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Autore: Medy    05/01/2014    1 recensioni
Puoi seppellire vecchi rancori, vecchi segreti e vecchi fantasmi, ma troveranno sempre il modo per ritornare e rendere i bei sogni solo un incubo, un incubo che non trova pace. Quando nella cittadina di Dimwoods viene riaperto il "Caso Miller" vecchi ricordi e incubi ritornano a minacciare la tranquillità dei suoi abitanti. Giovane e dalla vita tormentata, la tragica e misteriosa morte di Marine Miller desta ancora sospetti a distanza di otto anni. Nessuno sembra sapere nulla, tutti sembrano non conoscerla come se fosse sempre stata un fantasma. Ma adesso che c'è un assasino a piede libero da cercare, tutti si chiedono cosa ci sia dietro e chi di tanto muostruoso abbia deciso di mettere fine ad una vita ancora giovane. Ma c'è qualcuno in realtà che sa più del dovuto e che ha sepolto tutto con menzogne e bugie... Almeno fino ad ora.
*Questa storia è stata scritta a quattro mani con l'autrice Whitesnow
http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=236667
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1°Capitolo

"Ombre Dal Passato"
 

Otto anni dopo...


"Ancora! Hai avuto il coraggio schifoso di farlo ancora!!" La pregiata porcellana si frantumò ancora contro il muro, evitando di poco il volto dell'uomo che rivolse  uno sguardo sbarrato ed impaurito verso la bella moglie che - con indosso solo una sottile vestaglia -  mostrava la sua rabbia distruggendo il pregiato set di piatti tenuti fin a quel momento ben custoditi. Ne volò un altro e ancora un altro si aggiunse a quel cumulo di detriti lucenti. L’uomo si avvicinò di qualche passo verso di lei, ma fu fermato da un altro piatto che  gli sfiorò di poco una spalla. Era fuori di sè ed ogni argomentazione, scusa o tentativo di mettere fine a quell’ira violenta sarebbe stata inutile. L’uomo fissò ancora una volta la moglie - con il bel volto arrossato ed il petto che ad intermittenza andava su e giù - che lo guardava con i suoi lucenti occhi, quel pomeriggio rabbiosi e privi di quella bellezza che aveva fatto sognare molti uomini... e avevano reso lui fiero di sè. Quel pomeriggio non c’era bellezza su quel volto, ma solo rabbia e odio.
Savannah Clark era davvero stufa di quel matrimonio che si era rivelato un vero incubo e dal quale non vedeva via di fuga. Quel matrimonio senza amore che lei aveva accettato con troppa leggerezza e superficialità. Aveva sposato Adam Lewis - suo fidanzato storico del liceo - non deludendo le mille aspettative che gli abitanti della piccola cittadina di Dimwoods avevano nutrito su di loro. Ma nonostante quell’infelicità, quel mascherarsi ogni giorno in moglie felice e soddisfatta, Savannah Clark non riusciva ad accettare le mille scappatelle che suo marito - il bel proprietario dell’azienda Lewis & company, filantropo ed ex capitano della squadra liceale della città - si concedeva senza preoccupazioni. Era ormai divenuto da routine sorprenderlo nelle sue prestazioni da ufficio, o trovare ovunque potesse mettere le mani le tracce delle sue troiette che - senza preoccupazioni -  lasciavano gli indizi del loro passaggio, marchiando con orgoglio i luoghi in cui  c’era stata quell’unione di pochi attimi, schiaffeggiandola vigorosamente e facendole notare con fin troppa insistenza che quella vita - che lei cercava di autoconvincersi fosse perfetta - in realtà non lo era. Guardava suo marito e non riusciva a non provare disgusto, a provare ribrezzo per quel viso fin troppo curato, per la sua espressione sicura, per la sua figura grossa e prepotente. Ogni cosa di lui le ricordava quanto la sua vita non avesse preso le pieghe che lei aveva desiderato, ogni cosa di quell’uomo le ricordava quante occasioni, quante opportuntà e soprattutto quanta felicità le erano scivolate via dalle mani. Savannah aveva perso di vista ciò che realmente lei aveva sempre voluto, accontentandosi di una bella casa, di una bella auto, di un bel guardaroba e di un silenzio che premeva forte e che martellava la sua testa. Gettare altri piatti contro di lui sarebbe stato inutile: quella rabbia non poteva trovare freno nemmeno se avesse provato a rompere ogni angolo di quell’enorme casa, così vuota, così fredda, così inanimata e non vissuta. Si accasciò stancamente sulla poltroncina posta nell’angolo del salone e i lunghi capelli biondi le ricaddero sul viso smorti, privi di lucentezza e di bellezza. Il viso era basso e lo sguardo del tutto rapito dai pensieri. La stanchezza e le pene di un orgoglio ferito erano visibili in lei e su di lei.

“Savannah credimi, non è successo nulla….” Adam si avvicinò con testa bassa e sguardo sofferente. Osò farlo credendo che quella furia si fosse calmata, assopita e sprofondata nel tessuto morbido e pregiato della poltrona. Ma quando i grandi occhi cristallini della moglie si alzarono furiosi su di lui, non potè evitare di indietreggiare di qualche passo e prepararsi a fronteggiare ancora la sua ira.

“NON E' SUCCESSO NULLA UN CORNO!” Savannah lasciò il comfort della poltrona e puntò un dito minaccioso verso di lui, un dito che avrebbe sostituito volentieri con una lama lucente e affilata. Forse evirandolo avrebbe frenato quegli impulsi irrefrenabili ed impossibili da ignorare. Adam indietreggiava ad ogni passo di lei, cautamente e senza fretta; non avrebbe trovato difficoltà nello zittire ogni suo movimento: Savannah era magra, sottile e sotto la sua presa non avrebbe retto molto. Ma non avrebbe mai sfiorato sua moglie, nemmeno in quel momento in cui il suo controllo era del tutto perso. Savannah avanzò ancora, ritrovandosi a pochi centimetri da quel viso che la disgustava, da quell’ odore che le dava la nausea e da quell’essere verso il quale non aveva mai provato nulla, verso il  quale aveva finto ogni cosa, dal più semplice sorriso, fino al più naturale tocco ed alla più intima unione.
 
“Smettila di fare la pazza isterica. Calmati e parliamone” Adam si allungò verso di lei, tentando di stringerla tra le grosse e forti braccia, ingannandola con quella presa che tutto sarebbe passato, fingendo che mai più avrebbe ripetuto un’azione simile e mai più avrebbe donato al suo splendido viso espressioni corrugate e rabbiose. Sapeva anche lui che tutto ciò non sarebbe durato molto, ma in quel momento aveva la necessità di mentirle, di ingannarla e zittire quei piagnistei inutili. Lo conosceva bene: erano ormai da sei anni che entrambi condividevano ogni cosa, erano sei anni che si svegliava accanto a lui accettandone ogni difetto, senza mai farne parola, senza mai cercare di trovare una soluzione. Erano sei anni che condividevano quel luogo nel quale era visibile la finzione sulla quale il loro matrimonio era poggiato. Erano sei anni che fare l’amore era diventato un obbligo e non un piacere. 

“Parlare di cosa? Del fatto che non fai altro da sei anni? Del fatto che tutto questo è PURA FINZIONE?” Savannah scaraventò il tavolino in madre perla - entrato per nefasto caso nella sua traiettoria - sul pavimento, spaccandolo del tutto e rovesciando gli inutili gingilli poggiati su di esso. Adam soffiò stancamente ripensando alla somma spesa per quel capriccio fin troppo costoso. 

“Non è finzione! Ci amiamo e siamo sposati. Ma non puoi biasimarmi se qualche volta io abbia voglia di cambiare! Per noi uomini è diverso… Dovresti capirlo se realmente mi ami”. Adam fece sue le accuse che poco prima aveva negato e rifiutato. Fece sue le colpe della rabbia di Savannah che non riusciva a frenare il tremore delle mani, il fiato corto e l’accelerazione del battito cardiaco. Sentiva ogni tratto di lei bruciare come fuoco, sentiva il bisogno di urlare, ma sapeva che non sarebbe bastato. Era rimasta paralizzata di fronte a quelle parole che suonavano così chiare, suonavano tranquille come se ciò che aveva chiesto fosse contrattabile. Rimase a fissare il buio dei suoi occhi, che un tempo erano stati amati da molte e che lei non era mai stata capace di apprezzare. Guardò quel debole sorriso dipingersi sul suo volto, quel sorriso che alzò gli zigomi scolpiti perfettamente, ma che lei non riusciva a considerare tali. Adam trovava quella situazione divertente e guardava lei come se quel suo modo di vedere le cose fosse anche il suo. Savannah si sistemò al meglio l’elegante vestaglia in seta - coprendo ogni tratto del suo corpo - e sorrise di rimando. 

“Se è ciò che vuoi, allora da domani puoi portare il tuo culo fuori da casa mia.” Pronunciò quelle parole con calma, trattenendo le urla che desideravano saltare fuori e trattenendo i pugni che avrebbero colpito volentieri l’uomo, che ormai non riusciva più a considerare come suo marito. Adam sembrò riacquistare fiducia in sè e tramutò la sua espressione stralunata ed incredula, sostituendola con una più sicura, boriosa ed impertinente. 

“Non credo che ti convenga cacciarmi…” Adam sembrò aver preso in poco tempo le redini della questione ed aveva riassunto lo status di padrone di casa dopo aver pronunciato quelle semplici parole con sicura decisione. 

“Ti ricordo che abbiamo un contratto e cacciarmi di casa rovinerà solo la tua posizione!” Il sorriso di Savannah sparì completamente dal suo volto, lasciando spazio all’inquietudine. Conosceva bene ogni termine di quel contratto firmato senza problemi. Aveva poggiato la sua calligrafia su di esso, aveva dato il suo consenso ed aveva accettato termini impossibili da accettare; termini che gettavano fango su di lei, che le avevano spezzato le ali e cancellato il desiderio di essere felice. Si strinse nella vestaglia ed ingoiò a fatica gli innumerevoli insulti che gli avrebbe riversato contro. Rimase a fissarlo con chiaro disgusto e si scostò quando lui tentò di darle un leggero bacio velenoso, infido e perfido sulla guancia. 

“Mi costringi a trascorrere la notte fuori casa... “ Savannah sentì un groppo alla gola. Il capo divenne pesante e cominciò a dolere e si sentì completamente inutile, priva di quella carica scatenata poco prima. Adam si prendeva beffa di lei ogni attimo, la umiliava, mortificava il suo essere donna, il suo essere moglie e lei non avrebbe potuto fare nulla, oltre ad accettare quelle condizioni. Adam le avrebbe concesso solo delle inutili sfuriate, ma dopo ciò tutto sarebbe ritornato come prima. 
Savannah sentì le sue umide labbra poggiarsi sulla guancia e si arrese a lui. Sentì bruciare a quel tocco e senza controllo le lacrime solcarono il suo viso; bruciavano, facevano male. Si sentiva vuota, completamente priva di ogni cosa; ad occhi bassi percepì i suoi movimenti e solo quando sentì la porta sbattere si catapultò in bagno per scaricare tutta quella rabbia concentrata in lei. Si chiuse la porta alle spalle con un tonfo violento che fece tremare l’enorme specchio posto di fronte a lei. Non aveva il coraggio di guardarsi, di vedere come quel matrimonio l’avesse segnata non solo nell’animo, ma nel corpo, in ogni angolo di lei, su ogni tratto del suo viso. Si avvicinò allo specchio ad occhi bassi ed afferrò una boccetta di profumo che fu scaraventata con forza contro di esso. Savannah sentì il frastuono cristallino e vide il vetro cadere, sparpagliarsi sul pavimento esattamente come la sua vita, finita in frantumi. Non aveva il coraggio di alzare il volto e guardarsi, non aveva il coraggio di vedere come ogni cosa fosse cambiata, di accettare quel cambiamento avvenuto nel tempo, avvenuto improvvisamente e senza preavviso. 
Il capo fu levato piano, con lento dolore e quando incontrò il suo viso distorto - spezzato da tasselli mancanti - rivisse sei anni di una vita andata male, di una vita che aveva preso strade diverse e che aveva realizzato sogni mai poggiati nel cassetto. Gli occhi cristallini - un tempo vivaci e vivi - erano cupi, ricoperti da un velo di tristezza ed infelicità. Il viso era incavato e pallido, il colorito diafano era stato sostituito e rimpiazzato, le labbra piene erano secche, screpolate e non più rosee ed invitanti ed i capelli - la sua lunga chioma aurea - era smorta e trasandata. La sua bellezza - che un tempo l’aveva resa la ragazza più bella ed invidiata del liceo, che un tempo le aveva permesso di posare per le migliori copertine e di sfilare sulle passarelle europee - adesso era divenuta solo un ricordo. Ciò che lo specchio riportava era la figura di una donna consumata, una donna insoddisfatta ed infelice, una donna che ormai aveva perso la sua strada. 
Savannah non riusciva a guardarsi, non riusciva ad accettare quella condizione. Ma l’obbligo era chiaro e forte: lei non avrebbe mai lasciato quel luogo e quell’uomo. Si guardava, si perdeva nel suo stesso sguardo e sentiva nausea; sentiva dolore, il bisogno di scappare, di andare lontano e rinunciare a quella bellezza superflua e inutile. Quello sfarzo, le cene eleganti, gli abiti unici, i gioielli ed i gingilli, erano divenuti inutili ai suoi occhi e non mostravano più la loro lucentezza, la loro bellezza. Non mostravano più quello sfarzo che l’avevano resa succube di loro. Ormai era disintossicata dalla vita lussuosa perché aveva capito - anche se troppo tardi - che tutto ciò sarebbe finito,  tutto ciò sarebbe crollato. Savannah accasciò la testa sul marmo freddo del lavabo e si sciolse in un pianto isterico; piangeva incontrollabilmente, un pianto urlato, che raschiava la gola. La testa sembrava sul punto di voler scoppiare e gli occhi bruciavano, come se quelle lacrime fossero acido. Faceva male tutto ciò, faceva male il prezzo da pagare per quella vita superficialmente perfetta.
Sentì un tocco delicato battere sulla porta e restò in silenzio, temendo che Adam fosse ritornato indietro. Restò a fissare ancora il pavimento lucido, ma quel battito si ripetè ancora e la dolcezza impiegata le fece comprendere che dall’altro capo non c’era l’odiato Adam, ritornato a tormentarla. Si asciugò frettolosamente le guance umide di lacrime e cercò di darsi un aspetto migliore. Stese la vestaglia - che fasciava il suo corpo perfettamente - e mascherandosi ancora andò ad aprire la porta.

“Margareth...” Savannah quasi si stupì di incontrare il volto severo e rugoso della domestica: di solito la sua presenza si limitava a poche ore del giorno. La donna la guardava con aria torva e insoddisfatta, la sua solita aria che ormai Savannah aveva imparato a gestire. Nei primi tempi aveva temuto di esserle antipatica, ma con il passare degli anni aveva compreso che quello sguardo era solo il risultato del duro lavoro che lei svolgeva per dar la possibilità - alle sue due figlie - di studiare in un college che potesse permetterle di trovare futuro in quel mondo privo di speranza. 

“Signora Lewis, c’è qualcuno che la desidera” Margareth le porse il cordless e senza attendere il suo congedo si allontanò, lasciandole l’intimità della parola. La porta fu chiusa nuovamente e Savannah riestò a fissare il telefono per un tempo indeterminato, domandandosi chi fosse quel pomeriggio a reclamarla. Adam era appena uscito, quindi non poteva essere lui, anche perché se fosse stato lui Margareth lo avrebbe annunciato. Sua madre era in viaggio con le amiche e se anche non lo fosse stata una sua telefonata sarebbe stata improbabile. Savannah scavava nella sua mente in cerca di chi ci poteva esserci dall’altro capo del telefono; cercava nella sua mente il nome di qualcuno che avrebbe richiesto la sua voce, il suo aiuto, ma nulla! Il buio e l’incertezza totale. Avvicinò il telefono all’orecchio e schiarendosi la voce assunse la solita tonalità sicura e presuntuosa. 

“Pronto?” Il dolore e il pianto erano stati del tutto cancellati e la sua voce era forte e decisa. La debolezza le era scivolata via, l’aveva abbandonata completamente.

“Savannah…. sono Faye...” Quella voce, quel nome. Mille ricordi si radicarono nella sua mente, si accalcarono velocemente e si susseguirono dolorosamente. Quella voce non era cambiata: bassa, dolce, morbida e calda. Quella voce che suonava come un benvenuto, quella voce che le regalò un leggero sorriso. Gli occhi istintivamente si abbassarono verso il polso sinistro ed il piccolo cuore - disegnato con semplicità - riassunse il suo vero significato.
 
“Faye…” Pronunciare quel nome, parlare semplicemente con lei richiese uno sforzo enorme. La voce divenne un fischio sottile ed incerto e Savannah dovette accomodarsi sul bordo della vasca, perché le gambe avrebbero ceduto di lì a poco. 

“E' un pò che non ci si sente" Rispose la sua interlocutrice con lo stesso tono sottile ed incerto. Era trascorso troppo tempo da quando le due avevano ascoltato la loro voce.

"Già... da quando..." Le parole le morirono sulle labbra; entrambe sapevano benissimo a cosa si riferisse Savannah ed entrambe lasciarono che il silenzio si contrapponesse tra le loro parole. Poi Faye prese coraggio e fece risentire la sua presenza.

"E' proprio di questo di cui voglio parlarti. E' successa una cosa, ma non è il caso di parlarne al telefono; vediamoci tra un ora nel bosco, ci saranno anche le altre!" Pronunciò quelle parole tutto d’un fiato, non lasciando spazio ai ricordi, non dando la possibilità di raccontarsi, di rivelare cosa fosse accaduto in quel periodo che non le aveva viste protagoniste. Parlò frettolosamente e senza aggiungere altro Faye riagganciò, lasciando Savannah in un turbine di pensieri e domande. Cosa poteva essere successo? Senza perdere altro tempo corse a prepararsi per quell’appuntamento con il passato.

Si catapultò fuori l’abitazione pochi attimi dopo; aveva indossato abiti semplici, lasciando il viso privo di trucco. Non era da lei uscire in quello stato, ma la questione era importante ed il tempo era divenuto prezioso. Ordinò a Margareth di non farne parola con Adam e di inventare una qualsiasi scusa che potesse tenerlo lontano dalla sua stanza. Montò sull’enorme Tuareg grigio metallizzato, girò la chiave nel quadro e diede vita al motore che ruggì violentemente. Dette peso all’acceleratore e con forza sterzò verso l’uscita, abbandonando la sua proprietà e digendosi con il cuore che batteva freneticamente verso la strada del bosco. Quella strada percorsa tante volte, familiare, comune. Quella strada che non aveva visto più la sua presenza dopo quella notte che aveva cambiato la sua vita...





I loro occhi erano fermi sul corpo rigido e privo di vita. I capelli - come il viso - affondavano nella melma e gli abiti erano stati maltrattati con rudezza. Non c’era traccia del colpevole di quello scempio e le quattro ragazze erano incerte sul da farsi. 

“Cosa facciamo?” Una di loro ruppe il silenzio, stracciando con violenza quell’aria di suspance creatasi involontariamente. Savannah Clark fissava inorridita la sagoma, riconoscendone l’identità. 
Volse lo sguardo cristallino verso le tre amiche, che come lei fissavano il corpo tremando di paura e mimando espressioni di terrore e sgomento. Paralizzate nel corpo - che non accingeva a muoversi - e nella mente che non riusciva a formulare soluzioni. Lei avrebbe dovuto agire, avrebbe dovuto interrompere quell’immobilità e risolvere quel problema irrisolvibile. Si accasciò verso il cadavere rigirandolo e mostrando il volto pallido e sporco. 

“Savannah non puoi toccarla! Contaminerai le prove!” Una delle tre ragazze fece qualche passo avanti, rimproverando l’amica che ignorò del tutto le sue parole. Le scostò i lunghi capelli biondi incollati al viso e sistemò al meglio la T-shirt sottile e del tutto infangata. Sentiva la nausea salire, ma non poteva lasciare lì quel corpo. 

“Dobbiamo sotterrarlo….” Pronunciò i suoi pensieri senza guardare le tre amiche che a quella confessione strabuzzarono gli occhi, incredule per ciò che aveva appena pronunciato.

“Dobbiamo denunciarlo alla polizia!” Nuovamente Savannah ignorò la proposta più ovvia, cancellandola del tutto dalla sua testa e anche dalla testa delle tre.

“Non possiamo rischiare! Troveranno le nostre tracce ed accuseranno sicuramente noi!” Aveva distaccato un momento la sua attenzione dal cadavere, minacciando con tono alterato e rabbioso le tre ragazze, che non riuscivano a non guardarla con sguardo confuso ed impaurito. Savannah sembrava completamente mutata: aveva assunto un’espressione di terrore e di colpevolezza e guardava quel corpo come se lei fosse stata l’artefice di quel gesto. Le tre si guardarono all’unisono, non sapendo cosa fare: se eseguire gli ordini oppure ribellarsi. Savannah le chiamò con un lento movimento di mano, invitandole ad avvicinarsi.

“Carichiamola sulla macchina” L’ordine fu pronunciato con prepotenza e nonostante il numero dei favorevoli fosse minore fu eseguito senza ribattere. Tutte e quattro presero quel corpo: Savannah la prese per un braccio e le altre tre si sistemarono alle estremità. Proseguirono in quel modo per tutto il bosco, rischiando di inciampare, di cadere e perdere il cadavere. Avanzarono sempre più verso l’uscita di quel luogo tetro, divenuto la scena di un omicidio privo di un assassino da condannare. Avanzavano silenziosamente, non sapendo cosa dire, non avendo alcun argomento che potesse spiegare o sdramatizzare la situazione. Stavano trasportando un corpo con l’intenzione di nasconderlo, come se fossero loro responsabili di quel reato. Avanzavano e la musica era sempre più viva, chiaro segno che erano quasi alla fine del percorso. Giunsero in strada e frettolosamente caricarono il corpo nel portabagagli. Savannah montò sull’auto seguita dalle tre amiche, che silenziosamente si accomodarono e lasciarono che partisse. Quello fu il viaggio più lungo che le quattro avrebbero ricordato; proseguivano per la città del tutto deserta. Era una notte calda e afosa e l’intera cittadina era stata rapita dal concerto indetto dal liceo. Nessuno poteva frenare la loro affannosa corsa verso un luogo che potesse occultare bene quel corpo. Savannah sterzò bruscamente ed entrò con prepotenza in un’enorme cantiere lasciato incautamente incustodito. Sentirono il terreno scricchiolare sotto le enormi ruote ed una volta giunte nelle profondità di quel luogo - dove nessuno avrebbe potuto vederle - si affrettarono a scendere e scaricare il corpo lì.

“Qualcuno prenda una pala” Savannah era decisa a nascondere quel corpo, a nascondere quell’omicidio e non tentare di chiedere aiuto a chi di dovere avrebbe eseguito il proprio compito. Iniziarono a scavare con forza, insieme. Scavarono ancora e ancora senza fermarsi, con il terrore di essere sorprese, con la paura di sbagliare nel fare ciò che stavano facendo. Scavarono ancora con il sudore che impregnava le loro fronti, i loro visi; con le braccia che dolevano e con la colpevolezza di tutto ciò. Presero il corpo e lo gettarono all’interno della profonda buca scavata frettolosamente; ritornarono al duro lavoro, sotterrando quel corpo, ricoprendolo di sabbia e terreno; nascondendo il suo volto, il suo corpo e la sua identità. Quando tutto ritornò apparentemente come prima, le quattro ragazze rimasero a fissarsi in silenzio; protettrici di quel luogo, artefici del reato di non aver dato giustizia a quell’assassinio avvenuto per cause sconosciute. Si guardarono a lungo, in silenzio, con la gola secca e povera di parole. 

“Giuriamo di non farne parola con nessuno!” Fu nuovamente Savannah a rompere il silenzio. Le tre la guardavano, contrariate per quel gesto e per la prima volta Savannha non vedeva quella complicità che le aveva rese uniche, quella complicità che le aveva rese unite per tutti quegli anni. 

“Ragazze non facciamo le stupide! Se avessero trovato il corpo nel bosco avrebbero accusato noi! Non potevamo rischiare! “ Quelle parole ripetute ancora non ebbero l’effetto desiderato. I loro sguardi erano duri e accusatori e Savannah stava facendo i conti con le sue migliori amiche. Il loro giudizio era fondamentale e perdere la loro stima, la loro complicità, sarebbe stato come vedersi crollare il mondo addosso. Come perdere tutto ciò che aveva di più caro.

“Ragazze l’ho fatto per voi..” Mugolò con le lacrime agli occhi , sperando di essere compresa realmente, di non veder voltare quelle tre figure e restare completamente sola con quel peso che avrebbe gravato sulle sue spalle. Ci fu un altro scambio di sguardi e senza il bisogno di parlare, di comunicare cosa farneticassero le loro menti, le tre le si avvicinarono unendo le loro mani  e pronunciando quel giuramente. Sotto il manto stellato di quella notte, quattro ragazze diedero alla loro amicizia un motivo in più per rendersi immortale. Quello stesso motivo che l’avrebbe sgretolata pian piano…





Savannah giunse dove tutto era iniziato, dove una volta uscite da quel luogo, la loro amicizia aveva preso pieghe diverse. Si fermò all’estremità degli alberi, dove il loro intreccio impediva il passaggio alle auto; non aveva varcato più quel luogo da allora, ma ricordava perfettamente il percorso. Si incamminò con naturalezza negli arbusti, scavalcando le grosse radici che cercavano spazio al di fuori del terreno e proseguì ancora, puntando verso l’oscurità del bosco. Nonostante fosse pieno pomeriggio, le folte chiome impedivano al sole di poggiarsi su di esso e donargli luce; era oscuro e lugubre, eppure Savannah si sentiva a suo agio: sentiva aria di casa, di familiarità in quel luogo. Scavalcò la pietra, quel simbolo che annunciava di essere giunta a destinazione e quando prese posto in quella piccola cerchia sembrò che il tempo non fosse mai trascorso. Le sembrò che ogni cosa fosse esattamente come era stata lasciata otto anni prima. Anche loro non erano mutate affatto: forse nello sguardo c’era una luce diversa, ma erano le sue amiche quelle che la guardavano. Lo sguardo di Faye era rimasto quello di sempre: dolce, amorevole e bonario. I lunghi capelli scarlatti non erano stati tagliati, e le sfioravano i fianchi come allora. 
I bellissimi occhi di Isabel non avevano perso la grinta e la passione adolescenziale e la sua tenuta comunicava che la passione per gli sport non si era affievolita con gli anni, ma era rimasta forte e duratura. Quella passione che nemmeno il tempo le avrebbe sottratto.
La presenza di Rosemary stupì maggiormente Savannah: aveva abbandonato Dimwoods poco dopo il diploma, lasciando la sua vita in quella cittadina, lasciando la sua felicità in quel luogo. Rivederla lì, rivedere i suo occhi nocciola così familiari, così profondi, le trasmise una spaventosa speranza: forse nulla era andato perduto, forse quella loro amicizia non si era del tutto sgretolata. Forse loro avevano ancora una speranza di ritornare e rivivere nuovamente quegli anni spensierati, anni in cui la sua era stata una reale felicità. Si fissarono ancora, si scrutavano, si esaminavano, come se non potessero credere a quella realtà. Restarono così a lungo, non accorgendosi del tempo che scorreva su di loro. 


 
Salve a tutti... ecco il primo capitolo che introduce una delle quattro protagoniste della storia e ci dice qualcosa in più sulla trama. Man mano che i capitoli saranno postati conoscerete le altre protagoniste e spezzoni di storia attuale e passata. 
Che dire, io e la mia co-autrice speriamo di aver suscitato in voi curiosità e ci auguriamo che chi ha letto fino ad ora continui a seguirci.
Un bacio Whitesnow&Medy 


 
 
  
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