Le
dita tamburellarono annoiate, e i riflessi diabolici del
rogo si spansero sul grosso anello d’oro che gravava sul dito
medio.
Una
corda di panico strozzava le gole di tutti i presenti,
intrappolando nel cuore parole, pensieri e paure. Tutte quelle facce
sbiancate
di paura e tinte dei riflessi delle fiamme li facevano assomigliare ad
un
gruppo di spettri che assiste ad un Sabba infernale.
Nicolas
de Torquemada fece vagare i suoi occhi raggelanti
sui volti congestionati dei presenti, sulle fiamme crepitanti e,
infine, sugli
eretici intrappolati nel rogo. La sua spaventosa indifferenza non venne
scalfita dalla visione delle due vittime in pasto alle fiamme. Dopo due
settimane di torture pressoché ininterrotte, i due uomini si
erano dichiarati
pentiti, ma questo non era bastato a salvar loro la vita: il Tribunale
aveva
deciso che il pentimento non cancellava la colpa, ma avrebbe
alleggerito la
pena. Le guardie li avevano strangolati, prima di legarli al palo della
piazza
principale ed accendere il rogo.
Nicolas
fece ruotare l’anello attorno al dito,
insoddisfatto: quei due avanzi di galera erano degli eretici della
peggior
specie. Non meritavano tanta clemenza da parte del Tribunale.
Tornò
a tamburellare le dita, impensierito dalla buona
riuscita della sua missione.
Come
poteva ripulire il mondo se perfino i suoi colleghi
erano così ciechi?
Non
avevano di certo aiutato le anime di quei due
disgraziati, che ora sarebbero bruciate per
l’eternità nelle fiamme ardenti
della Gehena. Avrebbero potuto espirare tutto con un tempo assai minore
nelle
fiamme mortali.
Rimise
l’anello a posto, in modo che lo stemma di famiglia
svettasse al suo dito.
Sventagliò
un foglio di pergamena nell’aria satura di morte
e cenere, e lesse il luogo della sua successiva chiamata.
Gli
occhi apatici ebbero un guizzo di incredulità nel
riconoscere la cittadina in questione. Una brama famelica
incupì le iridi
predatrici, mentre le pupille smembravano il nome della
località come un lupo
fa con una carcassa.
Nicolas
ripiegò il foglio e lo sistemò nel farsetto,
esattamente sopra il cuore.
Le
due sagome carbonizzate nel rogo ancora ruggente gli
parvero improvvisamente più interessanti, e la riduzione
della pena molto più
giusta.
Si
domandava che faccia avrebbe fatto Antonio nel rivederlo.
La
perfidia del demonio gli spiegò un orribile ghigno sul
viso.
Chissà…
Anima di
Cristo
Lovino
schioccò mollemente la lingua un paio di volte,
irritato.
Detestava
dormire con la bocca aperta: un sapore simile a
quello della sabbia sporca gli impantanava il palato, e la lingua si
seccava
come se il cuoco l’avesse messa sotto sale assieme al pescato
della giornata.
Fece
compiere a guance e lingua strani movimenti per
riacquistare una salivazione accettabile. Poi si presentò il
secondo problema
di quella e di mille altre mattine: uscire dal letto.
Apparentemente
si trattava di un’operazione semplice –
bastava far sgusciare i piedi fuori dalle coperte, appoggiarli sul
pavimento e
alzarsi - ma le circostanze non erano favorevoli quando a bloccarlo
contro il
materasso era un metro e ottanta di spagnolo addormentato.
Lovino
cercò con gli occhi i suoi vestiti, rintracciandoli
in un mucchio disordinato poco distante dal letto.
Si
rigirò per osservare l’uomo che dormiva al suo
fianco: Antonio
dormiva tranquillo, inconsapevole del problema che stava creando al
giovane.
Lovino
cercò di sgusciare fuori dal suo abbraccio, che si
rivelò però troppo stretto. Tentò
allora di sciogliere la presa dell’uomo, ma
era più ostinata dell’acciaio.
Sbuffò
infastidito, e ricorse alla sua ultima strategia:
senza troppi cerimoniali, appoggiò il pollice sulla palpebra
superiore
dell’uomo e tirò verso l’alto,
aprendogli di malagrazia l’occhio.
«Devo
andare a pescare» notificò, lasciando la presa.
Antonio
non inveì per la barbara sveglia: batté
ripetutamente gli occhi per scacciare la sensazione irritante
dell’aria sotto
la palpebra, stiracchiò le braccia allungandole sulla
schiena del giovane e lo
strinse di nuovo a sé mentre mormorava:
«Buongiorno.»
«Devo
andare adesso» sillabò Lovino, compiendo un
ennesimo
tentativo. Le braccia di Antonio erano più cocciute da
sveglie che da
addormentate: appena percepirono lo spostamento del ragazzo, premettero
sulla
sua schiena, immobilizzandolo.
«I
pesci non scappano» soppesò Antonio, poggiando la
guancia
su quella del compagno.
«Il
tempo sì» replicò Lovino, scrollandosi
nella stretta
dell’uomo come un uccellino in gabbia. «Ci vuole un
po’ per pescare qualcosa di
buono, dovresti saperlo.»
«Il
mare non diventerà sterile in cinque minuti»
protestò in
uno sbadiglio Antonio. Gli carezzò le spalle con una mano e
propose: «Puoi
restare ancora un po’ senza che succeda nulla di
irreparabile.»
La
finestra confermò la tesi dell’ex-capitano,
lasciando
intravedere un’alba ancora acerba, rischiarata a malapena dai
primissimi raggi
di sole.
Un
brontolio si sbriciolò contro il suo petto, e Antonio
capì di aver vinto.
Lovino
era diventato più accomodante da quando si era
gettato dalla Queen of Pirates per
tornare da lui. Scalciava con un asino e sbuffava come un toro, ma le
sue arrendevolezze
scontrose si erano fatte più frequenti.
Poggiò
una mano al centro della schiena nuda del ragazzo,
mentre con l’altra gli accarezzava i capelli ramati: una
parte di mare era
rimasta intrappolata in quella chioma, e Antonio aveva
l’impressione di sentire
l’odore della salsedine ogni volta che le sue dita
districavano le ciocche
annodate.
Lovino
si acquietò sotto le sue carezze, ma l’espressione
imbronciata non svanì del tutto. Lo spagnolo la
lavò via sollevandogli il viso
per baciarlo. Perfino il modo in cui Lovino lo seguiva gli ricordava
l’oceano:
le onde possedevano la stessa languida docilità quando
permettevano alle maree
di incresparle e condurle a riva.
Antonio
fece scivolare le dita sul profilo della vita magra
e del fianco e ancora più giù, fino a raggiungere
lo spigolo delle ginocchia,
in attesa del consenso del giovane. Le callosità dovute alla
lotta con la canna
da pesca e con i pesci troppo testardi sfregarono contro la cicatrice
sulla
coscia dell’uomo: era il modo silenzioso con cui Lovino dava
l’assenso.
Lo
spagnolo si portò su di lui, dischiudendogli le gambe un
poco alla volta per assaporare fino in fondo la sua vicinanza con il
giovane
amante.
Lovino
scattò come un animale selvatico quando bussarono
alla porta.
«E’
permesso?» vociò accorata Consuelo al di
là del legno.
Il
disappunto fiaccò le braccia ad Antonio, che ricadde sul
materasso ormai vuoto, mentre Lovino schizzava a recuperare i suoi
vestiti.
«Aspetta
un secondo, Consuelo, devo vestirmi» la avvisò,
mettendosi a sedere e cercando a sua volta i propri abiti.
«E
come le spiegherai la mia presenza?» soffiò Lovino
come
un gatto cui è stata pestata la coda. Si sedette sul letto
per allacciarsi le
scarpe, una colorita processione di insulti che si srotolava dalle sue
labbra. «Lo
sapevo, dovevo alzarmi prima!» esclamò a mezza
voce quando ebbe finito.
Ma
non riuscì a sollevarsi dal giaciglio: il petto
dell’amante premuto contro la sua camicia e le braccia che
gli avvolgevano il
ventre glielo impedirono.
«Fai
una buona pesca, Lovino» augurò, posandogli un
bacio
sulla spalla coperta dalla stoffa grezza.
«Lo
farò se mi lasci andare!» strepitò con
un filo di voce
l’altro, rialzandosi bruscamente dal letto.
Uscì
in fretta dalla porta, scoccando un frettoloso: «Ciao
Consuelo» in direzione di una confusa cameriera in vestaglia.
«Ieri
ha diluviato, ed ero preoccupata per la tua
gamba…»
spiegò discreta, dirottando lo sguardo verso il soffitto per
evitare di
scorgere nudità che non era tenuta a vedere. «Ho
interrotto qualcosa?»
«La
mia gamba sta bene, Consuelo, non dovevi preoccuparti»
la tranquillizzò Antonio, infilandosi i pantaloni per
evitare che la cameriera
si slogasse il collo per guardare altrove.
La
donna arricciò i capelli con le dita e notò:
«Stai
molto bene da quando Lovino ti viene a trovare la
sera.» Era un’affermazione spudorata, ma senza
malizia: Consuelo non stava
criticando né calunniando. Si limitava a giocare con
l’imbarazzo nascosto del
suo padrone. «Sono… mesi ormai che viene a farti
visita quasi ogni notte.»
«Non
viene così spesso» limitò Antonio.
«E
la tua gamba sta meglio» Consuelo annuì convinta,
gli
occhi che scintillavano di allegria dispettosa. «Non pensavo
fosse così bravo
in medicina. Forse potrebbe curare anche il mio problema alla
caviglia.»
Sorrise
quando Antonio la guardò con finta minaccia, avendo
intuito che la donna stava solo scherzando.
«Consuelo,
se ci provi ti licenzio in tronco» la avvertì,
picchiando un colpo a terra con il bastone per sembrare più
intimidatorio.
La
donna gorgheggiò una risata e poggiò una guancia
abbronzata sulla mano.
«Peccato
che non vi possiate sposare. Mi sarebbe piaciuto
vestirmi elegante per festeggiarvi» trillò.
«Se
anche fosse possibile, Lovino dovrebbe essere incatenato
e drogato per essere portato all’altare»
considerò Antonio.
La
donna si inginocchiò di fianco al letto e congiunse le
mani come per pregare.
«Forse
non dovrei dirtelo, ma quando la sera rivolgo qualche
parole alla Dea del Mare, la ringrazio di averti costretto a rimanere
sulla
terra, per quanto doloroso sia stato.»
Antonio
la fissò senza capire e Consuelo proseguì:
«Non
credo che il mare ti avrebbe mai reso felice come
Lovino. Le donne sanno queste cose: un amore per cui vivere
è molto meglio di
un sogno per cui esistere. Sono convinta che sia per questo che Lei ti
ha
obbligato a rimanere sulla spiaggia.»
«Spiegazione
poetica» concesse Antonio.
«Io
ci credo davvero» finse di offendersi Consuelo.
«Visto
che stai bene, posso tornare a sdraiarmi prima di cominciare il
turno» decise,
avviandosi verso la porta. «E prometto che la prossima volta
non entrerò prima
di aver sentito Lovino uscire dalla porta principale.»
«Te
ne sarò infinitamente grato» concordò
Antonio.
«Se
vuoi darmi un aumento per questa mia cortesia…»
mercanteggiò la donna.
«Questo
è un ricatto» la ammonì Antonio.
«Solo
un’amichevole estorsione» sdrammatizzò
lei, prima di
sparire.
Lo
spagnolo si distese sui cuscini, e appoggiò il bastone al
muro.
Dunque
la Dea del Mare lo aveva fatto per il suo bene?
Era
una visione certamente più romantica del ricordo della
pallottola che gli sfregiava la pelle.
Antonio
chiuse gli occhi, riconoscendo una nota del profumo
del suo amante rimasta impigliata nelle lenzuola.
La
gratitudine gli addolcì le labbra in un sorriso.
Non
sapeva se nei piani divini era prevista la sua vita
sentimentale, ma di una cosa era assolutamente sicuro. Il mare sarebbe
stato
per sempre la sua più grandiosa vittoria: il suo nome veniva
sussurrato con
rispetto tra i mozzi e con ammirazione dai capitani. Riusciva ancora a
consigliare i marinai sui periodi e i luoghi migliori in cui
imbarcarsi, poiché
conosceva gli umori mutevoli dell’oceano meglio di chiunque
altro. I suoi sogni
erano ancora popolati di onde spumeggianti e navi possenti, e bastava
il
sentore della salsedine ad innescare il carosello dei ricordi.
Ma
Lovino era unico.
Non
aveva l’abilità poetica per descrivere la sua
complessa
arroganza, e non riusciva a fare paragoni che non gli sembrassero
troppo
esagerati o troppo minimalisti.
Lovino
era diventato una costante della sua vita, come il
respiro o il palpitare del cuore.
Poggiò
una mano sullo sterno, quieto e soddisfatto.
E
seppe che, da qualche parte tra quei battiti, si annidava
un’immagine del giovane pescatore.
Si
illanguidì in quel pensiero ancora per qualche istante,
prima di alzarsi definitivamente dal letto.
Anche
quella giornata si presentava piena di prenotazioni da
annotare, vecchi lupi di mare da salutare e cameriere impiccione da
gestire.
Si
vestì solerte, riassumendo la compostezza del padrone
della locanda.
Aveva
giocato alla damigella innamorata anche troppo a
lungo.
Era
ora di tornare agli affari.
Il
sorriso, però, non svanì quando chiuse la porta
della
stanza dietro di sé.
***
Non
odiava Consuelo.
Era
una donna molto premurosa, estremamente affettuosa, e le
forme che le gonfiavano la camicetta e la gonna facevano girare stuoli
di
uomini nella sua direzione.
Ma
avrebbe preferito che ogni tanto mettesse un lucchetto
alla sua euforia.
A
sua discolpa, bisognava prendere atto che non lo faceva
con cattiveria: semplicemente, la gioia le gonfiava i polmoni, e il
modo
migliore per sfiatare quella festosa pressione era dare aria alla bocca.
Immaginava
perfettamente lo svolgimento dei fatti: Consuelo
aveva svolazzato per tutta la cucina, cinguettando la sua
felicità e i fatti
privati della camera da letto del padrone.
Se
avesse anche solo immaginato i danni che quella donna
poteva fare, sarebbe rimasto in mare tutta la giornata. Anzi, sarebbe
rimasto
in mare fino a diventare un vecchietto canuto: sarebbe morto come un
eremita,
ma la sua dignità sarebbe rimasta intatta.
Diego
fu il più sfacciato di tutti, e lo accolse con un
altisonante fischio non appena il pescatore mise piede nella cucina,
con la cesta
piena di pesci sottobraccio.
Il
sorriso del cuoco svettò sopra l’enorme tegame
ribollente, e la sua voce grassa intonò una battutaccia
oscena sui pesci che
Lovino riusciva a pescare. Consuelo, paonazza in volto, li
rimproverò per
mettere freno alle loro bocche, ma non poté fare lo stesso
con gli occhi:
sguardi maliziosi seguirono Lovino per tutto il tragitto dalla porta al
tavolo
su cui posò il canestro.
«Arrivederci»
li salutò spicciolo, dirigendosi verso l’uscita
con la testa chinata come un ariete.
«Lo
sapevamo già da mesi» Diego lo colpì a
tradimento alle
spalle.
Lovino
si voltò, il viso scurito in un misto di risentimento
e feroce imbarazzo.
«Cosa?»
«Che
tu e il capitano…» Consuelo corse ad abbassare le
braccia del cuoco prima che potesse mimare cose indecenti con le mani.
«Io
e il capitano cosa?»
Lovino quasi ringhiò.
Diego
scoppiò in una risata gioviale, e prese a sistemarsi i
polsini per renderli simmetrici.
«Non
c’è niente di male. Anzi,
congratulazioni» si
complimentò, uscendo per continuare il servizio.
Consuelo
lo seguì, e strizzò l’occhio a Lovino
prima di
uscire.
Il
pescatore ispirò a fondo, cercando di riassemblare i pochi
frammenti di reputazione rimasti.
«Non
è stato difficile associare le tue fughe notturne al
buonumore del capitano.»
Il
ruggito del cuoco distrusse i suoi tentativi.
Lovino
si scaraventò su una sedia, sfregandosi con foga i
capelli.
«Quanto
a lungo ne parlerete?» volle sapere, esasperato.
«Oh,
non molto» rombò il cuoco, assestando
un’energica
mescolata alla zuppa di pesce: un piccolo maremoto si agitò
nel pentolone, e
per poco un’onda anomala non debordò.
«Ne abbiamo già parlato molto negli scorsi
mesi. E abbiamo fatto molte scommesse su quando lo avreste
ammesso… forse
questo non dovevo dirlo» commentò, notando
l’espressione di Lovino in cui si
mescolavano orrore e tradimento.
«No,
non avresti dovuto» confermò ruvido, stringendosi
una
tempia con due dita. Era stato oggetto dei pettegolezzi e delle puntate
dei
dipendenti. Era quasi contento di non essere sulla sua barca: in quello
stato
d’animo, probabilmente si sarebbe legato un’ancora
al collo e avrebbe lasciato
che i flutti facessero il resto.
Il
cuoco si grattò la barba, corta e ispida come le setole
di un cinghiale, e rimbrottò:
«Senti…
io qui cucino e basta, quindi forse dovrebbe essere
qualcun altro a dirti queste cose… qualcuno che si esprima
un po’ meglio di me.»
Lovino
appoggiò la testa sul tavolo e la infagottò con
le
braccia: quando il cuoco prendeva le distanze da un discorso, un colpo
micidiale era in agguato. E lui non era sicuro di essere pronto.
«Vabbé,
ci provo» decise, scrollando le montagne che aveva
come spalle. «Prima Antonio sorrideva tanto, però
sorrideva solo con le labbra.
Aveva gli occhi vuoti. E per noi era un po’ uno strazio.
Insomma, un brav’uomo
ti offre un lavoro, ti tratta come un suo pari e tu non sei capace
nemmeno di
farlo stare sereno… non è stato un bel periodo,
no» scosse la testa e riprese: «Poi
sei arrivato tu. Quando sei arrivato ti avevo scambiato per un ragno,
eri più
testa che altro… forse anche questo non avrei dovuto
dirtelo.»
Un
mugolio incomprensibile si levò dall’intrico di
braccia.
Il cuoco vi passò sopra e continuò la sua stramba
arringa:
«Beh,
adesso sei più in carne. Meno male, altrimenti Antonio
non avrebbe avuto niente da toccare…»
«Arriva
al punto!» sbottò Lovino, sempre annidato nel suo
fortino.
Il
cuoco girò più volte la zuppa mentre concludeva:
«Insomma,
ora Antonio sorride anche con gli occhi. No, di
più. Sorride con… l’anima,
sì. Tu gli fai sorridere l’anima.»
Lovino
rovinò completamente la lirica di quelle parole
immaginandosi mentre faceva il solletico ad un fantasma con le fattezze
di Antonio,
e il suddetto spettro che si ammazzava di risate. Scosse la testa per
scacciare
quell’assurda immagine dalla sua testa.
«Sei
la cosa migliore che gli potesse capitare» decretò
convinto il cuoco. «E poi, scommetto che non
c’è un pescatore bravo quanto te
in tutta la Spagna!»
La
faccia di Lovino rimase ancora per qualche istante
alloggiata dietro la protezione delle braccia. Poi si
rialzò, togliendosi il
cappello per dare una scrollata ai capelli.
«Vado
di là» comunicò.
Il
cuoco lo lasciò andare, bonario. Antonio non era
l’unico
ad avere imparato qualcosa del comportamento del giovane: anche il
resto del
personale aveva capito che Lovino comunicava molto di più
con il silenzio e il
linguaggio del corpo che con le parole.
E
il cuoco si compiacque del suo operato, perché la
posizione delle spalle del giovane gli aveva rivelato che Lovino era
felice
delle sue parole, ma era troppo orgoglioso e imbarazzato per dirglielo.
Tornò
a occuparsi della zuppa, stando attento a non
scatenare un maremoto con il mestolo.
***
La
sera si era adagiata sui tetti delle case, ricoprendo le
finestre con un velo zaffiro scuro. Entro pochi minuti la tinta si
sarebbe
rappresa in un color lapislazzulo per poi cedere al nero totale: quella
sera
era prevista la luna nuova, e le stelle non sarebbero state sufficienti
a
rischiarare le strade.
Lovino
rientrò prima del solito proprio per quel motivo. La
Spagna non pullulava di criminali desiderosi di aggredire un pescatore
per
rubargli il paniere, ma l’italiano preferì
accelerare il passo: non gli era mai
piaciuto il buio. Lo detestava come odiava tutte le cose che potevano
offuscargli i sensi: sentiva l’ansia crescere quando non
riusciva a mantenere
il controllo su ogni elemento presente.
Rientrò
veloce nella locanda e, per un attimo, desiderò
essersi attardato qualche minuto di più
all’esterno: Antonio era dietro al
bancone, ad annotare le ultime prenotazioni prima di chiudere, e due
donne
civettavano con lui.
Lovino
storse il naso a quella vista: le due tizie erano
strette in quei corsetti che spaccavano le costole, funzionali solo ad
evidenziare la generosa scollatura. I capelli erano stati spazzolati
con cura e
fermati da pettini e forcine, i volti sapientemente truccati. Era
troppo
lontano per stabilirlo con certezza, ma era sicuro che fossero avvolte
da una
nube di profumo, probabilmente pregiato e costoso.
Corse
in cucina a buttare il pescato su un tavolo prima di
precipitarsi su per le scale: non voleva che gli starnazzi di quelle
oche gli
offendessero le orecchie. La gola gli si ostruiva per la nausea
nell’udire le
moine affettate di quelle due: probabilmente il cervello pesava meno
degli
accessori conficcati nei capelli.
Ogni
volta che un simile spettacolo aveva luogo, si sentiva
male come se avessero usato il suo stomaco per pulire il ponte di prua.
Perché
persone del genere si offrivano così ignobilmente al padrone
della locanda?
La
stoffa dei suoi vestiti non si sarebbe di certo trovata
in una sartoria di lusso, e l’odore di pesce e mare che lo
permeava non sarebbe
mai stato imbottigliato da un maestro dei profumi, ma almeno era in
grado di
sostenere una conversazione senza rifugiarsi dietro a risolini
superficiali o
svenevolezze gratuite. E, sicuramente, non si sarebbe mai ridotto a
fare le
fusa solo per ottenere un’occhiata da Antonio. Aveva ancora
un orgoglio da
difendere.
«Lovino?»
Il
ragazzo non fu del tutto sorpreso nell’udire il richiamo
dell’ex-capitano: il tonfo ritmico del bastone lo aveva
preceduto sulle scale.
«Non
ti ho visto tornare» disse, aprendo la porta della stanza.
«Lo
so. C’erano due donne con tutta la loro mercanzia ad
ostruirti la visuale» criticò sarcastico Lovino.
Antonio
interruppe a metà l’apertura della porta.
«Sono
stato vittima di un corteggiamento piuttosto serrato»
ammise lo spagnolo, decidendosi ad entrare nella stanza. Il giovane
attese un
istante prima di seguirlo. «Ma ho respinto ogni loro
offerta.»
«Offerta?»
reagì il pescatore.
Le
dita di Antonio si mossero sull’impugnatura del bastone,
tormentate.
«Non
credo tu voglia sapere. Alcune persone sono molto dirette»
mediò, purificando quanto era
stato detto in quella serata.
Lovino
incrociò le braccia e mosse il mento con aria di
sfida.
«Sembravano
delle belle donne» lo provocò.
«Lovino,
non mi sono sentito lusingato» chiarì
l’altro.
Il
ragazzo bloccò la sua offensiva quando Antonio si sedette
sul letto e storse la bocca per una fitta improvvisa alla gamba:
Consuelo non
aveva sbagliato a preoccuparsi delle sue condizioni.
«Ti
fa ancora male?» s’informò Lovino,
inginocchiandosi di
fronte al giaciglio. Tentò di mantenere un tono bisbetico,
ma la preoccupazione
impregnò con prepotenza le sue corde vocali, facendole
tremolare anziché
vibrare.
Antono
sorrise, poggiando il bastone contro il muro.
«Ogni
volta che succede, diventi geloso» allungò una
mano
per sfiorargli il viso, e la ritirò per timore che il
pescatore gliela mordesse
quando questo imprecò:
«Non
sono geloso. Mi fa schifo vedere degli esseri umani
comportarsi come animali in…»
«Lovino»
lo frenò Antonio.
Il
giovane masticò qualcosa a denti stretti, frustando il
pavimento con gli occhi.
Sapeva
di essere geloso, ma non voleva che Antonio se ne
accorgesse. Le donne di quella sera, e delle sere precedenti, non erano
di
certo in grado di interessare l’ex-capitano: il padrone della
locanda aveva
conosciuto troppe persone e visitato troppi luoghi per farsi incantare
da una
civetteria querula o da un lembo di pelle scoperto. Ma forse un giorno
sarebbe
arrivata una donna di bell’aspetto e con un cervello
sopraffino in grado di
fargli perdere il senno.
Non
gli piacevano quei pensieri, lo facevano sentire
scoperto e vulnerabile per una cosa incerta come il futuro: come poteva
temere
qualcosa più inconsistente dell’aria? Eppure la
paura era lì, e lo afferrava
quando simili scene si presentavano.
Era
abbastanza savio da riconoscere che una donna aveva
certamente più prospettive da offrire, rispetto a lui:
poteva garantire una
discendenza, un buon matrimonio e un appagante status sociale.
Lui… pescava.
I
pensieri volarono via come i gabbiani al giungere di una
nave quando Antonio gli passò le dita tra i capelli.
«Ho
saputo che i camerieri sono in fermento» sorrise,
poggiando le labbra sulla fronte del compagno. «Consuelo ha
cantato come un
usignolo, vero?»
«Ha
sparlato come una comare» precisò Lovino.
«Se
le voci ti danno fastidio, dovresti tornare in camera
tua» prescrisse Antonio, allontanandosi.
«No»
si risentì il ragazzo, afferrandolo per i gomiti
perché
non scappasse.
Un
sopracciglio scuro si sollevò per la sorpresa.
«Domani
mattina raddoppieranno la dose, se resti» lo
avvisò
l’uomo.
Lovino
si rialzò da terra e si sedette senza troppa grazia
sulle gambe dell’amante.
«Non
mi interessa» borbottò, incastrando le braccia tra
di
loro.
Antonio
gli fece scorrere un dito sulla schiena, per vedere i
suoi occhi fremere dietro la maschera di offesa.
Non
insistette oltre con le parole, consapevole che ogni
sillaba era un azzardo: fare il primo passo e dover attendere la
reazione
dell’altro faceva sentire Lovino scoperto, il che aumentava
esponenzialmente il
suo pessimo temperamento. Bastava un accento fuori posto
perché il giovane si
sentisse denigrato o insultato.
Preferì
parlare in un linguaggio che non avrebbe frainteso:
lo guidò a poggiare la guancia sulla sua spalla, e lo
avvolse con le proprie
braccia, carezzandolo piano. Le mani del ragazzo si convinsero ad
abbandonare
la loro posizione conserta per cingere il busto dell’uomo.
Lovino
chiuse gli occhi, distanziandosi dal resto del mondo
per concentrarsi solo sul tepore del suo amante. Gli unici momenti in
cui
accettava di restare al buio, erano quando la presenza di Antonio lo
circondava.
«Devi
farti la barba» lo avvisò, quando l’uomo
interruppe il
bacio per sbottonargli la camicia.
«Provvederò»
garantì, poco prima di lambirgli il petto con
le labbra.
Lovino
sospirò sulla sua zazzera scura, la bocca del
compagno che risaliva lungo il collo.
Solo
qualche mese prima si sarebbe agitato come un pesce
catturato a mani nude, e avrebbe cercato in tutti i modi di rendere
difficili
le cose al suo datore di lavoro.
Da
quando il brontolio aveva ceduto il passo
all’accondiscendenza?
Il
pensiero si smembrò quando le molle del letto cigolarono
sotto il peso dei loro corpi avvinghiati.
***
Un
bubbolio lontano si insinuò nelle sue orecchie, ma a
svegliarlo fu la luce della lampada e lo schianto della porta quando
Consuelo
si precipitò nella camera.
La
nebbia del sonno indugiò sui suoi sensi, e Lovino
districò a fatica tra le sue percezioni fangose strilli
sussurrati della donna.
«Antonio,
Lovino, presto! Dovete vestirvi!»
Qualcosa
si mosse sopra di lui, e il pescatore rabbrividì
per l’improvvisa perdita di calore quando Antonio si
alzò su un fianco.
«La
locanda va a fuoco?» sbadigliò
l’ex-capitano.
«Ah,
magari!» esacerbò la cameriera. Si fece il segno
della
croce e mimò l’atto di sputare per terra.
«Peggio, molto peggio! Lovino, svelto,
alzati! E’ meglio se scendete a distanza uno
dall’altro. Oh Signore!» Consuelo
cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro di
fronte alla porta, la
luce della lampada che reggeva tra le mani sussultava sui muri.
La
donna continuò a intervallare preghiere e maledizioni
mentre loro si cambiavano, le dita che scattavano dalle labbra ai
capelli,
dalle ciocche corvine alla lampada.
«Cosa
succede?» domandò Antonio, allacciandosi la fibbia
dei
pantaloni. «E’ entrato Satana, per caso?»
Lovino
trasalì per la risata isterica di Consuelo: sembrava
che una strega le stesse straziando la trachea con gli artigli.
«Hai
quasi indovinato» ansò la donna, quando le risa
insane
si furono placate. Fece il segno della croce altre tre volte, e poi
rintoccò
funebre: «Nicolas»
Il
bottone rimase a penzolare senza raggiungere l’asola: le
mani di Antonio si congelarono alla notizia.
«Quel Nicolas?»
soffiò,
trasecolato.
Gli
occhi castani del pescatore saettarono dall’uno
all’altra, indecisi su cosa fare: una parte di lui voleva
lanciare qualche
battuta acida a Consuelo, che aveva distrutto la privacy altrui per la
seconda
volta in una sola giornata; l’altra era paralizzata dal
pallore mortale della
donna e dall’espressione di granito dell’uomo.
Antonio
aveva visto il volto della Dea del Mare, e ne
parlava con tranquillità. Aveva affrontato la morte migliaia
di volte, e
raccontava tutte quelle vicende da narratore appassionato. Dubitava che
esistesse qualcosa al mondo in grado di spaventarlo davvero.
Lo
aveva creduto fino a quel momento. Seppellito sotto una
fitta coltre di autocontrollo, Lovino riusciva ad individuarlo: il
panico si
attorcigliava negli occhi dell’uomo come un nido di vipere.
«Vai
di sotto più in fretta che puoi e chiuditi nella tua
stanza» ordinò brusco Antonio, armeggiando con i
polsini.
Normalmente
Lovino avrebbe protestato per un ordine così
perentorio e così immotivato. Ma lo scintillio di timore
ancora palpitante
nelle iridi del compagno lo persuase ad obbedire senza fiatare.
Consuelo
si fece da parte per permettergli di passare, e
richiuse la porta dietro di lui.
Il
pescatore sistemò velocemente i capelli e
riassestò il
colletto storto della camicia. Poi scese le scale e, seguendo le
indicazioni
dell’ex-capitano, fece per dirigersi verso la sua camera.
«Oh.
Dunque è questo il vostro nuovo aiutante?»
«Nuovo
non direi, signore: Lovino lavora con noi da quasi
due anni, ormai.»
La
voce sconosciuta lo raggiunse contemporaneamente alle
gambe, fiaccandogli le ginocchia, al collo, strozzandogli il respiro, e
al
cuore, bloccandone i battiti. Se le cavernose tonalità del
cuoco non fossero
intervenute subito dopo a tranquillizzarlo, sarebbe caduto a terra,
tremante e
paralizzato.
I
vecchi bucanieri adoravano terrorizzare i bambini con i
racconti delle sirene, le arpie del mare che seducevano le navi con le
loro
voci per attirarle sugli scogli e sbranare l’equipaggio, o
che lanciavano le
loro grida altisonanti per far impazzire i mozzi. Quella voce gli
trasmise la
stessa gelida sensazione: non poteva appartenere ad un essere umano.
Si
voltò cauto, ed un volto brunito forgiato da furbizia e
sottile sadismo ricambiò il suo sguardo. Mantenne la testa
alta e la schiena
dritta: chiunque fosse la creatura che attendeva di fianco al cuoco,
non si
sarebbe lasciato intimorire. Era troppo orgoglioso per permettere alle
gambe di
tremare.
Contenne
un brivido quando gli occhi dell’uomo lo scrutarono
alla ricerca di una breccia nella sua difesa. Aveva le iridi ferme e
immote di
un morto, la pupilla stretta di un rettile e lo sguardo penetrante di
un
assassino.
Lovino
strinse le labbra quando capì perché
l’uomo lo
agitasse tanto. Sulla stoffa scura del farsetto, spiccava rosso sangue
il
simbolo del cacciatore di eretici.
Un
Inquisitore.
«Non
ho mai avuto il piacere di parlare con il vostro
garzone» flautò l’uomo, facendo girare
attorno al dito l’anello d’oro
massiccio.
«E’
un pescatore» grugnì il cuoco.
«Vi
chiedo scusa» sancì lo sconosciuto, chiaramente
indifferente al perdono dell’altro. «Vi dispiace
tenermi compagnia, mentre il
vostro padrone termina i suoi preparativi?»
Vi
fu un istantaneo scambio di sguardi tra Lovino e il
cuoco: l’orso di mare gli fece cenno di accettare, e il
ragazzo assecondò la
sinistra proposta.
L’Inquisitore
si accomodò su una poltrona, indirizzandogli
un ghigno sbilenco mentre attendeva. Lovino si sedette con la
rigidità del
legno sul sedile limitrofo.
«Temo
di non essermi ancora presentato» si schermì
falsamente l’uomo. Gli tese una mano con altezzosa galanteria
e proclamò: «Nicolas
de Torquemada.»
«Lovino»
replicò il giovane, stringendo a malapena la mano
dell’altro: era sicuro che si sarebbe trasformata in un cobra
e lo avrebbe morso
a morte, se l’avesse indispettita.
Nicolas
agitò distrattamente le dita come per rimuovere
della polvere e proseguì:
«Nome
davvero singolare. Non lo avevo mai sentito prima. Non
è spagnolo.»
Lovino
non era sicuro che quella dell’Inquisitore fosse una
domanda, ma annuì ugualmente.
«Venite
dall’Italia, giusto?»
Lovino
assentì di nuovo, fissando un punto indefinito nello
spazio circostante. Non ricordava se l’etichetta permettesse
a lavoratori umili
come lui di alzare gli occhi verso un Inquisitore. Preferiva comunque
evitare
quello sguardo: era viscido come una murena, e freddo come le correnti
invernali. Ed era innaturale, come sentire la voce di un defunto
rimbombare in
una cripta. Rabbrividì a quell’idea.
«Non
mi pare esista un nome simile, su quella penisola»
meditò sicuro Nicolas.
«Con
tutto il dovuto rispetto, signore, ma credo che il
nostro Lovino ne sappia più di voi sulle consuetudini
italiane.»
Nicolas
rivolse al cuoco uno sguardo in cui si mescolavano
disprezzo e superbia, fuse su una base di malignità.
«Probabilmente
avete ragione. Ma spero che voi, Lovino,
comprenderete…» continuò, voltandosi
verso il ragazzo. «Che qui siamo nel mio
paese, non nel vostro. E non solo conosco le consuetudini spagnole, ma
posso crearle.»
La
minaccia insita in quelle parole gli pizzicò il fegato,
irrorando il coraggio necessario affinché Lovino recuperasse
la sua
sfrontatezza e controbattesse:
«Non
capisco perché sono qui. Mi state accusando di
qualcosa?»
«Niente
affatto. Stiamo solo chiacchierando. Vi sentite a
disagio, per caso?» sciorinò mellifluo
l’uomo.
«Avete
un modo piuttosto intimidatorio di chiacchierare,
signore» il pescatore restituì il colpo, serrando
spasmodicamente le dita tra
loro.
«L’ansia
risiede nei colpevoli» deliberò Nicolas.
«E’ così
che vi sentite? Colpevole?»
«Certo,
sono colpevole» espresse una voce familiare alla
loro destra. «Ben cinque minuti di ritardo.
Imperdonabile.»
Nicolas
si esibì in un sorriso da aspide nell’alzarsi per
salutare il gestore della locanda.
«Antonio
Fernandez Carriedo» il nome dell’ex-capitano si
allungò untuoso sulle sue labbra sottili.
L’Inquisitore si alzò per depositare
un bacio fraterno sulla guancia ancora non rasata di Antonio.
Lovino
provò l’impulso di rifugiarsi dietro lo schienale
della sedia: fu come vedere Giuda dare il bacio del tradimento. Avrebbe
preteso
che Antonio si lavasse a fondo quella guancia, prima di accomiatarsi di
nuovo
con lui.
«Lovino
ti ha tenuto buona compagnia?» si informò Antonio,
stringendo la presa sul bastone: quel bacio gli aveva disarmonizzato i
sensi, e
faceva quasi fatica a reggere l’impugnatura tra le mani.
«Ti ringrazio per
avermi sostituito, Lovino. Ora puoi andare.»
Il
giovane sarebbe stato ben felice di seguire il suo
comando, ma Nicolas gliene impose un altro:
«No,
fallo restare. Ha un’ottima retorica. Mi piacerebbe
molto scambiare due parole con entrambi.»
Antonio
arginò con enorme maestria il malessere per quella
proposta, e si sistemò con apparente noncuranza tra Lovino e
l’Inquisitore.
«Da
quanti anni non ci vedevamo, capitano?» rimembrò
con
finta nostalgia Nicolas, tornando a tormentare l’anello.
Antonio
fece scorrere le dita sull’elsa dorata del bastone,
ripercorrendo il tracciato dei flutti scolpiti. Lovino ebbe
l’impressione che
il padrone della locanda si fosse posizionato al centro di proposito
per
proteggerlo dallo sterminatore di blasfemi. E la risposta
dell’ex-capitano lo
confermò.
«Da
quando hai acceso i roghi nella mia città natale,
Nicolas.»
E tornano i pirati anche qui<3
Come già detto in Rosa de los Vientos... anche questa fic era destinata a diventare un'originale. Ma il concorso ha deciso diversamente ergo... eccola di nuovo qui<3
E devo dire di essere molto contenta di vederla online una seconda volta<3 Mi è costato tanto toglierla, e sono felice di rivedere Lovino, Antonio, Arthur, Diego, Consuelo... sì, forse sono felice di rivedere perfino Nicolas XD
Spero che li apprezzerete di nuovo come la prima volta<3
E ancora grazie per avermi sostenuta durante la prima pubblicazione di questa storia<3 I vostri commenti sono salvati con cura nel mio computer<3
Grazie<3
Red