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Autore: Elos    02/01/2014    5 recensioni
Artù aveva smesso di essere Semola da molti anni: era stato il giovane re Artù e poi il buon re Artù e adesso era il vecchio re Artù, con i suoi molti figli e moltissimi nipoti e qualche pronipote che cominciava a sbucar fuori, perché Artù aveva raggiunto quell'età dove gli anni cominciavano a perdersi nel conteggio, e certe volte anche lui si ingarbugliava. Erano passati tre o quattro anni dall'ultima guerra contro i Sassoni, sedici o diciannove dalla nascita della sua terza nipote, quarantatré o quarantasette dal giorno in cui aveva sposato Ginevra, era stato trenta o trentacinque anni fa che aveva visto Merlino per l'ultima volta?
Perdere il conto non gli dispiaceva. Ogni tanto prendeva i ricordi in mano e dava loro una scrollata, per sparpagliarli un altro po', e poi li rimetteva insieme nell'ordine che preferiva, le cose belle dopo quelle brutte, sempre, che così sembravano un po' meno brutte e un po' più accettabili. [...]
Partecipa all'iniziativa Caro Babbo Natale... indetta dal blog di Pseudopolis Yard.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Artù/Semola
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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. il re degli uomini



La sua storia era cominciata in un castello vecchio come il cucco, tenuto insieme da più sputo, buone speranze e travi messe di traverso che pietre, dove c'era un cuoco nelle cucine e nessuno sguattero nella sala da pranzo, una dozzina di polli nella stia e tre maiali ed una scrofa che il giorno di Natale forniva il maialino da latte per l'arrosto, tutti gli anni, ogni anno, sempre più vecchia e grassa e gonfia ogni inverno che passava. Aveva un modo di guardarti, quella scrofa, che ti faceva sentire in colpa per quel povero maialino che finiva nel forno con le cipolle e le mele. Lui si era sentito molto in colpa, sempre, ma l'arrosto di Natale era buono, buonissimo, squisito, la cosa più buona che gli finisse nel piatto tutto l'anno, e la carne era poca, i giorni di digiuno santo invece erano tanti, e tanti anche quelli in cui nel piatto c'era solo farinata.
C'era un solo cavallo nel castello in cui la sua storia era cominciata. A lui non era stato permesso montarci sopra, sicuro, solo strigliarlo e lavarlo e pulirgli la stalla e tenerlo nutrito e tranquillo, ma era stato comunque il suo cavallo, in un certo modo, più suo che di Caio, in effetti, perché Caio lo montava e ci andava in giro, ma era lui quello che gli dava da mangiare e lo accarezzava e gli parlava la sera prima di chiudere la stalla.
Adesso c'erano tredici cavalli nelle sue stalle, tredici cavalli bianchi e neri e bai e pezzati, i grandi frisoni che venivano dalle terre nebbiose del nord e cavalli piccoli e più tozzi che non si stancavano mai ed anche un cavallo giovane e snello e nervoso, tutto gambe lunghe e strette e denti scoperti, che gli era stato regalato da un regno molto più a sud del suo, dall'altra parte del mare, delle acque, da dove arrivavano gli invasori che una stagione sì ed una no, immancabili come l'inverno e le tasse, facevano danni sulle coste, rubando e saccheggiando qui e lì per poi scapparsene con la coda tra le gambe quando i cavalieri si mettevano in cammino. Non c'era tanto da scherzare sull'argomento, perché c'era sempre chi ci rimetteva le penne, qualcuno dei villaggi sulla costa che doveva essere ricostruito da zero e una contadina scomparsa su una delle navi in fuga, ma la gente di quelle parti aveva imparato a prendere la cosa con filosofia, con serenità, ad accettare che tutto si poteva ricostruire e, a Dio piacendo, tutto si sarebbe ricostruito, con un po' di fortuna quest'anno dal mare sarebbero arrivati più pesci che Sassoni e le reti non si sarebbero rotte e la tempesta non si sarebbe mangiata troppa spiaggia.
Tredici cavalli nelle stalle del re e maiali a dozzine nei recinti della corte e nessuno si era più messo a contare i polli da anni, innumerevoli, una marea starnazzante e piumata che finiva sugli spiedi nei giorni di festa e nel bollito quando c'era la magra, e il castello dove viveva adesso era un vero castello di pietra dove l'acqua non passava, dove la pioggia non entrava. Merlino non avrebbe avuto bisogno di tirar fuori botti e pentole dalla borsa, né di aprire un boschetto di ombrelli per rappezzare il tetto.
Merlino gli mancava moltissimo. Certi giorni faceva male, come una vecchia ferita al cuore che andava ancora in suppurazione di tanto in tanto; ma la maggior parte del tempo era solo nostalgia, un genere di dolore pulitissimo e leggero che lo spingeva nei sottotetti del castello a vedere se quest'anno almeno gli riusciva di trovare un altro gufo parlante - perché anche Anacleto gli mancava.

Gli piaceva immaginarli così, ad Artù: Merlino con il cappello al rovescio e quell'impossibile tunica a righe che si ostinava a chiamare camicia, così, camicia, come fosse una parola vera, i calzoni gialli e le borse in mano, ed Anacleto a brontolargli in cima alla testa.
Era così che li vedeva, nei giorni in cui pensarci non faceva male.

Artù aveva smesso di essere Semola da molti anni: era stato il giovane re Artù e poi il buon re Artù e adesso era il vecchio re Artù, con i suoi molti figli e moltissimi nipoti e qualche pronipote che cominciava a sbucar fuori, perché Artù aveva raggiunto quell'età dove gli anni cominciavano a perdersi nel conteggio, e certe volte anche lui si ingarbugliava. Erano passati tre o quattro anni dall'ultima guerra contro i Sassoni, sedici o diciannove dalla nascita della sua terza nipote, quarantatré o quarantasette dal giorno in cui aveva sposato Ginevra, era stato trenta o trentacinque anni fa che aveva visto Merlino per l'ultima volta?
Perdere il conto non gli dispiaceva. Ogni tanto prendeva i ricordi in mano e dava loro una scrollata, per sparpagliarli un altro po', e poi li rimetteva insieme nell'ordine che preferiva, le cose belle dopo quelle brutte, sempre, che così sembravano un po' meno brutte e un po' più accettabili.
Aveva smesso di essere Semola, e poi era diventato re Artù, il vecchio re Artù, e durante i primi anni del suo regno Merlino era venuto a trovarlo, di tanto in tanto, portandosi dietro Anacleto, le sue borse senza fondo e i suoi consigli; ma adesso non veniva più. Non veniva più da un po'.
Dopotutto, anche Merlino era stato vecchio. Vecchissimo. Merlino era stato vecchio, come Anacleto, e vecchio era stato anche il buon sir Ettore – che mai Semola aveva smesso di chiamare padre, che era una parola buona, una parola bella, che faceva bene al cuore – e adesso Caio andava in giro con un bastone, zoppicando ed agitandolo all'indirizzo di tutti quelli che gli passavano accanto, ma sempre di buonumore. La vecchiaia l'aveva fatto più intelligente, a Caio.
E fratello, anche fratello era una parola buona, come figli, moglie, nipoti, pronipoti, bisnipoti...



Ginevra aveva avuto un sorriso bellissimo, gli occhi verdi e la pelle liscia come la buccia delle pesche. I capelli biondi. Le dita sottili. I denti storti e il naso a patata e le orecchie un po' a sventola, anche, e non era stata bella per niente sin dal principio, ma Artù l'aveva amata dal primo momento che l'aveva vista. Era difficile non amare qualcuno che aveva un sorriso così, aperto, felice. Quando piegava il collo la luce del sole le inondava le spalle di grazia, vestiva di verde e di azzurro e tutte le domeniche scendeva in cucina a fare il pane per tutta la settimana.
Le cucine erano il posto più bello del castello. Artù aveva avuto fame per i primi sedici anni della sua vita, la fame ingorda degli adolescenti spilungoni e allampanati, ed aveva continuato ad aver fame ogni volta che c'era da andare in guerra, ogni volta che cominciava una carestia. L'odore del pane era rimasto nella sua testa l'odore delle cose che andavano bene; quello della carne arrosto era l'odore dei giorni delle feste e quello delle mele, be', l'odore delle mele era l'odore di quel pomeriggio d'estate dove aveva tirato Ginevra in un granaio ed insieme avevano provveduto a mettere in cantiere il primo dei loro moltissimi figli.
Le domeniche le cucine si riempivano di donne che impastavano, imburravano, schiacciavano, salavano e infornavano, e c'era sempre qualcuno che rideva, i più piccoli tra i bambini che piangevano in braccio alle balie e i più grandi che rubavano la frutta dai cestini e l'impasto ancora crudo.
Le cose potevano non essere sempre perfette. C'erano i Sassoni e c'erano le carestie e le tasse da far pagare e le prigioni da svuotare. C'erano giornate nere e giornate tristi e giornate piene di niente, ma poi c'era la domenica del pane e della festa, e tutto sommato andava bene anche così.

Adesso Ginevra aveva qualche ruga in più. I capelli non più tanto biondi. La pelle non più tanto liscia. Il sorriso era un po' incrinato, lì, nell'angolo destro, per tutti i giorni che erano stati neri e tristi e che avevano lasciato il segno. Artù sentiva di aver accumulato amore per lei come si accumulavano i piselli sgranati per la zuppa, ogni giorno un grano di amore, un seme, fertile e florido e umido e gonfio, da far germogliare.

Come si poteva non essere felici, pensava Artù. Più felici di così, non si poteva, sarebbe scoppiato.



Aveva smesso di essere Semola, ma non aveva mai smesso di essere Semola: potevi togliere il re dalle stalle ma non potevi togliere lo stalliere al re, e così Artù aveva l'impressione di vederselo camminare accanto, Semola, sgangherato e allampanato e tutto storto, con le braccia magre e le ginocchia ossute. Era una buona compagnia. Facevano lunghe chiacchierate, Artù e Semola, nelle sere di inverno.
Era stato Semola a fargli notare che Excalibur stava cominciando a diventare pesante. Impugnarla gli faceva dolere il polso e sollevarla lo lasciava con la schiena scricchiolante per giorni. Si guardava allo specchio, con la sua barbona bianca che era uguale a quella di Merlino, la copia precisa e sputata, e si accorgeva che era più simile a Semola di quanto non lo fosse stato per anni: adesso, adesso che la giovinezza era un'eco lontanissima nel mezzo dei suoi ricordi aggrovigliati, adesso che andava facendosi sempre più vecchio, ecco, adesso aveva di nuovo le ginocchia ossute e le gambe magre, sgangherato e allampanato e tutto storto. Aveva passato tanti di quegli anni ad essere alto e largo come una montagna che scoprirsi tornato uno spaventapasseri gli fece uno strano effetto. Non spaventoso, no. Solo strano.
Se Excalibur era così pesante da non poterla più sollevare, si disse, era inutile continuare a tenerla. E, se era inutile continuare a tenerla, forse era ora di rimetterla dove l'aveva presa. Davvero. Sarebbe stata meglio lì che non in una teca, e i suoi figli potevano costruirsi le loro storie da soli, non avevano bisogno di vecchi pezzi di ferro che avevano già troppa storia scritta sopra. Non avevano bisogno di essere le ombre del padre, i suoi figli.

Il giorno in cui Artù decise di rimettere Excalibur nella roccia era ancora inverno, e faceva ancora molto freddo. Non c'era ragione di viaggiare con i mesi bui: il castello era tiepido e asciutto e invitante, le mura spesse tenevano lontano il gelo; la domenica mezza corte si radunava nelle cucine a fare il pane perché era la stanza più calda di tutte e perché l'odore del pane appena sfornato da Ginevra avrebbe fatto resuscitare i morti. Alla fine dell'inverno la terzultima delle sue nuore diede ad Artù un altro nipotino. Una delle vacche partorì una coppia di vitellini bianchi come il latte. C'erano già i carciofi, negli orti, e le fave tiravano fuori fiori dall'odore nebbioso e pungente.
Uno dei primi giorni di primavera, Artù si svegliò prima che il sole spuntasse, annusò l'aria e decise che quello era proprio un buon mattino per partire: caricò due bisacce sulla groppa di uno dei cavalli – uno di quelli piccoli, tozzi, che non si stancavano mai – e Mordred sulla sella e si avviarono entrambi, allegramente e senza fretta, prima che si alzasse il sole.
La roccia della spada era un po' più a sud, disse Artù a Mordred, ad una mezza giornata di cammino. Se non perdevano tempo, e se la strada era asciutta, potevano andare e tornare prima che facesse buio. La città era già sveglia e le campagne vibravano: quella era l'ora buona per seminare e per annaffiare; cominciava a far troppo caldo per arare i campi, invece, e c'era una fila di aratori che tornava alle stalle spingendosi avanti i buoi. Il sole era il sole chiaro degli inizi della primavera, pallido e audace, che faceva del suo meglio per tenere l'aria luminosa.
Si fermarono a rompere il digiuno a mezzogiorno, ed Artù tirò fuori pane e salame dalle bisacce. Una contadina diede loro da bere – latte, non acqua, e quello era un buon segno, segno che l'anno si prometteva ricco, niente carestie, niente vacche magre. Buon segno. Il migliore dei segni possibili. Il regno era finito ad Artù tra capo e collo, il giorno in cui aveva tirato fuori una spada dal terreno per accidente, ma ci teneva, Artù. Da quel regno veniva Ginevra, venivano i suoi figli, i suoi nipoti. Se certe notti gli veniva paura di morire – di lasciarsi alle spalle tutte le cose che lo rendevano felice – gli bastava pensare che alle spalle si sarebbe lasciato anche il suo popolo, la sua gente, possibilmente un po' più sazia e ricca e felice di com'era stata prima che lui arrivasse. Era un buon pensiero. Acquietava il timore della morte.
Di morire, Artù non aveva veramente paura. Aveva cercato di fare bene, e provato a non fare troppo male, ed era tutto quel che si potesse chiedere ad un uomo, quello. Di fare del proprio meglio per produrre più bene che male.



Popolo, be'. Il popolo, gli aveva detto una volta Anacleto, il popolo è un po' come una moglie. Non ci andrai sempre d'accordo, con il popolo, e ci saranno giorni in cui ti chiederai chi te l'abbia fatto fare, precisamente, ma è tua moglie, l'hai sposata, te la sei presa. Non puoi buttarla giù per le scale, a tua moglie.
Artù aveva avuto Ginevra, che si era sposato e si era presa, si erano presi l'uno con l'altra, Artù e Ginevra, e non sempre andavano d'accordo; ma Artù mai aveva avuto la tentazione di buttarla giù per le scale, Ginevra, Ginevra con il sorriso bellissimo, le orecchie a sventola e la lingua svelta, e così questa cosa del popolo che era come una moglie non gli era mai stata troppo chiara.
Popolo, aveva deciso alla fine, popolo era una parola come fratello, come figli e nipoti, pronipoti, padri e bisnipoti, tutto il suo popolo che gli era capitato un po' tra capo e collo e gli era rimasto appiccicato addosso.
Il suo popolo. Era un pensiero bello, che faceva bene al cuore.



Con gli anni, attorno alla roccia ed all'incudine erano cresciute l'erica e l'edera: Artù e Mordred dovettero tirar via i rami con le mani per farsi spazio. C'era una rosa selvatica che si era avvinghiata attorno al metallo, con boccioli piccoli e gialli dall'odore dolce – il profumo dei fiori selvatici era sempre più buono, più vero, di quello dei fiori che crescevano nei giardini dei ricchi – e Artù spinse da una parte un fiore già mezzo schiuso malgrado il freddo, delicatamente, perché non si rovinasse mentre faceva scivolare la lama al suo posto nell'incudine.
La punta toccò il fondo con un grattare sordo di ruggine, metallo contro metallo, e dalla bocca socchiusa di Mordred scappò un oh piccolissimo, come un sospiro.
Artù gli sorrise e prova a tirarla fuori tu, gli disse, prova a tirarla via.
Mordred strinse le mani attorno all'elsa – mani piccolissime, di bambino, più piccole ancora di quelle che erano state le mani di Semola – e tirò, tirò, tirò. Ma la spada non venne via.
Non verrà più via, gli spiegò Artù, prima che la faccia di Mordred si facesse troppo delusa, niente più spade fuori dalla roccia, niente più re capitati per caso. Possiamo provare a fare di meglio con il prossimo re, gli disse. Niente pezzi di ferro da estrarre nel giorno di Natale, perché il giorno di Natale è un giorno di pace e di festa e con le spade, invece, ci si fanno solo i morti e il sangue. Niente più re che non vengano dagli uomini.
Re degli uomini, gli disse Artù, tu sarai re degli uomini.

Si sedettero ai piedi dell'incudine, nel mezzo dell'erba umida e del profumo di rosa selvatica, e Artù tirò fuori una mela passita dalla bisaccia. La fece a fettine sottilissime e le diede a Mordred, una alla volta, tenendo per sé il torsolo.
Mordred era biondo e minuto e assomigliava a Semola e non gli assomigliava per niente. Aveva gli occhi azzurri di sua madre e le orecchie un po' a sventola che erano state di suo padre e di suo nonno e di sua nonna prima di lui. Masticava lentamente e con l'aria assorta: le mele passite del castello erano dolci come il miele, con il succo che s'era fatto asciutto, denso e sciropposo durante i mesi passati ad asciugare in un cesto pieno di paglia.
“Posso avere una storia, nonno?”
Tutte quelle che vuoi, gli disse Artù. Aveva la testa ancora piena delle storie dei suoi figli, dei figli dei suoi figli, storie ancora da scrivere che si sarebbero costruiti da soli e senza il peso di una spada-incudine a gravar loro sulla schiena. Ma:
“La tua,” gli disse Mordred. “Raccontami la tua.”

Racconteranno altre storie, poi, su di lui, su di loro, ma così è come la storia vera finisce: lì, alla giunzione dove un'altra ne inizia.







Note della storia:
E questo il mondo fa girar...
Ed anche tu t'accorgerai
che ognor difenderti dovrai.
E per non farti conquistar
dovrai il cervello adoperar:
perché in natura, ben si sa,
il forte il debol sopraffà.


Avevo intenzione di accompagnare questa storia con la bellissima canzone iniziale de La spada nella roccia. Tuttavia, l'ho ascoltata e riascoltata e alla fine ho deciso che non era la canzone giusta.
Merlino e Semola mi hanno praticamente cresciuta a livello cinematografico, insieme ai Biker Mice da Marte, a Basil l'Investigatopo e all'albatros Orville. Tutto il resto è venuto dopo. Non potevo non chiudere con loro, perciò, questa rassegna di storie per la serie di ever after: non perché il film non finisca bene - finisce esattamente come doveva finire - ma perché mi mancava, ne avevo nostalgia.

Questa storia è dedicata a Geilie, kuma_cla e Rowena: mi sono infatti decisa a terminare di scriverla (i primi paragrafi vegetavano nel mio computer da oltre sei mesi) per l'iniziativa natalizia di Psuedopolis Yard, e se questa storia non rimarrà a mummificarsi lì dov'era si deve soltanto alla loro richiesta a Babbo Natale. Spero sia abbastanza Disney, ragazze. E' tardi per augurarvi buon Natale, ma forse si fa ancora in tempo ad infilare gli auguri in una calza per l'Epifania.



Che cosa posso dire? Grazie a tutti quelli (e sono stati tanti!) che hanno seguito questa raccoltina. Grazie a chi si è fermato a lasciarmi un'opinione... e grazie a chi sta ancora aspettando che io gli risponda. Lo farò. Giuro. E' sui miei propositi per l'anno nuovo. ... no, non il 2015. Questo anno nuovo. Semiusato. Quel che è.

Grazie.
  
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