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Autore: m a y h e m    07/01/2014    3 recensioni
→ Micheal Shuman x OC
Dal testo:
“Michael Shuman mi stava fissando, uno sguardo stupito ma per nulla divertito dalla situazione, chiedendomi conferma della mia identità. I miei occhi erano spalancati, e non accennavo a sbattere le palpebre; una parte di me voleva credere che fosse uno scherzo del mio cervello, ma il ricordo dello sguardo di Angie mi fece presto ricredere: Michael era reale, ed era proprio davanti a me.”
Michael Shuman e Karlie si rivedono dopo cinque anni di più totale silenzio, da quando lei ha lasciato la stanza di lui dopo l'evento che le ha sconvolto ogni equilibrio. Le parole non dette sono tante, i silenzi carichi di significati. E il tempo trascorso tanto, forse troppo per ricucire le ferite che a vicenda si sono inferti.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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base

Dedico questa storia a MadAka, la mia sostenitrice più accanita quando si tratta di fangirling sui Queens of the Stone Age, la mia mentore e lettrice in anteprima, perché se non ci fosse stata lei, qui non ci sarebbe nessuna storia. Grazie ♥

 

Crawling back to you

Los Angeles, dicembre 2013
«Siamo i Blunderbuss*, e vi lasciamo con quest’ultima cover cantata dalla nostra chitarra, la nostra Karlie: ancora grazie, e buon proseguimento di serata!» urlò Nick nel microfono, così mi avvicinai a mia volta al mio.
          Senza introduzioni attaccai l’intro di Do I wanna know? degli Arctic Monkeys, balbettando le prime strofe nel microfono e acquistando sempre più sicurezza mentre la canzone procedeva ed entrava nel vivo; Nick, Simon e Scott stavano facendo da backing vocals a quella che era la mia lagna. Il cantante del nostro gruppo, Nick, aveva insistito così tanto che mi ero vista costretta a eseguire a ogni costo quella cover dei Monkeys: la mia voce non somigliava per nulla a quella di Turner, né aveva il suo accento inglese, ma Nick mi aveva detto che nella mia voce, quando la cantavo, c’era qualcosa di particolare, una nota di sofferenza che la rendeva struggente alle orecchie di chi l’udiva.
          «Do you want me crawling back you?» domandai alla fine della canzone nel microfono, imponendomi di evitare tutti i pensieri che quella canzone m’ispirava.
          Dal pubblico partì uno scroscio di applausi e fischi ed io sorrisi istintivamente, voltandomi verso i ragazzi: avevamo sudato per tanto tempo prima di arrivare a poterci esibire al Number One, uno dei locali più in vista per le band emergenti di Los Angeles. Sui loro volti erano stampati dei sorrisi elettrizzati tanto quanto con ogni probabilità lo era il mio; Nick ringraziò ancora una volta il pubblico del locale e noi portammo i nostri strumenti – tranne Tim che per ovvi motivi non poteva trascinarsi la batteria nel retro – con noi, nell’abbozzo di backstage che aveva il locale. Ero certa che, esattamente come me, anche i ragazzi non potessero credere a quello che era appena successo: avevamo suonato davanti a un pubblico fantastico, numeroso e che, prima di tutto, aveva apprezzato i nostri pezzi, e non solo le cover che proponevamo per far trovare agli ascoltatori qualcosa di familiare.
          «Siete stati grandi!» un turbine biondo volò verso di noi – più precisamente verso di me, sommergendomi e stringendomi così forte che mi sentii quasi mancare il respiro. Fui costretta a reggere la chitarra con una sola mano, il braccio disteso parallelamente al pavimento, così che evitassimo di farci del male.
          «Angelina, mi soffochi così!» cercai di ribellarmi dalla presa della mia migliore amica, nota stritolatrice in campo di affetti. Lei si separò a malincuore da me, ed io ripresi lentamente a respirare; sulle labbra della mia amica era dipinto un sorriso a dir poco contagioso, così nonostante l’affanno dello stritolamento mi ritrovai a mia volta a sorridere come un’ebete.
          «No, davvero, siete migliorati troppo dall’ultima volta che sono venuta alle vostre prove!» proseguì lei, come se non avesse mai rischiato di uccidermi.
Nick intervenne, cercando di sedare un po’ il suo entusiasmo e, probabilmente, di non far montare troppo il resto del gruppo. «Figurati, Angie, sarà stata l’acustica diversa…» disse, stringendosi nelle spalle.
          Angie scosse la testa con più foga di quanta ne avrebbe messa in altre situazioni. «No, dico sul serio, siete stati praticamente perfetti. La tua voce era bellissima, stasera» commentò poi, arrossendo dalla radice dei capelli fino alla punta del mento fine, riferita in particolar modo proprio al nostro cantante. Nick sorrise, imbarazzato dal complimento, ed io ghignai sotto i baffi: quei due si piacevano da una vita, e nessuno dei due si era ancora deciso a fare un passo verso l’altro, nonostante – un po’ tradendo la mia amicizia con Nick – avessi confermato più volte ad Angie che il ragazzo fosse interessato a lei.
          Mi avvicinai alla custodia della mia chitarra, lasciata in una specie di stanzino del backstage, e riposi lo strumento. Simon mi seguì, posando il suo basso e facendomi un sorriso. «Tranquilla, mettiamo tutto noi sul furgone. Vai a riposarti un attimo» mi disse, lasciandomi una carezza leggera sull’avambraccio fin troppo scoperto per le temperature di dicembre.
          L’inverno di Los Angeles non era il classico inverno con cappotti, neve e mani ghiacciate, ma di certe le temperature scendevano al di sotto della media delle altre stagioni; per quel motivo, mentre Angie era impegnata a parlare con Nick, Tim e Scott, indossai la mia felpa preferita, quella che usavo come portafortuna, prima di uscire dalla porta sul retro per fumarmi una sigaretta. Litigai per qualche istante con l’accendino, trattenendo una parolaccia quando vidi che non ne voleva sapere di accendersi e sospirando quando finalmente la scintilla fece scaturire una debole ma sufficiente fiamma da esso; inspirai forte, rilasciando una nube di fumo bianco dalle labbra, e mi godetti per quei cinque minuti la sensazione della nicotina che entrava in circolo nel mio corpo, facendomi rilassare e scrollandomi via di dosso la tensione per il live.
          Quando rientrai, i ragazzi avevano già caricato tutti gli strumenti sul furgone – tranne la batteria, che sarebbe stata caricata per ultima e più avanti durante la serata, con molta calma – e si erano appostati accanto al bancone, le birre in mano e dei sorrisi soddisfatti sui volti stanchi ma felici.
          «Che si dice?» domandai sorridente, e chiedendo alla barista una Guinness piccola. La birra arrivò velocemente, offerta dal locale per ringraziarci dell’esibizione, e ne bevvi subito un generoso sorso.
          «Stavamo parlando della tua cover dei Monkeys, sei stata strepitosa stasera» mi aggiornò Scott, la seconda chitarra del gruppo. Arrossi istintivamente, balbettando un ringraziamento a mezza voce e spostandomi da davanti gli occhi i capelli lunghi, voltandomi poi verso Angelina, intenta a parlare animatamente con Nick dello stesso argomento.
          «Anche voi sparlate della mia cover?» chiesi, facendo una linguaccia e bevendomi un alto sorso di birra. Angie annuì, seguita dal cantante.
          «Certo che sì», confermò, «come potremmo non farlo? Da dove prendi l’ispirazione per cantarla?»
          Abbassai lo sguardo sulla mia birra, mordendomi convulsamente il labbro inferiore; Angie era a conoscenza della storia a cui m’ispiravo per imprimere sentimento in quella canzone, ma erano situazioni che non volevo assolutamente rivangare – soprattutto non in una serata come quella, dove non avrei dovuto fare altro che divertirmi e godermi l’emozione di aver suonato per tutte quelle persone.
          «Purtroppo lo sai bene» risposi, alzando lo sguardo su di lei e bevendo di nuovo dal piccolo bicchiere. Lo sguardo di Angelina si riempì di consapevolezza, al ricordo di ciò che solamente una volta avevo avuto il coraggio di raccontarle, per poi riempirsi di orrore.
          «Che c’è?» le domandai, improvvisamente preoccupata dalla sua espressione. Seguii la linea dei suoi occhi e mi voltai, per scoprire cosa lei stesse fissando alle mie spalle.
          «Karlie?»
          Michael Shuman mi stava fissando, uno sguardo stupito ma per nulla divertito dalla situazione, chiedendomi conferma della mia identità. I miei occhi erano spalancati, e non accennavo a sbattere le palpebre; una parte di me voleva credere che fosse uno scherzo del mio cervello, ma il ricordo dello sguardo di Angie mi fece presto ricredere: Michael era reale, ed era proprio davanti a me. Con mano tremante mi costrinsi a voltarmi appena e posare il fondo della mia Guinness sul bancone; la mia amica mi lanciò un’occhiata significativa, mentre Nick ci fissava, sconcertato.
          «È… Mikey Shoes dei Queens of the Stone Age?» domandò conferma, e Angie annuì accennando un movimento del capo.
          «E conosce Karlie?» la mia amica annuì di nuovo, mentre io restavo immobile a fissare Michael, incapace di fare qualsiasi cosa. La magra consolazione era che lui, d’altro canto, pareva trovarsi nella mia stessa situazione.
          «E…»
          «E ora taci, Nick. Anzi, leviamoci proprio di qua.»
          In quel momento mi riscossi e mi voltai verso di loro, scuotendo la testa con lentezza esasperante. Ero ancora intorpidita da ciò che mi stava accadendo e che, con ogni probabilità, mi avrebbe del tutto rovinato la serata.
          «No, ragazzi, state qua. Io vado fuori a prendere una boccata d’aria» li rassicurai.
          Avevo ancora indosso la felpa e accesso al backstage del locale, così lanciai un’occhiata a Michael domandandogli con lo sguardo di seguirmi. Mi feci strada tra la folla che ancora animava il Number One, sperando che nessuno lo riconoscesse, e proseguii verso il backstage e successivamente uscii dalla stessa porta di servizio secondaria che avevo utilizzato poco prima. La lasciai aperta, e la figura di Michael sbucò da essa. Io, nel frattempo, avevo già – con fatica e relativi improperi per colpa dell’accendino – acceso un’altra sigaretta, presa dal nervosismo che la sua presenza mi recava. Espirai una nube di fumo appoggiandomi con le spalle al muro e socchiudendo gli occhi, come a scacciare quell’ingombrante problema che Michael rappresentava per me.
          «Non scapperai questa volta, vero?»
          Una risata amara sfuggì dalle mie labbra, mentre sbuffavo dell’altro fumo e aprivo gli occhi, guardandolo fisso nei suoi. In fondo, constatai tra me e me, non era cambiato più di tanto: al di là del taglio di capelli, non del tutto diverso ma che comunque gli donava molto più di quello che usava portare, era rimasto lo stesso vecchio Michael Shuman. Gli occhi intensi, la voce profonda, le labbra carnose… solamente il volto si era scolpito un po’ di più, rendendo i suoi lineamenti molto più da adulto, da uomo. Per il resto, era sempre Michael Shuman. Quello che, una volta, era stato il mio Mikey.
          Scossi lentamente il capo. «No, questa volta non scapperò, lo prometto» lo rassicurai, un sorriso amaro dipinto sulle labbra.
          Michael sorrise a sua volta, ma senza la vena sarcastica che aveva impregnato la mia bocca mentre mi costringevo a distenderla.
          «Sono passati cinque anni, ne hai fatta di strada da allora. Che fai ora, a parte suonare la chitarra in una band di tutti ragazzi?» mi chiese, lasciando intravedere curiosità e malizia nelle sue parole. Rimasi con la schiena aderente al muro, continuando a fumare la mia sigaretta.
          «Lavoro in un supermercato, non ho trovato di meglio dopo che il Clarice ha chiuso» risposi, alzando le spalle, riferendomi all’impiego da cameriera che avevo quando ancora ci frequentavamo. «Suono nel gruppo, lavoro al market… ah, e ora vivo da sola. Bella roba doversi stirare tutto» abbozzai un sorriso divertito, nonostante la tensione nell’aria fosse palpabile.
          «Vivi da sola, addirittura. Non ti pare di essere cresciuta un po’ troppo?»
          Diedi una risata, resa leggermente roca dal fumo e dal nodo che sentivo stringermi la gola, come a volermi soffocare lentamente. Aspirai un’ultima volta dalla sigaretta, gettandola poi in terra e schiacciandola con la punta del mio anfibio.
          «Non troppo», ammisi infine, alzando lo sguardo dalla cicca e puntandolo di nuovo nei suoi occhi. «E probabilmente non finirò mai», aggiunsi con una smorfia.
          Lui rise, apparentemente divertito dal mio sarcasmo pungente e dall’autoironia che avevo sempre avuto. «Credo che quello valga un po’ per tutti», si premurò di rassicurarmi, e sorrisi a mia volta.
          «E tu? I Queens, il progetto Mini Mansions**…» commentai osservandolo, dandomi poi della stupida e mordendomi appena la lingua per aver parlato un po’ troppo.
          Ammettere che conoscevo i Mini Mansions era stato come dirgli: “Hey, sai che in questi anni ti ho seguito su ogni mezzo di comunicazione immaginabile, anche se non sopportavo il tuo ricordo?”, ed era proprio l’ultima cosa che avrei voluto fargli capire… ma avevo già parlato, e purtroppo non fu possibile ritrattare.
          Michael, tuttavia, sorrise solamente a quel mio commento, limitandosi ad annuire. «Già» disse quindi, limitandosi a quel monosillabo. Santo Michael Shuman da Los Angeles, che non si approfitta mai dei poveri idioti come me. «E tu i Monkeys?» domandò, saltando a piè pari le mie menzioni.
          «Sì, ultimamente li ascolto davvero un sacco, la collaborazione di Josh con Turner mi ha incuriosita e mi sono decisa ad ascoltarli» gli rivelai con un mezzo sorriso.
          Quella di certo non era una confessione in grande stile come quella di poco prima: dopotutto avevo sempre ascoltato il gruppo di Homme, da prima che lui ne diventasse il bassista, e non aveva senso fare mistero che avessi continuato a seguirli – certo Michael era stato un incentivo a farlo – anche quando il mio migliore amico ne era diventato un membro.
          «Già, Josh ha avuto una grande influenza su Alex… e Alex su Josh. È stato uno scambio equo, diciamo» mi spiegò, serio com’era sempre quando si toccava l’argomento musica.
          Sorrisi e rabbrividii appena, sentendo il freddo pungente di quella sera oltrepassare il tessuto leggero della mia felpa. Michael mi osservò e azzardò una richiesta.
          «Che ne dici se… andassimo in un posto più tranquillo? Abbiamo altro di cui parlare.»
          Come potevo non concordare, dopo il modo in cui ci eravamo lasciati? Avevamo un buco di cinque anni da riempire, ed ero più che certa di dovergli molte spiegazioni.
          «Andiamo a casa mia.»

*

Los Angeles, marzo 2008
Sdraiati sul letto a una piazza e mezza di Mikey, reduce dall’ingaggio con i Queens of the Stone Age e un tour pazzesco – che era in pausa per sole due settimane e che avrebbe poi ripreso con i suoi ritmi frenetici –, il mio migliore amico ed io stavamo guardando uno dei tanti video live che i fan dei Queens avevano caricato su YouTube.
          «Mikey, ma che cazzo di capelli avevi? E le occhiaie, e gli occhi! Cazzo, eri strafatto, vero?» domandai, ridendo appena. Michael, accanto a me, scoppiò a ridere.
          «Sì», ammise senza accennare a smettere di ridere. «Josh mi ha offerto uno spinello prima di salire sul palco, ed era forse il secondo che mi facevo in tutta la mia vita… ma non ho potuto dirgli di no, e quello è stato il risultato!» esclamò, continuando a ridere.
          «Idiota» commentai, ridendo a mia volta. Il video terminò ed io, restando come lui sotto le coperte, mi voltai verso di lui, seria.
           «Mikey… ora sei famoso» mormorai appena, abbassando lo sguardo sulle sue labbra. Non ero mai stata brava nei discorsi troppo seri o sentimentali e questi mi avevano sempre imbarazzata, anche se conoscevo Michael da più di dieci anni; per quel motivo mi sentivo frenata, impacciata, un po’ sciocca. «Non ti dimenticherai di quell’idiota della tua migliore amica, vero? Per me sarai sempre Mikey Shoes lo scemo, e non solo Micheal Shuman dei Queens…»
          Mikey scosse la testa, sorridendo appena. «E tu per me sarai sempre Karlie la pazza… la mia Karlie» sussurrò, guardandomi negli occhi con un’intensità che non avevo mai notato nel suo sguardo.
          Accadde in un istante: il suo volto si avvicinò rapidamente al mio, troppo rapidamente perché potessi fermarlo, e le sue labbra carnose si posarono sulle mie in un bacio delicato, per nulla insistente. Era successo in fretta, eppure mi ritrovai inspiegabilmente a ricambiarlo, sorpresa, mentre si approfondiva sempre di più; mi avvinghiai a lui, facendo aderire il mio petto al suo, mentre le sue mani cominciavano a percorrere insistenti il mio corpo. Nel petto avevo una crescente sensazione di conflittuale angoscia, come se il mio cuore mi stesse avvertendo che la mia reazione era giusta ma il mio cervello mi avvisasse di come tutto quello fosse sbagliato.
          Mentre le nostre lingue s’intrecciavano furiosamente, la sua mano destra scese lungo il mio corpo, andando velocemente oltre il bordo dei miei jeans, slacciandone il bottone e facendone scendere la zip. Trattenni il respiro, fremendo tra le sue braccia e cercando un appiglio nelle sue labbra, sentendo le sue dita fredde percorrere con lentezza il bordo del mio intimo e poi sollevarlo velocemente, prendendo a sfiorare il monte di Venere quasi fosse stata una reliquia. Le nostre bocche non minacciarono di separarsi nemmeno quando un ansito sfuggì dalla mia, nell’unica esternazione della sorpresa che la sua invasione mi aveva provocato. Mi aggrappai istintivamente alle sue spalle mentre cercavo una posizione più confortevole; incapace di trattenermi ma cercando tuttavia di contenermi esalai un lieve gemito, nel momento in cui le uniche cose che riuscivo a percepire erano il piacere crescente e le dita di Mikey su di me, dentro di me. Le sue labbra continuarono a lambire dolcemente le mie e la mano proseguì la sua dolce tortura, il pollice a sfregare con insistenza il mio piacere e indice e medio – credevo fossero quelle le dita piacevolmente impegnate, ma la mia mente era così annebbiata da non riuscire a carpire alcun dettaglio – si facevano strada tra le pieghe della mia intimità; il suo unico scopo pareva essere il mio piacere, e non si fermò finché l’apice non mi colse sulla sua mano, facendomi trattenere il respiro e stringere convulsamente la sua felpa.
          Rilassai i muscoli, respirando lentamente per regolare il battito cardiaco. La mano di Mikey aveva abbandonato il rifugio trovato poco prima, era risalita sfiorandomi appena e stava disegnando dei cerchi immaginari sulla pelle del mio addome, sotto la felpa leggera che indossavo. Tenni gli occhi chiusi per qualche istante, fino a quando la mia mente non realizzò quello che era accaduto: ero appena venuta sulla mano del mio migliore amico. Il mio migliore amico, il mio Mikey, mi aveva appena…
          Mi alzai di scatto dal letto, sgusciando fuori dalle coperte come se fossero state un letto di lava incandescente. Lo guardai esterrefatta e allucinata, gli occhi fuori dalle orbite e la bile che minacciava di risalire l’esofago e riversarsi sul copriletto. Mi allacciai con movimenti febbrili i jeans, infilando velocemente le scarpe.
          «Che diavolo stai facendo?» domandò Mikey, lo sguardo stupito e… ferito? Cristo…
          «Devo andarmene» mormorai, raccogliendo la borsetta e uscendo dalla stanza, scendendo rapidamente le scale. Michael fu subito alle mie spalle, ma incapace di raggiungermi o di fermarmi.
          «No, Karlie, io… parliamone, per Dio, siamo adulti…» parve implorarmi, ma tutto ciò che fui capace di fare fu aprire la porta e lasciarmi alle spalle il suo sguardo ferito e i suoi occhi in lacrime.

          Nelle settimane successive, quelle in cui il tour ancora era in pausa, il mio telefonino fu tempestato da chiamate e sms da parte di quello che, una volta, ero solita considerare il mio migliore amico; non riuscii ad affrontare lui e i suoi sentimenti – perché a quel punto era palese che provasse qualcosa per me – nemmeno una volta, forse perché non avevo voglia di affrontare ciò che io avevo provato in quei momenti della sua stanza… o semplicemente non ero pronta a farlo.
          Mi rifugiai in un motel in città, pagando quelle notti con i risparmi che avevo racimolato in quegli anni e spegnendo il telefonino. Le uniche chiamate che mi concedevo erano quelle ad Angelina, che mi teneva su di morale e cercava di evitare l’argomento spinoso. Furono giorni totalmente apatici, nonostante la mia mente non potesse fare a meno di tornare ai momenti passati con Mikey e non facesse altro che domandarsi come fossimo arrivati a quel punto. Passai le giornate tra la scadente tv via cavo e la radio che passava musica commerciale ad ogni ora, chiamando mia madre e rassicurandola che “sì, la mia vacanza a Palm Springs fila liscia come l’olio, Angie ed io ci stiamo divertendo un sacco”.
          Mikey ripartì per il tour poco più di una settimana dopo, senza che ci salutassimo né chiarissimo l’accaduto. Già sapevo che me ne sarei pentita, ma non avevo ancora il coraggio di affrontare lui e, soprattutto, me stessa, perciò abbassai il capo e ignorai il mio cuore scalpitante, inghiottendo lacrime amare e ripetendomi che era stata la decisione giusta per noi.

*

«Che fai, te ne vai già?» domandò Scott, un po’ deluso che i festeggiamenti della band al completo venissero interrotti così bruscamente. Annuii, Mikey stranamente silenzioso alle mie spalle.
          «Sì, Michael ed io non ci vediamo da qualche tempo… dobbiamo recuperare gli anni persi» spiegai un con un mezzo sorriso. Angelina mi guardò per un lungo istante, per nulla convinta dalla mia spiegazione, ma una mia occhiata le bastò per convincersi di ciò che stavo dicendo.
          «E quindi neanche stasera festeggiamo con un’orgia?» il tono di Tim era quasi deluso, ma nonostante ciò non potei fare a meno di ridere – per la sua battuta, per la situazione irreale e che mi faceva rasentare l’isterismo, per Mikey alle mie spalle che non accennava a parlare e che in pochi minuti sarebbe stato nel mio appartamento.
          «Al di là del fatto che sarebbe una gang bang», risposi puntigliosa come al mio solito, con un sorriso divertito e malizioso al tempo stesso, «sì, dobbiamo proprio rimandare.»
          Salutai tutti elargendo baci e abbracci, e dopo poco fui fuori dal Number One con Michael. Alzai gli occhi su di lui, che si trovava al mio fianco, sempre innaturalmente silenzioso.
          «La mia macchina è di là. Mi segui?» annuì appena alle mie parole, e ognuno andò verso la propria auto.
          Salii, prendendo un respiro profondo e guardando il mio riflesso nello specchietto retrovisore: venticinque anni e lo sguardo allucinato di chi pareva aver appena visto un fantasma – e, per certi versi, Mikey lo era davvero: era il fantasma di un passato che avevo cercato di seppellire, di dimenticare, di eliminare con tutta me stessa dalla mia vita, senza ovviamente ottenere alcun risultato. Risistemai lo specchio e avviai il motore, prestando più attenzione del solito alla mia guida: non volevo avere la vita di qualcuno sulla coscienza per la distrazione e la preoccupazione che la presenza di Michael suscitava in me.
          Arrivata davanti a casa parcheggiai accanto al marciapiede, due fari dietro di me che si spensero non appena aprii lo sportello; scesi dall’auto e la chiusi con più foga del necessario, il tonfo sordo seguito da quello simile della portiera di Mikey che sbatteva. Lo guardai un istante venire verso di me e proseguii verso l’appartamento, che fortunatamente era al pian terreno: non avrei retto un silenzioso e imbarazzante viaggio in ascensore con lui.
          Non appena entrammo, lui senza emettere un fiato si guardò intorno con sguardo curioso; lo notai lanciare sguardi interessati prima di togliermi gli anfibi e lasciarli nel piccolo sgabuzzino che avevo ricavato dall’enorme cucina, proprio accanto all’ingresso. Mi diressi quindi in cucina, scalza, e cominciai ad armeggiare con un pentolino.
          «Vuoi qualcosa? Ho dell’acqua, della birra, una Coca Diet… io mi faccio u-»
          «Un thè», m’interruppe lui con un sorriso, raggiungendomi in cucina. «Te lo facevi sempre, quando eri nervosa.»
          Feci una smorfia, mettendo l’acqua sul fornello e cominciando a trafficare con tazze, filtri, zucchero e limone. «Ne vuoi che tu?»
          Mi voltai e lo vidi scuotere la testa. «Non sono io quello del thè» mi sorrise di nuovo. Io scrollai le spalle, e attendemmo in silenzio che l’acqua fosse calda per la bevanda. Non appena cominciò a bollire la versai nella tazza, dove già avevo messo filtro, zucchero e succo di limone, lasciai che l’acqua si scurisse prendendo il sapore delle foglie nel filtro e poi lo gettai. Feci cenno a Michael di seguirmi in salotto, dove ci accomodammo sul divano a due posti, davanti a cui si trovava un tavolino basso, di legno chiaro. Restammo in silenzio ancora per qualche istante, il solo tintinnio del cucchiaino contro la tazza a farci compagnia in quella calma quasi innaturale. Lasciai la posata sul tavolino e bevvi un sorso di thè, gli occhi di Michael che non perdevano un movimento.
          «Come hai fatto a trovarmi, stasera?» gli domandai dopo aver cercato e trovato il coraggio di alzare lo sguardo su di lui.
          «Sono tornato a LA per la pausa natalizia del tour, e volevo beccarmi con Zach e Tyler***, ma poi stavo camminando per la strada e ho visto il manifesto della serata al Number, e ti ho riconosciuta subito… Ho pensato che dopo più di cinque anni fosse ora di vederci di nuovo» mi rispose, loquace come non lo era mai stato.
          Alzai le spalle e abbassai lo sguardo sulla tazza, ben salda tra le mie mani e posata sul mio ventre. «Forse», concessi con l’ennesima smorfia della serata. Probabilmente era l’unico modo in cui sarei riuscita ad esprimermi durante quella conversazione.
          «Oh, Karlie… Quanto ancora abbiamo intenzione di girarci attorno?» nel suo tono potevo percepire una chiara nota d’esasperazione, dettata dal mio continuo sfuggire dall’affrontare l’accaduto. «Avevi detto che non saresti scappata.»
          «E non l’ho fatto! Sono qui, davanti a te, questa non mi pare una fuga» risposi, piccata, alzando nuovamente lo sguardo su di lui.
          I suoi occhi esprimevano tutta la disperazione e la dolcezza di questo mondo, quando parlò: «Forse non fisicamente, Karlie» mi fece notare, il tono privo dell’esasperazione di poco prima e notevolmente addolcito, come non mi meritavo affatto.
          Abbassai di nuovo gli occhi sulle mie gambe incrociate, incapace di sostenere il suo sguardo. Michael continuò a parlare, deciso più che mai a scrivere la parola fine a quel particolare capitolo delle nostre vite – e , forse, era ora che mi decidessi a farlo anche io.
          «Perché sei scappata, quel giorno? Perché non mi hai permesso di parlarti, di spiegarmi?»
          Il mio sguardo rimase fisso per qualche istante sulla tazza, ancora colma di thè caldo, prima che mi decidessi a parlare.
          «Avevo paura», mormorai infine, così piano che per un istante dubitai io stessa di aver pronunciato quella spiegazione abbozzata.
          «Di cosa, Karlie? Che succedesse di nuovo? Che ci spingessimo oltre?» doveva essere una liberazione, per lui, potermi tempestare con tutte le domande che, in quegli anni, doveva aver accumulato nei miei confronti.
          «Di tutto, Michael.  Avevo paura che accadesse ancora, che ci spingessimo oltre, che tu mi rivelassi di essere innamorato di me, di dover affrontare i miei sentimenti… non ce l’avrei fatta, non in quel momento.»
          Una sorta di gemito di frustrazione uscì dalle sue labbra. «Karlie, io… eravamo adulti, cazzo. Tu avevi vent’anni, e mi stai dicendo che non ti ritenevi in grado di prendere in esame i tuoi sentimenti?»
          Tornai con lo sguardo su di lui, trovando il suo esasperato come qualche istante prima e nuovamente ferito, esattamente come cinque anni prima. «Mikey, ero così confusa… non sapevo dove sbattere la testa, non sapevo nemmeno cosa pensare! Ho impiegato un anno prima di riuscire a raccontare ad Angie ciò che era successo, ed è stata la prima e unica volta in cui ne ho davvero parlato!» esclamai alzando fin troppo la voce, cercando di fargli in qualche modo capire il mio punto di vista.
          «E perché non hai risposto ai miei sms, alle mie chiamate? Perché non mi hai rintracciato, mentre ero ancora a Los Angeles? Perché gli anni dopo non mi hai mai cercato?» le domande uscirono a raffica dalle sue labbra, incapaci di fermarsi, il cervello completamente scollegato dalla lingua che, al contrario, pareva in perfetta sintonia con le sue emozioni.
          «Perché mi ci è voluto poco per capire che avevo fatto una stronzata, ma ero troppo orgogliosa per tornare sui miei passi, anche dopo cinque anni» ammisi, chiudendo gli occhi e ricacciando le lacrime che li avevano già fatti pizzicare. Udii un sospiro profondo provenire da Michael, il suono che più di tutti mi fece capire che forse eravamo giunti al termine di quella schermaglia latente durata più di cinque anni.
          «Forse non è stato il modo migliore per farti capire che ero innamorato di te» riconobbe lui con l’ennesimo sospiro. Mi azzardai solamente allora a riaprire gli occhi e spostarli lentamente sulla sua figura, alla mia destra. «Probabilmente avrei dovuto cogliere altre occasioni, ponderare le parole… ma era da troppo tempo che me ne stavo zitto, innamorandomi sempre di più, e arrivato a quel punto sono scoppiato.»
          Accogliemmo questa sua confessione con il silenzio più carico di significati che c’era stato in tutta la serata; erano quasi le due del mattino, il quartiere era immerso nella calma e tranquillità più totali, e la mia casa non faceva eccezione.
          Dopo lunghi minuti di riflessione da parte di entrambi, fu ancora lui ad azzardarsi a spezzare il silenzio: «Prima hai detto di… aver capito subito che avevi fatto una stronzata» sapevo che saresti tornato su quel punto, Shuman. «Cosa intendevi?»
          «Intendevo dire che ho capito dopo poco di aver fatto l’errore più madornale della mia vita, e il tutto perché ero innamorata di te e non volevo ammetterlo a me stessa per non compromettere la nostra amicizia» feci una pausa, sospirando nuovamente e posando la tazza sul tavolino davanti a me. «Se l’avessi capito quel pomeriggio, Dio solo sa dove saremmo ora e cos’avremmo fatto fino ad oggi, ma l’ho capito solamente settimane dopo che te n’eri andato per il tour. Il treno era già passato, ed io avevo accumulato il ritardo più grande della mia vita.»
          L’ennesimo sospiro, e non riuscii a capire se fosse mio o di Michael, la sua mano corsa ad afferrare la mia per stringerla forte, intrecciando le nostre dita. «Forse non sei così in ritardo.»
          Alzai lo sguardo dalle nostre mani giunte al suo volto, gli occhi scuri brillanti di una luce speranzosa che mai avrei creduto di poter vedere. «Dopo cinque anni? Mi ami ancora dopo cinque anni, e dopo tutto quello che ti ho fatto?» gli domandai, stupidamente stupita dalla piega così incredibile degli eventi.
          Michael non poté fare altro che annuire, un sorriso a distendere le sue labbra carnose. «Avevi dubbi? Siamo cambiati, Karlie, siamo cresciuti. Quello che ci è successo… vedilo come un incidente di percorso, qualcosa che doveva accadere perché capissimo davvero quello che provavamo.»
          Rimasi in silenzio, ancora una volta zittita dalle sue parole e dalle sue argomentazioni che parevano perfettamente studiate, come se avesse passato i cinque anni precedenti al nostro incontro a studiarne le battute e a prevederne i risvolti.
          «Ci è concessa una seconda possibilità? Mi è concessa una seconda possibilità?» chiesi in un sussurro. Il cuore minacciava di scoppiarmi nel petto, perché ero l’unica in grado di quantificare l’amore che avevo provato per Mikey – e quello che ancora provavo, nonostante fossero passati anni, nonostante potesse esserci la possibilità che lui si fosse rifatto una vita, che fosse andato avanti. Forse, in fondo, avevo sempre sperato che lui tornasse, e ora che l’aveva fatto ero così estasiata da faticare a credere che fosse vero, che fosse a Los Angeles per me.
          «Ti è concesso tutto… se lo vuoi.»
          Feci l’ennesima smorfia, mentre una lacrima mi rigava la gota sinistra. «Sei troppo buono, Mikey, credo di non avere diritto a volerti tenere per me» commentai, asciugandomi la guancia con il dorso della mano.
          In uno slancio di dolcezza, che non aveva mai caratterizzato la nostra amicizia, Michael prese tra indice e pollice il mio mento, sollevandomi il capo e costringendolo quindi a guardarlo negli occhi. C’era tutto ciò che avevo desiderato da cinque anni a quella parte, in quegli occhi: la speranza che si potesse aggiustare tutto, che tutto tornasse com’era prima di quel fatidico marzo – la speranza che ci fosse una possibilità, per noi, nonostante gli errori di entrambi e le nostre menti e i nostri cuori cocciuti.
          «Non sei stata l’unica a sbagliare quel giorno, Karlie. Gli errori si fanno in due, e il tuo non è stato altro che una conseguenza del mio… non c’è nessuno di troppo buono o poco meritevole, ci siamo solo noi, se lo vuoi.»
          Nulla avrebbe potuto essere più spontaneo del bacio che ci scambiammo in quel momento; lasciai che i nostri respiri s’infrangessero l’uno contro l’altro, che le nostre mani corressero a stringersi con la promessa di ricucire gli strappi che entrambi avevamo provocato nell’altro e la bocca di Mikey che, mi stupii, pareva avesse già il mio sapore, come se fossi stata lì da sempre. Come se fossi stata sua da sempre.
          Mi separai a malincuore dalle sue labbra, le labbra morbide e carnose che avevo avuto la fortuna di saggiare solamente una volta e il cui ricordo non mi aveva mai abbandonata.
          «Ci siamo solo noi.»

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
Devo lasciare note riguardo gli asterischi disseminati per la storia, giusto per spiegare un po’.
*: Blunderbuss in inglese significa archibugio, ed è il titolo del primo album da solista di Jack White, che io ho letteralmente adorato. Questo è il mio piccolo e insulso modo di rendergli tributo (:
**: Mini Mansions è un progetto che Michael ha creato esternamente ai Queens of the Stone Age. Qui potete ascoltare qualcosa di loro, una cover che ho particolarmente apprezzato – e in cui c’è un enorme, gigantissimo, fantastico scorcio del protagonista di questa shot. Diciamo che questo video ha fatto gran parte del lavoro per l’ispirazione ;)
***: Zach e Tyler sono rispettivamente Zach Dawes e Tyler Parkford, gli altri due membri del progetto Mini Mansions.
Il titolo della storia è tratto dalla canzone che canta Karlie come pezzo finale dell’esibizione della sua band, Do I wanna know? degli Arctic Monkeys – che, come Karlie, ho davvero scoperto attraverso i Queens.

 

E ora passiamo alle note ‘personali’.
Come già ho scritto sopra, la shot è dedicata a MadAka. I Queens of the Stone Age sono la passione che ci ha fatte incontrare e conoscere, e quando dico che ‘a loro devo tanto’ mi riferisco anche e soprattutto all’aver conosciuto lei, che senza dubbio posso inserire tra le persone più speciali che siano entrate a far parte della mia vita. 
A lei va ogni ringraziamento: mi ha sopportata stoicamente quando fangirlavo su Mikey, quando le inviavo fotografie prese da tumblr e non riuscivo a scrivere una parola di senso compiuto in chat, quando le chiedevo se poteva – con pazienza – leggersi tutto in anteprima, perché era l’unica di cui mi fidassi e che potesse capire fino in fondo il ‘mio’ Mikey.
Ho altri quattro ringraziamenti speciali da fare:
- a Yvaine0, che mi ha trascinata nell’oscuro baratro delle RPF;
- a Bloomsburymoloko_vellocet e EffieSamadhi, che hanno letto in anteprima la scena lime scongiurando ogni dubbio sulla sua volgarità – che, ahimè, è una delle mie tante fisse xD
- a MrsGlover, che ho ritrovato dopo qualche tempo e che fangirla con me, sempre e comunque, nelle nostre FCE. Grazie Gabs ♥ 
Detto ciò, ringrazio chiunque legga/recensisca/schifi questa shot. A presto, spero!
FVonSexron

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