità scemò. Qualcosa non andava. Mi sedetti su uno scalino e continuai ad ascoltare.
“Sono affari miei, invece, sono tua moglie”
“Quando ti conviene”
“Ma come osi?” mia madre alzò la voce.
“Perché, Edna, vuoi dirmi che non è vero?”
“Hai alzato di nuovo il gomito, eh? Tuo figlio di cinque anni ti aspetta contento per salire in bicicletta e tu ti presenti ubriaco. I miei complimenti, davvero” la mamma batté un paio di volte le mani.
Chiusi gli occhi e mi aggrappai alla ringhiera delle scale. La mamma era davvero arrabbiata. Non volevo ascoltare. Odiavo quando discutevano. Mi alzai lentamente e, senza fare rumore, uscii. La freschezza estiva, tipica di Covington, mi colpì. Era bello uscire a quell’ora. Mentre il sole stava per tramontare, presi la bicicletta e cominciai a pedalare.
“Uno, due, uno, due” mormorai, mentre i miei piedi pedalavano ritmicamente.
Improvvisamente, ruzzolai. Non avevo visto una pietra e l’avevo presa in pieno. Caddi di fianco, poi mi feci male alle ginocchia e alle mani.
“Ahi!” urlai e cominciai a piangere.
Sapevo che un ometto come me non avrebbe dovuto piangere, ma in quel momento non mi importava. Mi faceva troppo male.
Sentii la mamma chiamare il mio nome, poi corrermi incontro.
“Ian, Ian, tesoro della mamma, che ti sei fatto?”
“Mi fanno male le gambe e le mani” singhiozzai, mostrandole i palmi.
“Non dovevi uscire da solo, ancora non sai andare bene in bicicletta. Ah, tesoro mio!” la mamma aveva una voce arrabbiata e triste.
“Scusa, ma papà era di nuovo a casa” mi lamentai.
“Visto cos’hai combinato? – la mamma disse furiosa a papà – Tutta colpa tua”
“Andiamo, Ian, ti prendo in braccio e andiamo dentro” papà mi sorrise e mi diede una mano.
“No, io lo porto a casa – la mamma mi prese in braccio – Non abbiamo bisogno di te” disse duramente.
 

Tornai in me, sbarrando gli occhi.
Di nuovo quelle parole taglienti.
Non potevo ascoltarle.
Non potevo e non volevo.
Mi allontanai dal muro e cominciai a camminare per le strade, fin quando non sentii una musica da discoteca divenire sempre più vicina.
Girato l’angolo, vidi una grande discoteca illuminata. La musica proveniva da lì.
Ci sarebbe stato sicuramente alcol. Mi passai una mano tra i capelli ed entrai indisturbato.
Rimasi subito infastidito dall’ambiente, era pieno zeppo di adolescenti che volevano fingersi più grandi, più adulti, più maturi. Scossi la testa in disappunto. Dovevano viversi la loro età, finché potevano.
Mi feci largo tra decine di ragazzini e raggiunsi il bancone.
“Salve” sorrisi alla barista.
“Salve. Che cosa le posso dare?” mi chiese gentilmente.
“Servite bourbon?” chiesi.
“No, ci sono troppi adolescenti. Ne potrebbero approfittare”
“Allora, rum?”
“Certo, arriva subito” mi sorrise e pose un bicchiere sul bancone.
Non appena la mia dose di alcol arrivò, afferrai il bicchiere avido, pronto a berla. Un uomo, però, bramoso di una birra, nel prenderla mi urtò. Il mio drink finì sul bancone.
“Scusa, amico” mi disse con disinteresse.
“Amico? Sul serio?” lo fulminai con lo sguardo.
L’uomo guardò il bancone, poi nuovamente me.
“Beh, non l’ho fatto apposta. Ora, se non ti dispiace, torno dalla mia ragazza” fece per andarsene.
“Mi dispiace” dissi secco e, afferratogli un polso, lo colpii con un destro.
L’uomo perse l’equilibrio, ma non cadde.
Stavo per sferrargli un altro pugno, quando ne ricevetti uno da parte sua. Mi colpì uno zigomo. Subito dopo ne arrivò un altro. Dritto sulle labbra.
Strinsi la presa sul suo braccio e lo spinsi, pronto, nonostante il disorientamento, a colpirlo ancora e ancora.
Non potei continuare. Un enorme omone venne e fermò la rissa, prendendomi per un braccio e accompagnandomi maleducatamente all’uscita.
Doveva essere il buttafuori del locale.
“Come si permette a mandarmi via così? Lei non sa chi sono io” gli feci notare.
“A noi non importa chi sei. Fuori di qui e non farti più rivedere”
“Non si trattano così dei clienti” urlai.
“Dovrebbe ringraziarmi che non ho chiamato la polizia” il buttafuori mi mandò a quel paese con un gesto e rientrò nel locale.
In un momento di lucidità chiamai Jessica.
“Ian, spero tu abbia una motivazione per chiamare alle… Dio, Ian, sono solo le due e un quarto! Cosa vuoi?” disse assonnata.
“Mi verresti a prendere? Sono senza macchina”
“Perché sei senza macchina?”
“Austin mi ha sequestrato le chiavi”
“Aspetta, Ian?”
“Sì?”
“Oh, Ian, hai la voce da ubriaco. Quanto hai bevuto?”
“Non tanto – dissi convinto – Credo” aggiunsi, sghignazzando.
“Dove sei?”
“Non ne ho la minima idea. Prima ero al bar, ora… più avanti, forse” continuai a sghignazzare.
“Perché ti sei combinato così?”
“Jess, per favore. Vieni” la implorai.
“Arrivo” sospirò e riagganciò.
Passarono dei minuti, poi una jeep grigia accostò vicino al marciapiede.
Quando la mia migliore amica mi vide, mi guardò sconvolta e disse ad alta voce: “Dio Santo! Ian, ma che hai combinato al volto?”.
Non le risposi e lei non insistette.
Mi accompagnò a casa e mi portò fino in camera da letto.
“Grazie Jess” dissi con voce tremolante.
“Ti chiederei perché l’hai fatto, ma sento che non vuoi rispondere, quindi… ora vado. Riposati e vedrai che domani sarà tutto passato e che dovrai raccontarmi tutto. Esigo davvero spiegazioni, signorino” mi scompigliò i capelli, mi carezzò una guancia e mi baciò la fronte dolcemente.
La guardai dritta negli occhi e le sorrisi, poi andò via.
Sospirai.
Ridursi così, tra sbronze e risse, non era servito a niente.
La mia mente non smetteva di ripropormi le parole taglienti di Mary.
Corsi verso il bagno nauseato e rigettai tutto ciò che era possibile. Restai per un po’ inginocchiato sul pavimento, poi andai verso il lavandino. Certo che Jess si era spaventata vedendomi. Ero pieno di sporcizia. Mi lavai il volto e notai che per fortuna avevo solo il labbro inferiore un po’ spaccato e uno zigomo ammaccato, niente di così visibile, fortunatamente. Quell’uomo non era molto forte, effettivamente. Tornai a letto.
Chiusi gli occhi per un attimo e sentii la voce di mia madre, rivivendo un altro piccolo momento di quel giorno.
 
“Piccolo mio, tranquillo, sono qui adesso, non piangere. Ora medichiamo tutto quanto, va bene?” mi sorrise.
Annuii debolmente.
“Mammina”
“Sì, Ian?”
“Grazie”.
Nonostante mi facessero male le mani, l’abbracciai forte forte.

 
Mia madre in quel momento era stata l’unica medicina che non mi aveva fatto provare alcun dolore.
Le parole di Mary di quella sera tornarono squillanti.
Lei, che mi aveva fatto sentire l’uomo più fortunato del mondo, aveva detto esplicitamente che non aveva bisogno di me. Come mia madre aveva detto a mio padre. Come potevo credere a una cosa simile? Ah, e la mia mente ferita non riusciva a far altro che ripropormele, quasi come se un vecchio giradischi si fosse bloccato in quel punto!
E ancora.
E ancora.
Troppo dolore.
Un altro conato di vomito si fece strada dentro di me violentemente, ma riuscii a trattenerlo. Ciò che non riuscii a trattenere furono invece le lacrime. Mentre scendevano silenziose, aprii gli occhi di scatto e le asciugai velocemente. Qualcuno aveva aperto il portone di casa.
 
POV Mary
Entrai nel panico.
Dov’era finito?
Perché non era rientrato?
E se gli fosse successo qualcosa?
“No, no, no, no, no” ripetei con voce rotta.
Poggiai Moke a terra e mi presi la testa tra le mani, mentre rivivevo quella settimana dall’esterno.
Mi tornarono in mente tutte quelle lacrime; tutti quei toni di voce acidi, sprezzanti, spenti, vuoti; tutte le urla; tutte le scuse implorate, mentre le sue braccia mi stringevano.
Per ultimo, squillante, tornò il ‘Non ho bisogno di te’.
Cominciai ad avere difficoltà a respirare.
“Come… come… come ho potuto?” sussurrai con voce rotta, mentre le mie mani premevano forte contro lo sterno.
Strizzai gli occhi per cacciare via le lacrime.
Afferrai il telefono e chiamai a casa di Jessica.
“Ciao! Siamo Jessica e Paul. In questo momento non siamo reperibili, ma lasciate un messaggio. Vi richiameremo sicuramente” gracchiarono le loro voci registrate.
Riattaccai e composi il numero di Paul.
“Pronto?” rispose cupo dopo il quarto squillo.
“Paul, sono Mary”
“Mary, sono quasi le… le tre del mattino! – protestò – Che c’è?”
“Ian non è tornato a casa mia ed è tardi e…”
“E?”
“Non è da te, per caso, vero?”
“No, mi dispiace. E’ successo qualcosa?”
“E’ successo che sono un’idiota. Una vera e propria idiota, dannazione!” battei la mano sul tavolo.
“Avete litigato?”
“Tutto per colpa mia e ora non so dove possa essere”
“Tranquilla, magari è tornato a casa sua per stare un po’ da solo”
“Hai ragione. Sì, hai proprio ragione – annuii – Grazie, Paul”
“Di niente e spero risolviate”
“Lo spero anche io” risposi sincera e riattaccai.
Mi vestii in fretta e furia, indossando quello che mi era capitato prima in mano e partii alla volta della casa di Ian.
La testa girava, sembrava volesse implodere, ma non mi importava.
Dovevo trovarlo.
Dovevo raggiungerlo.
Dovevo scusarmi.
Arrivata, parcheggiai e mi fiondai al portone d’ingresso.
Usai la mia chiave tremante.
“Ian?” lo chiamai, richiudendo la porta alle mie spalle.
Nessuna risposta.
Il buio e il silenzio regnavano in quella casa.
Avanzai esitante, poi salii le scale, diretta verso la camera da letto.
Giunta sulla soglia, lo intravidi.
Sospirai di sollievo, mentre il mio cuore si colmava di gioia.
Era lì.
Era al sicuro.
“Toh, guarda chi è uscita di casa!” disse sprezzante, non degnandomi di uno sguardo.
Presi un bel respiro, incassando il colpo.
“Ian, volevo chiederti scusa per prima” dissi a bassa voce, avanzando lentamente.
Riuscii a cogliere più dettagli della sua figura.
I suoi abiti erano stropicciati, i capelli scompigliati.
Improvvisamente mi paralizzai.
Aveva un labbro spaccato e un livido sullo zigomo sinistro.
“Oh mio Dio, Ian, cos’hai fatto al volto?”.
Stavo per avvicinarmi, per annullare le distanze tra noi, quando il suo tono di voce mi fece arrestare.
“Non sono affari tuoi” disse.


COLONNA SONORA DEL MOMENTO: http://www.youtube.com/watch?v=2XxXCJ7n7Ec


Distante.
Freddo.
Anzi, glaciale.
Incassai anche questo colpo.
Mantenni le distanze, ma parlai ugualmente.
“Non sono affari miei? Ma scherzi? Ian, guardami. Sei stato coinvolto in una rissa?”
“L’ho provocata”
“Cosa?! – lo guardai scettica – E perché mai… Ian, quanto hai bevuto?” chiesi, quasi con rassegnazione, notando anche il tono da sbronzo che aveva.
“Perché almeno mentre bevevo e prendevo a cazzotti un tizio, non ho pensato al dolore che mi stai infliggendo al momento. Fatti un esame di coscienza, Mary! E’ da una settimana che ogni tuo singolo atteggiamento mi ferisce. O forse più, non lo ricordo nemmeno. Ma sai che ti dico? Puoi continuare a parlare quanto vuoi, non me ne importa più niente”
“Non ho intenzione di toccare quest’argomento mentre non sei in te”.
Feci per andarmene e lui sospirò: “E ci risiamo. Invece di affrontare il problema, scappi via. Lo stai facendo ora, l’hai fatto una settimana fa e”
“Non parlare dell’ospedale e di quello che è successo, specie in queste condizioni” dissi, alzando un po’ la voce.
“Visto? Non vuoi nemmeno sfiorare l’argomento! Questa è la prova che io ho ragione”.
Cercai di calmarmi.
“Tu non hai idea di come sia difficile superare la perdita di una persona, di un’amica, a cui hai cercato di salvare la vita, poi figurati più persone”
“No, non è questo il punto. Io stavo cercando di aiutarti a superarlo, ma non me l’hai permesso. Ti sei chiusa nel tuo guscio e sei riuscita solo a urlarmi contro”
“E credi che mi sia piaciuto?”
“No, però credo che tu mi stia dando ulteriore conferma del fatto che preferisci chiuderti in te stessa e buttarti nella fossa che ti sei scavata da sola, piuttosto che parlarne e uscirne. Io ero lì per te! Sei stata tu a mandarmi via. Sei stata tu a ridurti all’osso. Sei stata tu a dirmi che non avevi bisogno di me. Hai fatto tutto da sola!”
“Ian”
“No, non mi interrompere! In questa settimana abbiamo fatto a modo tuo, ora si fa a modo mio. Ora – sottolineò quella parola – parlo io. Hai ragione, io non posso capire cosa diamine si prova a perdere un mucchio di persone. Non posso capire come ci si possa sentire ad avere tutte quelle persone sulla coscienza, a dover dire alle famiglie che i loro cari non ci sono più, a dover stilare i loro certificati di morte, a doverli mettere dentro uno squallido sacco nero di plastica. Non so niente di tutto questo. Però… so cosa si prova quando ci si sente come se il mondo ci stesse crollando addosso, come se si fosse da soli in quest’intero pianeta, come se si fosse solo colmi di dolore e incapaci di provare qualsiasi altro sentimento. Credi che non abbia mai passato momenti difficili? Credi che io – marcò quel pronome – non abbia mai sfiorato il baratro? Tutti passiamo momenti del genere, tu non sei né la prima, né l’ultima persona che li ha passati, che li passa o che li passerà. Tu non eri sola. Tu avresti dovuto lottare. Tu avresti dovuto farti aiutare. Tu avresti dovuto accettare il mio aiuto. Tu ti saresti dovuta aggrappare a questo aiuto per uscire da tutta questa assurda situazione. Invece, cos’hai fatto, eh?! Ti sei lasciata andare. Ti sei arresa. Ti sei chiusa. Ti sei dissolta. Sei affondata sempre di più in quel dannato letto. Sei scappata” terminò con un grosso respiro.
“Certe volte una persona ha bisogno di stare un po’ da sola” abbassai il tono della voce.
“Non però quando si deve fare del male”
“Certe volte i problemi non possono essere affrontati di petto”
“No, non è affatto vero. I problemi si affrontano, sempre e comunque. Non si possono aggirare, perché comunque te li ritroveresti davanti prima o poi”
“Io”
“Mary, smetti di scappare! Smettila, perché non eri sola. Non ti avrei mai lasciata sola in un momento simile, perché queste cose non si possono affrontare in solitudine; perché in una coppia non funziona così – cominciò ad alzare la voce e si alzò – In una coppia ci si aiuta e ci si risolleva a vicenda. E noi siamo una coppia, Mary, dannazione!”
“Ian, per favore” sentii gli occhi pizzicare.
“Cosa?! Parla, maledizione! Non nasconderti! Non fuggire!”.
Le parole mi morirono in gola.
Non riuscii a spiccicare una parola.
Ian rise amaro.
Alzò gli occhi al cielo.
“Come diamine è possibile che tu non riesca a farlo? Perché ti è così difficile affrontare un problema?”
“Potremmo non parlarne?”
“No, cazzo, no!” gesticolò arrabbiato ed esasperato.
Abbassai lo sguardo.
Non riuscivo a rispondere.
Cercavo di lottare l’istinto di fiondarmi giù per le scale e fuggire, ma non ci stavo riuscendo molto.
Riuscivo a pensare solo a quello.
“Non ho bisogno di te” disse Ian secco.
Chiusi gli occhi.
“Mary, guardami. Affrontami. Non ho bisogno di te. Perché l’hai detto?”
“Sono venuta a chiederti scusa. Io non…” continuai a tenere lo sguardo basso.
“Guardami” ordinò, stringendo i pugni.
Feci come mi aveva detto.
I suoi occhi mi paralizzarono.
Erano incredibilmente azzurri.
Erano sgranati.
Il dolore e la rabbia scorrevano chiaramente per quelle iridi.
“Perché. L’hai. Detto” scandì le parole.
“Io…”.
Stavo quasi per distogliere lo sguardo nuovamente, ma Ian me lo impedì.
Annullò le distanze tra noi e mi prese il mento con due dita.
La presa era salda.
I suoi occhi riflettevano i miei.
Non potevo scappare da quello sguardo.
Non potevo scappare da lui.
“Credo che avessi bisogno di stare un po’ da sola, te l’ho”
“Per affossarti ancora di più? Non molto comodo. E non mi basta come motivazione. Perché. L’hai. Detto” scandì nuovamente, non lasciandomi andare il mento.
“Ian” lo implorai, sperando che la smettesse.
Stavo per crollare, lo sentivo.
Era una sensazione tremenda.
Sentivo il cuore logorarsi, squartarsi, mentre Ian mi spingeva a lottare con me stessa, mentre lui cercava di mettermi a nudo.
Nonostante fosse ubriaco fradicio e incazzato, cercava ancora di aiutarmi.
E io… come lo stavo ripagando?
Con niente.
Come potevo essere così?
Ian mi lasciò andare il mento.
“Volevi stare da sola? Benissimo, ti accontento. Stattene da sola, Mary”
“Cosa?! Mi stai prendendo in giro per caso? Dopo tutto questo discorso tu”
“Hai detto tu che vuoi stare sola, hai chiaramente dimostrato che vuoi continuare a fuggire. Sinceramente, non so cosa possa dirti più di questo”
“Ian, io vorrei non fuggire! Solo che… non ci riesco. Io non riesco ad affrontare tutto questo, ok? Vorrei essere più forte, vorrei essere in grado di uscire da questo cazzo di baratro, vorrei riemergere dall’oscurità e dal dolore che mi hanno travolto come un treno, che hanno fatto soffrire te, ma non ci riesco”
“Non rifilarmi queste stupide scuse che rifili a te stessa! Smetti di auto-convincerti che non puoi. Il problema è che non vuoi, ed è diverso. Se tu volessi davvero, troveresti il modo”
“Smettiamola, per favore”.
Ian mollò un pugno all’armadio, poi mi urlò contro: “Ancora suppliche? Basta! Basta, sono stufo di tutto questo!”
“Ian, ma non lo vedi che ci stiamo solo facendo del male?”
“Cazzo, Mary, ti preferivo quando eravamo semplici amici!” gridò.
“Allora forse non ci saremmo mai dovuti mettere insieme” risposi con lo stesso tono di voce.
“No, infatti. Forse non ci saremmo dovuti ritrovare. Forse tutto questo è frutto di un terribile errore. Solo di un terribile errore”.
Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi.
Cercando di trattenere le lacrime, dissi in modo spento, sconfitto: “Benissimo. Allora ritornatene dalla tua ex”.

















---------------------------
Note dell'autrice:
Ecco un altro capitolo. Non vi nascondo la mia devastazione ç_ç Ho cercato per tutto il tempo di non piangere. 
Questo capitolo mi tocca da vicino. Ho vissuto, per motivi diversi ovviamente, un periodo identico a quello che ha passato Mary. E non lo auguro a nessuno, perché è davvero terribile. Ti senti sprofondare ogni giorno che passa e quella luce, che magari potrebbe aiutarti, scompare sempre di più. Spero di essere riuscita a rendere visibili queste sensazioni nei capitoli precedenti.
Dicevo che sono devastata. E lo sono per due motivi:
1. IAN. Oh mamma mia. L'ho amato in questo capitolo! Io lo amo sempre, effettivamente, lo so xD; ma in questo capitolo l'amore è amplificato. Amo il modo in cui cerca di non pensare, di non soffrire. Amo i flashback (little Ian ç_ç). Amo il suo essere incazzato. Amo le parole che dice nella scena finale.
2. SPEAKING OF... FINAL SCENE! Questa scena è stata il colpo di grazia per me. Immedesimarmi in entrambi è stato davvero straziante. Ho percepito tutto. Dolore, frustrazione, rabbia, perdizione. Tutto. E Down mi ha aiutata molto in questo. Spero di essere riuscita a trasmettere quello che ho sentito io. Se non ci sono riuscita, chiedo venia xD.


Spero, inoltre, che il capitolo sia piaciuto.
E nominando la parola capitolo... devo dirvi che questo è il penultimo.


Avrei dovuto dirlo prima?


Non ammazzatemi xD


Grazie per aver letto.
Grazie a coloro che recensiranno.
Grazie a chi, non potendo recensire, magari mi darà la sua opinione qui: https://www.facebook.com/pages/-let-your-heart-decide-/108955182460145?fref=ts
Grazie ai lettori silenziosi.
Una buona notte e... alla prossima! 
Mary :*
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Cast Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: MarySmolder_1308