Fanfic su artisti musicali > Eddie Vedder
Ricorda la storia  |      
Autore: IamNotPrinceHamlet    24/12/2013    4 recensioni
[Eddie Vedder]
[Eddie Vedder]Una one shot scritta in occasione del compleanno di Eddie Vedder, giusto con qualche ora di ritardo. Il punto di vista di una compagna di liceo di Edward, quando ancora si faceva chiamare Mueller, come l'avvocato... Un punto di vista destinato a cambiare, forse troppo tardi.
Genere: Sentimentale, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Di tutta la feccia che popola la mia scuola, Edward Mueller è senz’altro quello che vedrei più volentieri finire sotto un camion. Non che gli altri siano da meno, sia chiaro, ma quello lì io proprio non lo sopporto. Sarà che Theresa, mia sorella, maggiore ma solo sulla carta e solo di un anno, non parla d’altro: Eddie di qua, Eddie di là, Eddie sa fare questo, Eddie ha detto quest’altro, Eddie è bravo a scuola, Eddie sa suonare la chitarra, Eddie surfa da dio, Eddie ha gli occhi azzurri, e quant’è bello Eddie e bla bla bla. Come se servisse essere dei geni per stare a galla su una tavola, strimpellare due accordi o non fare schifo nei compiti in classe. Io ho tutte A e suono il basso, ma non ho mai ricevuto alcun complimento da parte di Theresa, a meno di non voler considerare come “complimenti” i suoi stupidi scherzi, le prese per il culo davanti alle sue amichette nel cortile della scuola, gli insulti  a tavola o le porte sbattute in faccia. Chissà come mai non mi riserva la stessa venerazione? Sarà che io non ho il pisello e non sono ipocrita come quello stronzo. Già, è questa la cosa che mi infastidisce di più: la sua faccia di bronzo. Perché lui non si limita ad essere il classico tipo popolare della scuola, il figlio dell’avvocato, il bello del liceo, no! Sarebbe troppo facile! Lui è il ragazzo d’oro, il buon samaritano che va d’accordo con chiunque e ha un sorriso e una parola per tutti, anche per gli sfigati. Gli sfigati come me. Proprio così, lui, dall’altro della sua magnanimità, scende dalla sua croce come un Cristo e camminando sulle acque arriva fino a noi, poveri mortali, e ci tende una mano, offrendoci del pane raffermo e qualche lisca di pesce per farci contenti. Ma che vada affanculo!

Fino a poco tempo fa riuscivo a evitarlo senza fatica, procedendo a testa bassa e passo svelto ogni volta che lo incrociavo nei corridoi della scuola, ignorando il suo sguardo e il suo sorriso, senza dargli nemmeno il tempo anche semplicemente di pensare di salutarmi o dirmi qualcosa. Eh no caro, non sarò io a darti l’ennesimo pretesto per far vedere quanto sei alla mano. Io so chi sei veramente: sei quello che si divertiva a prendere per il culo Julian Novak e che ne ha pagato le conseguenze. Julian, lo sfigato del secondo anno, ora al terzo, come me. Quello con l’apparecchio e i brufoli, sì, proprio lui, quello che è nato già con l’etichetta di vittima predestinata dei simpaticoni come te. Tu e i tuoi amici idioti l’avete preso di mira fin da quando era un primino, ma l’anno scorso vi siete scatenati. Dopotutto sembrava uno stronzetto innocuo, giusto? SBAGLIATO. Perché lo stronzetto, invece, aveva dentro la rabbia di un leone, la rabbia di un ragazzo ignorato dal padre e tollerato dalla madre, come una piccola macchia sulle tende del soggiorno che dopotutto non si vede più di tanto, che non voleva arrendersi al suo destino di perdente e che quella volta aveva avuto davvero una brutta mattinata. “Oggi non è giornata”, è quello che ti ha detto dopo averti assestato un sinistro da boxeur provetto, stanco delle tue insulse prese in giro. Lo so perché c’ero, in pausa pranzo, sotto il mio albero preferito, a godermi la scena. Posso definirla senza incertezze uno dei punti più alti della mia esperienza scolastica, non ricordo altri episodi ugualmente significativi e soprattutto soddisfacenti. E questo la dice lunga sul mio rapporto con la scuola. Quell’evento deve essere stata una sorta di epifania per Edward, visto che è stato illuminato sulla via di Damasco e si è trasformato nel bravo ragazzo che tutti amano, lo ama perfino Julian Novak, al quale ha chiesto scusa. Adesso addirittura si vedono di tanto in tanto dopo la scuola. Secondo me Mueller ha solo capito che il sangue su quel faccino da bimbo non gli donava e non piaceva alle ragazze, e che i pugni presi fanno più male di quelli dati.

Era così facile e piacevole ignorarlo ed evitarlo, finché quella cogliona di mia sorella non ha deciso che voleva imparare a suonare la chitarra. Una stronzata più grande non fu mai udita! Ascoltando i suoi dischi, tortura a cui io non mi sottoporrei mai e poi mai volontariamente, ma che mi tocca subire attraverso la sottile parete che divide le nostre camere da letto, credo non si riesca a trovare il suono di una chitarra (vera o presunta) neanche impegnandosi a fondo nella ricerca. E se Edward la conosce anche solo un po’ credo l’abbia capito che è solo un mezzo stupido per passare del tempo con lui e sbavargli addosso. Che Theresa decidesse di prendere uno strumento e torturarlo non mi turbava più di tanto, anche se ogni volta che quelle dita dalle unghiette smaltate toccavano una corda potevo chiaramente sentire il rumore di qualche storico chitarrista defunto che si faceva prendere da un attaco epilettico nella sua tomba. La cosa più spiacevole era ritrovarsi regolarmente Edward il Santo in casa. Spesso lo incrociavo sulle scale o sulla porta , ma era facile ignorare i suoi “Ciao”, mi bastava filare in camera e mettermi le cuffie, per poter contrastrare lo strazio della stanza accanto con della vera musica. A un certo punto mi sono fatta più audace e ho cominciato a non usare le cuffie, dopotutto a Theresa poteva servire un piccolo stimolo all’apprendimento. Che fossero i Pink Floyd o i Sonics, gli Stones o i Buzzcocks, i Dead Kennedys o gli AC/DC, non facevo mai mancare ai due piccioncini le mie lezioni di rock, mettendoci pure, di tanto in tanto, la ciliegina sulla torta: le mie esercitazioni col basso. Theresa regolarmente si incazzava e dava pugni sul muro, sono sicura fossero i suoi perché quelli di Eddie non sono così potenti, o irrompeva in camera mia coprendomi di parole poco adatte a una signorina, mentre l’aspirante Pete Townshend se la rideva, restando sulla porta.

“Potremmo fare una jam insieme” aveva proposto una volta, scatendando le mie risate e un quasi colpo apoplettico della mia adorata sorellina, che è poi fuggita dalla mia stanza prendendolo per la camicia e trascinandoselo dietro, come un cucciolo al guinzaglio.

In un’altra occasione il colpo lo stava facendo venire a me, mentre ero in camera mia, il mio luogo preferito della casa, intenta a esercitarmi su un pezzo dei Ramones e cercavo di convincermi che saper riprodurre le parti di Dee Dee mi avrebbe reso automaticamente una figa assoluta. Quell’idiota aveva pensato bene di entrare mentre ero completamente persa nella musica e restare lì a divertirsi alle mie spalle, letteralmente, per chissà quanto, prima di mettermi una mano sulla spalla per attirare la mia attenzione, ottenendo come effetto un mio salto di circa un metro e mezzo, quindi alto come la mia persona. E come la sua, quasi. Nanetto!

“Ti piacciono i Ramones?” mi aveva chiesto con quel suo sorriso e quella faccia che praticamente ti strappano gli schiaffi dalle mani.

“No, mi fanno cagare, li ascolto per farmi del male. Sono così masochista che li suono anche, vedi?” gli avevo risposto sollevando il mio strumento.

“Vedo, e sento anche. Niente male. E con la chitarra come te la cavi?” continuava con quel tono da amicone.

“Bene, grazie, non mi serve il tuo aiuto, dovrai farti bastare Theresa come alunna” avevo ribattuto stizzita.

“Non lo dicevo per quello. Non capisco perché tua sorella non abbia chiesto a te di insergnarle a suonare” continuava con quel suo finto candore da quattro soldi. Il piccolo Eddie voleva un po’ di gossip di prima mano su Theresa per sapere come muoversi con lei, ma cascava proprio male.

“Se non lo capisci sei un idiota e la cosa non mi sorprende affatto” avevo commentato prima di appoggiare il basso sul letto, afferrare la mia borsa e precipitarmi giu dalle scale e fuori di casa, prima che potesse ribattere. Non mi entusiasmava l’idea di lasciarlo solo in camera mia, ma non avevo nemmeno intenzione di fargli da consulente sentimentale.

Altre incursioni di questo tipo si sono susseguite, ma poi, bene o male, tramite mia madre riuscivo a sapere in anticipo quando il signorino Mueller sarebbe stato dei nostri e a schivarlo sapientemente. I mesi passavano e mia sorella continuava a fare schifo con la chitarra esattamente come prima di cominciare a studiarla, quindi potevo solo immaginare in cosa consistessero in realtà le lezioni che Edward le impartiva, avrei voluto sgamarli in flagranza di reato e far passare dei grossi guai al sangue del mio sangue, ma il desiderio di starmene per i fatti miei, alla larga da quei mentecatti, prevaleva su quello di vendetta. A scuola facevo in modo che le nostre esistenze non si incrociassero, come al solito, ma quel tipo aveva preso a salutarmi nei corridoi, una volta mi aveva teso un agguato persino davanti al mio armadietto. Mi aspettava lì per farmi una proposta malsana: invitarmi a un falò sulla spiaggia. A un falò. Io. Coi suoi amici idioti.

“Se cercate un giochino per divertirvi avete capito male” gli avevo sputato in faccia, non letteralmente purtroppo.

“Cosa?” chiedeva con espressione finto-corrucciata.

“Non ho intenzione di fare lo zimbello della situazione per allietare le vostre inutili serate” avevo spiegato riponendo il libro di storia e prendendo quello di matematica, col quaderno.

“Le nostre serate non sono inutili… beh, non sempre. E comunque non saresti uno zimbello, saresti solo... dei nostri” aveva ribattuto parandosi davanti a me, sbarrando la strada tra me e la mia classe.

“Non ci tengo, grazie” avevo concluso e con un leggero spintone mi ero liberata dalle sue grinfie. Il coglione aveva fatto una smorfia di dolore, emettendo addirittura un silenzioso “ahi”, come se gli avessi fatto male, per prendermi per il culo. Odioso.

Nel tempo sono seguite altre richieste: suonare con il suo gruppo di perdenti, accompagnarlo da un fantomatico vinilaro che aveva appena aperto un negozio super figo, addirittura andare a fare surf. Insomma, non c’era davvero limite al peggio e io cominciavo a esaurire il repertorio di parolacce da rivolgergli.

Tutto procedeva tranquillamente insomma, tra una frecciata e un dito medio ben alzato, fino al giorno in cui il preside mi ha convocata nel suo ufficio. Sinceramente non sapevo cosa temere, non mi mettevo mai nei guai e se proprio volevo farmi una canna non lo facevo di certo a scuola: rubavo un po’ di fumo dal nascondiglio segreto di mia sorella e mi trovavo un posticino tranquillo nelle spiagge più sfigate e meno alla moda di San Diego o me ne stavo semplicemente nella mia stanza, se avevo tutto il tempo di arieggiarla prima che la mamma finisse il turno in ospedale. Non capivo cosa avessi potuto combinare per richiedere un intervento del boss. Dopo scoprii che non avevo combinato niente, il mio curriculum scolastico era impeccabile, così come i miei voti e la mia condotta, decisamente irreprensibile. Il mio problema erano le attività extra-scolastiche. Io non le contemplavo e basta. Odio lo sport, odio i dibattiti, odio la banda e i pezzi che ti obbligano a suonare al saggio di fine anno, odio in definitiva la scuola, non vedo perché dovrei trascorrerci del tempo extra. Il preside ha sottolineato l’importanza di questo tipo di attività e il peso che possono avere nella selezione di matricole da parte di qualsiasi università. Insomma, anche se avessi voluto fare, come già pensavo, Archeologia o Archivistica, per andare a infognarmi in qualche vecchia biblioteca a spolverare tomi o in una grossa buca in Egitto a spalare sabbia e escrementi di ratto per recuperare frammenti di piattini, dovevo dimostrare di essere una persona socievole e dagli interessi più svariati. Vagliando assieme a lui le diverse ipotesi, perché non mi ha lasciato scelta, ho optato per la meno peggio: il corso di teatro. Ovviamente recitare non era una delle mie ambizioni primarie, il mio ruolo sarebbe stato quello di scenografa, data la mia abilità in Educazione Artistica. Ero tutto sommato soddisfatta, sebbene avrei preferito sicuramente pulire i cessi di tutto l’istituto, perché alla fine il grado di socializzazione richiesta non era poi così distante da quello di chi lustra i bagni e dovevo relazionarmi più che altro con la professoressa Connors, che di tutto il corpo insegnante era uno dei pochi elementi che non avrei voluto vedere pendere dal soffitto con una corda al collo. Peccato che nel corso di teatro ci fosse anche un soggetto tristemente conosciuto.

“Hey, ci sei anche tu quest’anno? Fantastico!” Edward mi aveva accolta così al mio primo ingresso nel laboratorio teatrale, urlando, mentre erano tutti seduti a terra in cerchio a cercare di buttare fuori chissà cosa dalle loro anime per ottimizzare la loro performance sul palco. Secondo me una riunione di alcolisti anonimi sarebbe stata più efficacie, gli attori per lo meno sarebbero stati migliori. Col passare del tempo, il deficiente coglieva ogni occasione buona per stuzzicarmi e rompermi le scatole, offrendosi anche di aiutarmi con i fondali, millantando con la prof delle abilità pittoriche che, sinceramente, non erano nemmeno questo granché. Le lezioni di chitarra erano finite, ufficialmente perché Theresa doveva concentrarsi sullo studio, essendo l’anno del diploma, ufficiosamente perché non aveva fatto alcun progresso e mia madre, per quanto generosa e paziente, aveva evidentemente capito che buttare i, seppur pochi, soldi dalla finestra pagando Eddie perché mia sorella potesse fargli gli occhi dolci o farsi mettere le mani addosso non era un grande affare. Ciononostante a causa del teatro non riuscivo a liberarmi del cretino, che anzi mi stava sempre più addosso e aveva preso a raccontarmi le sue giornate e a scherzare con me come se fossimo amici. Ovviamente otteneva solo silenzio o battutacce, ma a lui pareva non importare, continuava imperterrito. Alla fine era diventato quasi divertente. Ho detto quasi.

Quasi mi dispiaceva quando saltava i laboratori, all’inizio una volta ogni tanto, poi sempre più spesso. I nostri incontri nei corridoi andavano nel frattempo diradandosi.

“Probabilmente si sta stufando del suo giochino” pensavo fra me e me mentre chiudevo il mio armadietto e mi sorprendevo a cercarlo con lo sguardo prima di andare in classe o in cortile o a casa o in qualsiasi posto dovessi andare.

Andavano diminuendo anche le volte in cui il nome di Eddie usciva dalla bocca di mia sorella in casa nostra e d’un tratto cambiavano anche i contesti in cui veniva citato: ora Eddie era spesso assente, anche quando era presente, si addormentava in classe, era strano, silenzioso, aveva mandato affanculo il prof di Francese svuotandogli sulla cattedra il contenuto del suo zaino. Cosa c’era dentro Theresa non era riuscita a vederlo, ma Mueller l’aveva definito “la vita vera”. Col tempo ha finito per liquidarlo come probabile drogato e dimenticare la sua esistenza, in favore di Doug, uno della squadra di nuoto. So già quali saranno le prossime lezioni prese da mia sorella.

Finalmente le vacanze di Natale mi vengono in aiuto dandomi una piccola tregua dal liceo. Ok, dovrò trascorrere più tempo con la mia cara sorellina, però la fuga dal lager scolastico è un piacere troppo dolce per essere rovinato da queste facezie. La sveglia è stata bandita da qualche giorno, io mi sono svegliata naturalmente, verso le 10, e dopo un’abbondante colazione mi appresto a fare la mia solita passeggiata con i Clash negli auricolari e nel cuore. Questo finché non lo vedo, Mueller, seduto sul dondolo che sta nel mio portico.

“Che cazzo ci fai qui?” chiedo levandomi a malincuore gli auricolari, ancora più a malincuore sapendo che probabilmente sto per sentire un mare di cazzate.

“Ciao” il coglione si volta, ma non del tutto, mi offre solo il suo profilo e una sola delle sue fossette.

“Ho chiesto che ci fai qui?”

“Volevo salutare un’amica” risponde tornando a guardare dritto davanti a sé.

“Theresa non c’è, è uscita con nostra madre a fare shopping” gli dico avanzando verso le scale.

“Non parlavo di lei” replica l’Hendrix dei poveri.

“Ah-ah, divertente” commento e faccio per andarmene.

“Oggi è il mio compleanno” Eddie aggiunge dal nulla.

“Wow, tanti auguri! Cos’è, vuoi invitarmi alla tua festa?” gli faccio tornando sui miei passi e risalendo i gradini.

“Non ci sarà nessuna festa quest’anno” mi rivela senza guardarmi, fissando un punto alle mie spalle.

“E come mai? Che fine hanno fatto i tuoi amici? Stai perdendo punti di popolarità ultimamente, o sbaglio?”

“Già” risponde e un ghigno si fa strada sulle sue labbra.

“Ancora non capisco cosa c’entri tutto questo col fatto che stai a casa mia”

“Sei l’unica che mi hai fatto gli auguri oggi, sai?”

“Non capisco che gusto ci trovi” commento rassegnata scuotendo la testa e accomodandomi di fianco a lui.

“A fare cosa?”

“A parlare con me, non siamo mica amici”

“Sì invece. Ora come ora credo tu sia l’unica”

“Non sono una psicologa, Mueller, ma se vuoi confidarmi le tue angosce del momento devi almeno pagarmi” replico portando lo sguardo al cielo.

“Non chiamarmi più così” dice con tono aspro, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni.

“Mueller? Scusa, non ti offendere, non siamo così in confidenza da-”

“Non usare quel cognome, chiamami pure idiota, coglione, tutto quello che vuoi, ma non chiamarmi come quell’uomo” continua e ora il dondolo trema visibilmente a causa della sua gamba che fa nervosamente su e giù.

“O-ok. Casini con tuo padre eh?” chiedo in un moto di pietà o forse perché spero che, una volta sputato il rospo, mi lasci finalmente in pace.

“Quello non è mio padre” replica seccato.

“Cosa?” chiedo perplessa.

“E’ il mio patrigno” spiega l’aspirante Marlon Brando. Dopotutto non era male come attore, caratteristica che mi porta da sempre a diffidare di tutto quello che dice.

“Oh scusa, non lo sapevo” rispondo scettica. Un particolare del genere Theresa non l’avrebbe mai omesso, a parte la sua marca preferita di mutande, sappiamo tutto di Eddie in casa mia.

“Nemmeno io” aggiunge voltandosi verso di me e guardandomi negli occhi. Non sarà mai un grande attore, non sa fingere con gli occhi.

“Che vuoi dire?” gli chiedo sconcertata.

“L’ho saputo qualche giorno fa, mia madre è venuta a trovarmi e me l’ha detto” spiega come se fosse la cosa più semplice del mondo.

“Cosa? E che significa che è venuta a trovarti? Dove sta?”

“Lei ora vive a Chicago, ha lasciato Mueller e si è trasferita lì dove c’è la sua famiglia, portandosi dietro i miei fratelli”

“Da quando?”

“Un paio di mesi circa”

“E tu sei rimasto con tuo padre? Ehm, volevo dire, col tuo patrigno?” gli chiedo correggendomi subito non appena mi fulmina con lo sguardo.

“Sì, per un po’” risponde distogliendo nuovamente lo sguardo, giocando con i bottoni della sua camicia

“Per un po’?”

“Sì, poi non ce l’ho più fatta”

“Non lo sopportavi più?”

“Lo odio, da molto prima di scoprire che non è mio padre”

“Perché?”

“Non è esattamente gentile con me”

“Oh” è l’unico commento che riesco a fare, mentre ricordo l’episodio dello spintone davanti all’armadietto. Non so se indagare ulteriormente fingendo di non aver capito a cosa allude o cambiare argomento. Forse per la prima volta nella vita non so cosa dire. Ci provo.

“E il tuo vero padre?”

“E’ morto, quasi quattro anni fa”

“Oh mio dio”

“Anche questo l’ho appena saputo”

“Ma… tu non l’hai mai conosciuto?”

“L’ho visto un paio di volte, mi hanno sempre detto che era un amico…”

“Cazzo”

Segue un lungo silenzio, in cui Eddie si calma e si limita a far oscillare il dondolo avanti e indietro per pochi centimetri.

“Forse ti ho scioccata” dice d’un tratto, facendomi quasi sobbalzare.

“No… beh, un po’ sì”

“Dopotutto, quelli come me non hanno problemi, no?”

“Io non-”

“Io e i miei amici inutili, coi nostri inutili falò, le nostre inutili partite di basket… mica abbiamo problemi! Il nostro problema principale è decidere chi portarci a letto, giusto?” aggiunge alzando via via il volume della voce e facendomi sentire sempre più piccola.

“Scusa”

“Non scusarti, tanto lo pensi lo stesso, anche adesso”

“Ho sbagliato, insomma…”

“Non hai meno pregiudizi di quelli che critichi” Eddie mi dà la mazzata finale. Ha ragione, in pieno. E non glielo nascondo.

“Cazzo se hai ragione” sospiro e butto la testa all’indietro, chiudendo gli occhi e lasciandomi cullare dai movimenti del dondolo.

Quando sento le sue labbra sulle mie non avverto nessuna scossa elettrica, nessun sussulto, niente di trascendentale. Sento solo che sono dove devo essere e con chi devo essere, che sono felice e sto facendo la cosa più giusta del mondo.

“Domani parto” dice sorprendendomi, ero così intenta a godermi la sensazione del mio primo bacio che non mi sono accorta che si era staccato. Chissà da quanto, visto che quando apro gli occhi vedo che mi guarda e trattiene una risatina.

“Vai da tua madre per Natale?” chiedo risollevando il capo e cercando di recuperare la dignità ormai perduta.

“Vado da lei per sempre” la pugnalata arriva rapida, ma non indolore. Ora sì che l’ho sentita, la scossa.

“Per sempre?”

“Beh, forse non proprio per sempre. Almeno finché non riesco a prendere il diploma e a mettere da parte qualcosa”

“Con chi stavi finora, se non da tuo padre?” chiedo ricordandomi finalmente del pezzo del puzzle che mi mancava.

“Da solo, ho preso una stanza in affitto dalle parti della scuola. Ma è dura, andare a lezione tutti i giorni, poi andare a lavorare, poi tornare a casa e fare i compiti e studiare, quando vuoi solo mangiare e dormire”

“Ecco cos’era la vita reale” penso ad alta voce.

“Eheh Theresa te l’ha raccontato suppongo. Il prof mi ha fatto il culo davanti alla classe, dicendo che dovevo tornare alla realtà, e io gliel’ho fatta vedere, la mia realtà: bollette da pagare nello zaino al posto dei quaderni” spiega con un sorriso enorme che stona con il senso delle sue parole.

“Hai fatto bene” sentenzio dopo un po’ e mi rilasso di nuovo sul dondolo, chiudendo ancora gli occhi, sperando che chi mi sta di fianco recepisca il messaggio. Ma nulla accade e quando li riapro Eddie è sulle scale.

“Ora è meglio che vada” mi dice con un sorriso meno intenso e più forzato, inclinando leggermente la testa verso destra.

“Te ne vai così? Non ci rivediamo più?” chiedo incredula alzandomi di scatto e rischiando di cadere e restare intrappolata tra le sbarre del dondolo infernale.

“Temo di no”

“Mi dispiace”

“Non essere dispiaciuta, in fondo ci siamo divertiti insieme” dice e un groppo venuto da chissà dove mi si insinua in gola.

“Sì, ma ora non ho più nessuno da insultare” commento cercando di curvare le mie labbra perché somiglino a un sorriso.

“Ah, nel nostro liceo il materiale non ti manca, stai tranquilla!” risponde voltandomi le spalle e facendo per andarsene.

“Aspetta” lo chiamo e lui si gira di nuovo, con occhi tristi, ma in un certo senso sereni.

“Dimmi”

“Mi dispiace”

“Ancora? Non è colpa tua”

“No, non dicevo per quello”

“E per cosa allora?”

“Mi dispiace aver perso tutto questo tempo, con te” confesso abbassando lo sguardo.

“Una storia triste mi rende improvvisamente più interessante ai tuoi occhi?” mi chiede con aria imbronciata.

“No, lo sei sempre stato” questa volta sono le mie unghie a catturare la mia attenzione.

“Chi disprezza compra eh? Lo sapevo! Dovevo insistere di più” commenta sghignazzando.

“Non darti delle arie adesso, Mue… Eddie! Non tirartela coi tuoi amici di Chicago, Eddie, ok?”

“Ok. Ciao Lena”

“Buon viaggio Eddie. E buon compleanno”

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Eddie Vedder / Vai alla pagina dell'autore: IamNotPrinceHamlet