Ambientata intorno al capitolo 210, durante lo scontro con
il Quartetto del Suono. Genma e Raidou, picchiati e convalescenti, in ospedale
con Tsunade…? Su, fate mente locale.
Ecco,
bravi.
Post-mission
Durante tutto il tragitto verso Konoha non fecero altro
che ridacchiare. Benché fossero stati profusamente picchiati, feriti,
sbeffeggiati in ogni maniera, e benché le costole facessero un male cane e
Raidou continuasse a sputare sangue sulla spalla di Iwashi, si scambiarono
battute e risatine per tutto il tempo, sordi prima ai consigli e poi alle
minacce di Shizune.
C’era tanto da dire, molte cose per cui preoccuparsi, ma
in quel momento riuscivano solo a dare fiato alle sciocchezze più stupide che
gli venissero in mente, per sdrammatizzare e non pensare ad Orochimaru, o
magari per non ricordare il pericolo fortuitamente scampato.
Alla quinta barzelletta sull’Hokage, Iwashi fu costretto a
fermare Shizune - già slanciata in uno dei suoi pugni micidiali, sedativi
universali - e spiegarle che quello era il loro modo di affrontare il
dopo-battaglia. Le raccontò della volta delle ustioni, di come Genma avesse
ripetuto la stessa penosa storiella sui kunai un’infinità di volte a Raidou,
privo di sensi sulla sua schiena, e delle sue risate isteriche che si erano
spente solo una volta seduto sulle rigide sedie fuori dalla sala emergenze
dell’ospedale, quando aveva finalmente convinto i medinin a lasciare in pace i
suoi graffi superficiali ed era infine rimasto da solo senza niente a distrarlo
dai pensieri.
Shizune guardò sorpresa Iwashi, e dopo una lunga occhiata
ai due stupidi in fin di vita che rantolavano tra un ghigno e l’altro si
rilassò, sciolse i pugni, e aumentò l’andatura, fingendo anche di non sentire
una battutaccia sul suo Tom-Tom.
La prima cosa che Raidou vide, aprendo gli occhi, fu il
seno dell’Hokage; erano due cose talmente enormi che sarebbe stato difficile
non notarle, anche se non fossero state praticamente schiacciate contro il suo
naso. Uh, non portava il reggiseno?
La prima cosa che sentì furono le lamentele di Shizune sul
fatto che Genma non avrebbe dovuto alzarsi, perché doveva rimanere a letto e
riposare per minimo tre giorni e, brutto sconsiderato, se si alzava di nuovo e
si riaprivano i punti stavolta l’avrebbe ricucito direttamente al materasso,
maledetto idiota.
«Se già mi fissi la scollatura, vuol dire che vi siete
ripresi piuttosto in fretta, no Namiashi?» fece Tsunade, incrociando le braccia
sotto il seno come per sottolineare l’imponenz- cioè, il suo sarcasmo. Se
Raidou ne avesse avuto la forza, e la quantità di sangue nel suo corpo fosse
stata sufficiente, sarebbe probabilmente arrossito. «Siate così gentili da
spiegare in poche parole quello che è successo e poi cadere in letargo e fare i
bravi convalescenti.»
Genma fissava in rancoroso silenzio la schiena di Shizune,
affaccendata intorno a qualche altro moribondo della camerata, così Raidou
dovette raccontare dell’incontro, dello scontro, e della loro clamorosa
sconfitta ad opera di quei quattro stramboidi del Suono. Perché toccava sempre
a lui rapportare i fallimenti e prendersi le lavate di capo? Comodo per Genma
starsene a far finta di niente sul suo lettino, fingendo di non guardare il
sedere di Shizune ed essere offeso. La prossima volta toccava a lui sorbirsi la
sgridata, sicuro.
Solo quando Maito Gai arrivò urlando - urlando, santo cielo! Nemmeno in
ospedale quell’uomo sapeva darsi un contegno - e piangendo lacrime di
(nell’ordine) preoccupazione sollievo panico e orrore, i due valorosi
ricoverati vennero lasciati da soli, non prima però di aver ricevuto
occhiatacce d’ammonimento da tutti gli infermieri del reparto.
Neanche dieci secondi e Genma era già in piedi che
arrancava per arrivare al letto di Raidou, con il sorriso compiaciuto di un
bambino che va a rubare le caramelle di nascosto dal barattolo in cucina.
Raidou si spostò un po’ a lato per fargli spazio sul letto troppo piccolo e
Genma si accasciò al suo fianco, mettendogli un braccio attorno alla vita e
stringendolo forte, il naso nascosto nella sua maglia. Fu la prima cosa a cui
Raidou sorrise.
«Sei, sei e mezzo ad essere buoni. Con i capelli in quel
modo è spaventosa.»
«Che carogna, non è vero!»
«Ma dico, l’hai guardata? Sembra che le sia morto un
procione in testa. Anko?»
«Otto meno, troppo agitata per i miei gusti.»
«Non per quelli di Ibiki, mi sa…»
«Cos- Ibiki?!»
«Ah-ah. Li ha beccati Iruka dietro l’Accademia.»
«Oddio… pensa quei poveri bambini…»
«Pensa al povero Iruka.»
«No, non ci voglio pensare. No nononono non ci sto pensando!
Va bene, allora… Shizune?»
«Otto e mezzo. Bel corpo.»
«Pff, tutto il mondo si è accorto di come le fissi il
sedere ogni giorno.»
«Sono un ninja, Raidou. Se volessi essere discreto, lo
sarei.»
«Quando voi due avrete finito di compilare, discretamente,
la pagella di tutti i culi di Konoha, potreste per favore chiudere il becco e
prendere queste dannate medicine? Grazie, tesori.»
Raidou era solo a metà del secondo schema di parole
crociate quando Genma raggiunse il punto di apatia massima e decise di
meritarsi tutta la sua completa e devota attenzione, sicuramente più di un
pezzo di carta a scacchetti.
«Non ci gioco a poker con te, Genma,» mormorò
distrattamente Raidou, mordicchiando il fondo della matita mentre la malefica
quattro verticale lo faceva dannare. «“Una delle qualità necessarie per
diventare Kage”, cinque lettere, la penultima è una T?»
«“Tette”,» gli tirò un cuscino che Raidou parò col
cruciverba. «Mi annoio. Okay, che oggetto sto pensando?»
«Tette,» ripeté Raidou, e schivò di poco il nuovo cuscino.
«Non mi interessa cosa pensi, Genma.»
«Certo che ti interessa cosa penso, ti interessa tutto di
me perché sono l’uomo della tua vita e non vedi l’ora di prendere il mio
cognome e diventare la signora Shiranui. È un oggetto della stanza.»
Raidou abbassò sconsolato il cruciverba, arrendendosi
all’evidenza che Genma si sarebbe zittito solo quando lui avesse scoperto il
fantomatico oggetto e gliel’avesse infilato in gola. «Inizia con la S?»
«Nah.» Genma si accoccolò contro l’ultimo cuscino rimasto,
contento.
La seconda notte di degenza, Raidou venne svegliato dai
lamenti di Genma. Erano brevi, a mala pena più forti del vento che soffiava di
fuori, ma quella cadenza nel respiro di Genma, quegli ansiti terrorizzati che
gli facevano montare l’angoscia in gola ogni volta che Genma aveva un incubo,
per lui erano inconfondibili.
Strisciò fuori dalle coperte, rabbrividendo per il freddo
delle piastrelle del pavimento e per quello che si stava trasformando in un
pianto di Genma. Non era mai stato così brutto, di solito si agitava solo nel
sonno e basta, niente piagnucolii, niente incoerenti bisbigli spezzati.
Si sedette sull’orlo del suo letto e, incerto, gli posò
una mano su una spalla. Genma sussultò e si voltò di scatto, gli occhi lucidi
sbarrati per la sorpresa. Strinse forte la mano di Raidou nella propria quando
il più grande fece per alzarsi, o forse stava solo scivolando a terra,
facendogli sbiancare le nocche. Raidou si sistemò e iniziò ad accarezzargli la
fronte, scostando le ciocche umidi e passandogli le dita tra i capelli,
rassicurante.
«È stato peggio del solito?» chiese in un soffio,
portandogli un ciuffo dietro l’orecchio; Genma annuì appena. «Vuoi parlarne?»
mormorò, ma Genma scosse la testa con foga, come un ragazzino dagli occhi
grandi e colmi di fin troppe brutte esperienze, illuminati solo dalla luce
della luna.
«Vuoi che resti?» Stavolta Genma esitò un secondo, poi
annuì e, come un ripensamento, strinse la mano di Raidou nella sua e lo trascinò
giù, l’altra mano ad arpionagli al maglia per tenerlo fermo mentre lo baciava.
Nonostante fosse Raidou quello che ci rimetteva di più in
missione e quello che tornava sempre conciato peggio, era Genma a portarsi
tutto dentro, a mantenere una facciata impassibile con quel suo senbon
onnipresente e a farsi venire gli incubi. Spesso erano su di lui, Raidou lo
sapeva, perché l’aveva sentito chiamarlo nel sonno qualche volta. Genma era
così fragile nella sua forza, pensò
mentre si infilava sotto le sue coperte e si lasciava baciare, a labbra chiuse
ma con urgenza.
Spettava a lui sostenerlo, si disse stringendolo tra le
braccia così da poter sentire il suo cuore rimbombare nella propria cassa
toracica, mentre la sua lingua gli si insinuava in bocca.
Era a questo che servivano gli amici, no? Sostegno.
Peccato che avrebbe tanto voluto essere qualcosa in più di un appiglio a cui
aggrapparsi, per quell’amico.
Quando le mani di Genma si infilarono sotto la sua maglia,
nei suoi pantaloni, lo lasciò fare.
L’infermiera fu meravigliosa nel suo far finta di nulla
trovandoli avvinghiati nello stesso letto, comportandosi come al solito e
riuscendo a farli sentire persino più a disagio di come avrebbe fatto
altrimenti. Come se ci fosse stato bisogno di altra tensione, tra loro due.
Genma venne dimesso, con gran commozione dei medinin che
avevano dovuto assisterlo; gli augurarono tutti di stare sempre bene e in
salute, oppure di morire sul colpo trafitto da mille shuriken piuttosto che
tornare da loro a rompere i coglioni.
Raidou dovette aspettare di fare tutta una serie di
controlli, esami e prove del nove, e solo a pomeriggio inoltrato lo lasciarono
tornare a casa tra i calorosi saluti (e un paio di richieste d’appuntamento) di
tutte le infermiere. Genma lo stava aspettando fuori dall’ospedale; lo
accompagnò verso casa in silenzio, e una volta lì non si fece problemi ad
accompagnarlo anche dentro, restando a chiacchierare del più e del meno e nient’altro fino a tarda sera.
«Ti va un caffè?» domandò Raidou con un’occhiata veloce
all’orologio a muro che segnava le undici passate da un pezzo, grato che i
cerotti nascondessero il rossore sulle sue guance. Non attese una risposta per
mettersi a trafficare nervosamente con i fornelli, solo per avere qualcosa a
distrarlo da Genma, che dal suo divano lo fissava intensamente.
«Vorrei passare la notte con te,» disse senza preavviso,
facendo versare a Raidou acqua bollente un po’ ovunque. Aveva un’espressione
così dolorosamente sincera che Raidou credette, per un attimo, di non aver visto
troppo in quella richiesta.
«Capisco che ieri è stato…» Si appoggiò al ripiano della
cucina, stringendo le nocche intorno al bordo tanto da farle sbiancare. «Sì,
insomma, ma non mi sembra che ci sia di nuovo bisogno, se… tanto era stato solo
per conforto, no?»
«No.» Stessa espressione distante di sempre, stesso tono,
ma Raidou non poté fare a meno di trasalire. «Se fosse stata solo una cosa del
momento, non avrei mai messo in pericolo la nostra amicizia solo per una
scopata. Sarei andato a cercare una ragazza qualsiasi, come faccio ogni volta
che ti comporti da coglione come ora.»
Raidou lo fissò con la bocca semi-aperta, senza nulla di
sensato da dire, non un pensiero coerente in testa. «…allora è per questo che
eri tanto pronto sui voti.»
Genma gli lanciò un sorrisetto amaro da attorno al senbon,
evitando di guardarlo negli occhi. Si alzò, spolverandosi immaginaria polvere
via dai pantaloni poi aggiustandosi il coprifronte, e tutta una serie di gesti
piuttosto inutili e nervosi. Raidou non riusciva a staccargli gli occhi di
dosso, era così a disagio e tenero allo stesso tempo.
«Beh, ci vediamo domani-»
«Non ho detto che non puoi restare qui,» l’interruppe
Raidou, «Voglio dire, se hai ancora voglia.»
Genma lo scrutò, illeggibile, per lunghi secondi, prima di
togliersi il coprifronte gettandolo sul divano e andare verso Raidou con un
accenno di sorriso sul volto, pronto a dimostrargli quanto ancora aveva, e
avrebbe avuto per molto tempo, voglia di restare.
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…in realtà ho fatto tutta ‘sta cosa solo per scrivere di
loro due che giocano a Indovina Cosa Sto Pensando durante la convalescenza, oh.
Anche se il titolo mi ha fatto dannare per secoli, e fa comunque schifo. u_u
GENMA E RAIDOU SONO AMORE! Non ci sarà mai abbastanza di
questo pairing, argh, argh. *manda messaggi subliminali all’incauto lettore per
far scrivere GenRai anche a lui*
By the way,
yo fandom, quanto tempo. <3
Will