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Autore: mikchan    11/01/2014    2 recensioni
*SEQUEL DI LIKE A PHOENIX*
Il tempo passa, la vita continua e i brutti ricordi diventano passato. Per tutti è così, anche per Amanda, giornalista in carriera, sfruttata dal suo capo, in crisi con se stessa e con i sentimenti che prova per il suo ragazzo e in cura da uno psicologo. Tutto questo, e Amanda lo sa, è dovuto proprio a quel passato che non l'ha abbandonata, alla perdita delle cose più importanti che avesse al mondo. Ma il passato ritorna, sempre, e per Amanda si ripresenta in una piovosa giornata invernale.
Saprà il suo passato darle un'altra opportunità, oppure è davvero tutto finito?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Like a Phoenix'
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18- WHEN YOU LEAST EXPECT IT

"Sei pronta?". 
"Ovviamente no".
"Vuoi andare a casa?". 
"Ovviamente no". 
"E allora cosa stai aspettando?". 
Sbuffai. "Che un meteorite mi cada in testa". 
Adam ridacchiò. "Peccato che non siano previsti meteoriti in caduta in questi giorni". 
Sbuffai di nuovo, tirandogli una pacca sul braccio. "Non mi sei d'aiuto, stupido". 
"Devi decidere tu cosa fare, Lupacchiotta", disse semplicemente. 
"Lo so", sospirai. 
"E allora cosa ci fai ancora in macchina?". 
Esitai un attimo. "Non lo so", ammisi. 
"Beh, allora torniamo a casa. Non mi dispiacerebbe riprendere da dove abbiamo interrotto stamattina", disse malizioso, posandomi una mano sul ginocchio. 
"Smettila", mugugnai, scostando con stizza la gamba. "Sono solo nervosa". 
"È un'intervista, Mandy. E tu sei una brava giornalista". 
"Lo so", ripetei. "Però è l'intervistato che mi preoccupa". 
Adam sospirò. "Puoi chiedere al tuo capo di farti cambiare articolo". 
Scossi la testa. "Lo voglio fare io", obiettai. 
"E allora esci da questa macchina ed entra in quella stupida palestra". 
"Non sei nemmeno un po' preoccupato?", gli chiesi io dopo qualche secondo di silenzio. "Eppure sai bene quello che è successo". 
"È diverso ora: tu sei una giornalista, lui un semplice atleta. Hai la possibilità di farlo cadere dalle stelle in un secondo e lui lo sa, quindi non farà nulla che possa rovinare la sua carriera". 
"Ne sei sicuro?". 
Lui scrollò le spalle. "Io mi comporterei così, quindi sì, ne sono sicuro". 
Presi un grosso respiro. "Okay, allora vado". 
"Io ti aspetto qui, così poi andremo dritti a casa e potremo continuare quella famosa faccenda". 
Alzai gli occhi al cielo. "Vedi solo di non mollarmi qui che non saprei nemmeno come tornare indietro". 
"Tranquilla, Lupacchiotta. Ho la mia radio e un libro", disse indicando il cruscotto. "Solo, non perderti in quisquiglie con il giocatore di basket". 
"Che ha un nome, però okay". 
"Che mi importa del suo nome?". 
Sbuffai, scuotendo la testa. "Vado", dissi allungandomi e lasciandogli un bacio a stampo. "Ci vediamo tra meno di un'ora, promesso". 
"Buon lavoro, Lupacchiotta. E ricordati chi è il lupo e chi l'agnello!", aggiunse prima che chiudessi la portiera alle mie spalle. 
Una volta fuori dall'automobile, presi un enorme respiro profondo. Adam aveva ragione: io ero una giornalista, David il mio intervistato. Cosa sarebbe potuto succedere in meno di un'ora? Niente. 
Sentii il finestrino dell'auto abbassarsi e mi voltai, incontrando il sorriso di Adam. "Fagli il culo a strisce, Lupacchiotta". 
Scoppiai a ridere. "Sei l'emblema della finezza, Adam!". 
"Eh, sono capacità. Ora muoviti che ti stanno aspettando". 
Annuii e sorrisi. "Grazie a... amore", dissi, incerta se potevo prendermi la libertà di chiamarlo in quel modo. Ma Adam non si arrabbiò e il luccichio nei suoi occhi mi confermò che, forse, non gli era dispiaciuto così tanto. 
Gli lanciai un bacio volante e mi voltai di nuovo, trovandomi davanti l'entrata del Palazzetto dello Sport dove David si stava allenando. Presi un altro respiro profondo e m'incamminai. 
Al bancone dell'accoglienza clienti parlai con una segretaria, che mi indicò la strada verso gli spogliatoi degli atleti, spiegandomi che gli allenamenti sarebbero finiti nel giro di cinque minuti e poi avrei potuto parlare con David. Imbarazzata -un'intervista in uno spogliatoio pieno di ragazzi mezzi nudi?- le chiesi se fosse possibile farla da qualche altra parte e, dopo avermi lanciato un'occhiata divertita, mi disse che avremmo avuto a disposizione l'ufficio dell'allenatore. Sospirai sollevata e seguii le sue indicazioni, trovandomi in una stanza di fianco agli spogliatoi, piuttosto anonima e piena di scartoffie. Non c'era ancora nessuno e mi sedetti, approfittandone per ripassare le domande che avrei dovuto porgli. Niente di eccessivo: qualcosa sulla sua carriera, sulla sua famiglia e alcune un po' inutili, ma interessanti per i lettori, che mi aveva suggerito Jamie. 
Mi voltai di scatto quando sentii delle voci provenire dal corridoio e intradivi alcuni uomini entrare nello spogliatoio. Mi chiesi se David fosse a conoscenza di quell'intervista e sapesse dove trovarmi, ma ogni dubbio fu cancellato quando lo vidi avanzare insieme ad un uomo più anziano, l'allenatore presumibilmente, e dirigersi con lui proprio nell'ufficio dove mi trovavo in quel momento. 
Mi alzai in piedi e attesi il loro arrivo, presentandomi con un sorriso cordiale e stando bene attenta a evitare lo sguardo di David. 
"Sono davvero contento che abbiate accettato di tenere questa intervista", stava dicendo l'allenatore, Micheal Clive. Era un uomo abbastanza alto, sulla cinquantina, con i capelli quasi del tutto grigi e un accenno di pancetta, ma tutto sommato attraente, anche grazie ai suoi modi tranquilli e aperti. Aveva un unico difetto e mi erano bastati pochi minuti per comprenderlo: quando iniziava a parlare, non finiva più! Elogiò più volte il nostro giornale e mi ripeté all'infinito di salutargli Mr Brown, ricordando ad alta voce i "vecchi tempi" con il suo compagno di appartamento all'università. "Il mondo è così piccolo", diceva ogni volta che pronunciava il nome dell'amico. Io stavo iniziando a spazientirmi a causa di quella ridicola situazione: quel tipo non la smetteva di parlare e David non mi aveva tolto gli occhi di dosso da quando era entrato in quell'ufficio. Continuava a fissarmi spudoratamente e, anche se mi rifiutavo di accertarmene, sentivo il suo sguardo che mi penetrava con forza. Non mi doveva riconoscere, eh? 
Fortunatamente dopo quasi quindici minuti di parlantina ininterrotta, Clive si ricordò il motivo della mia presenza in quel luogo e mi salutò calorosamente con due baci sulle guance, come se fosse il mio più vecchio amico. 
Uscì dall'ufficio in un lampo e rimasi sola con l'unica persona che mai avrei voluto rivedere in tutta la mia vita. "Bene, signor Parker", dissi dopo avere preso un respiro profondo. "Possiamo finalmente iniziare". 
David non rispose, rimanendo immobile con le braccia incrociate al petto. Mi costrinsi a voltarmi e guardarlo in faccia, più per educazione che per effettiva voglia, ma me ne pentii subito. Non era affatto cambiato. Forse era un po' più alto e più muscoloso, ma il suo volto era sempre lo stesso: stesso cipiglio, stessi occhi scuri, stessi capelli biondo cenere, stesso sguardo profondo. Era addirittura più bello di cinque anni prima. 
"Hai intenzione di fare finta di nulla?", mi chiese dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio, alzando un sopracciglio. 
Sobbalzai a quelle parole. Negare, sempre, fino alla fine. Beh, quella volta sarebbe stato complicato, accidenti! "Non capisco di cosa parla. Però gradirei iniziare quest'intervista e recuperare il tempo che abbiamo perso perché avrei altri impegni dopo e non posso trattenermi a lungo", spiegai, cercando di sembrare più professionale possibile. 
David sbuffò, sciogliendo la sua posa e arrivando con due lunghi passi alla sedia e sedendosi. Lo imitai, deglutendo e ripetendomi nella mente le parole di Adam: io ero la giornalista, lui l'intervistato. 
"Bene. Non sono molte domande, ma la prego di essere il più sincero possibile". 
Lui annuì, sbuffando e mugugnando qualcosa che mi suonò come "quante scenate", ma che scelsi volontariamente di ignorare. 
"Allora, come mai questa sua passione per il basket? Lo pratica da molto, non è vero?", chiesi, accendendo il piccolo registratore portatile che avevo messo in borsa in modo da poter ascoltare con calma l'intervista e poter stendere l'articolo in un secondo momento. 
Lui scosse le spalle. "Ho iniziato come iniziano tutti i bambini: costretto dai genitori. Poi mi sono appassionato e ho deciso di continuare. Sono stato ovviamente molto fortunato: molti miei colleghi hanno dovuto rinunciare per molti motivi, mentre io sono qua". Mi irrigidii alle sue parole, comprendendo benissimo a chi si stesse riferendo: Adam aveva smesso con il basket proprio a causa di un grosso problema al ginocchio, che lo aveva portato a subire un'operazione anni prima, quando ancora stavamo insieme. Era stata una notizia che aveva fatto scalpore, perchè proprio quell'anno lui, come David, erano entrati a far parte di una squadra di livello più alto e perdere un giocatore valido a nemmeno metà stagione era stata una grande sopresa per tutti. Ma quello che ci era stato peggio era stato ovviamente Adam: si era rifiutato di vedere qualcuno per settimane, chiudendosi nel suo mutismo e perdendo quell'allegria che lo aveva sempre caratterizzato. Con il passare del tempo, però, aveva dovuto accettarlo e se ne era fatto una ragione, ripiegando sull'altro suo sogno che aveva voluto scartare per tentare di sfondare nel mondo dello sport. "Comunque", continuò David, interrompendo il corso dei miei ricordi, "fondamentalmente gioco per me stesso. È uno sfogo, il migliore che ho trovato, a tutte le frustrazioni. E poi devo ammetere che adoro quella sensazione che ti sorprende quando sei in mezzo al campo, con una palla in mano a pochi secondi dalla fine della partita: in quei momenti devi sapere essere lucido, ma anche farti trasportare ed è questo che amo del basket. È passione, ma tecnica allo stesso momento" 
Io annuii, ancora un po' scossa da quello sconveniente riferimento ad Adam e mi schiarii la gola prima di porre la seconda domanda. "Qualche mese fa si è slogato una caviglia durante una partita. Crede che ritornerà a giocare presto?". 
"Ovviamente. Già sabato prossimo dovrei essere in grado di rientrare in campo e fare il culo a quegli stronzi!". 
"Ehm...", mormorai, scribacchiando sul bloc-notes. "Magari questa cosa non la scrivo, che ne dice?". 
David sbuffò. "Dico che questa pagliacciata mi sta stancando, Amanda". 
"Io sto facendo il mio lavoro", sbottai, facendo finta di non avere sentito il mio nome di battesimo. "E, se non vuole che scriva che è un gran maleducato, deve decidersi a darsi una calmata, signor Parker. Altrimenti me ne torno da dove sono venuta". 
"Stai giocando scorretto". 
"Preferirei che mi dia del lei, se non le dispiace", aggiunsi, fulminandolo con lo sguardo. Aveva ragione, stavo giocando sporco, ma accidenti se me lo meritavo! Quella era una mia specie di rivincita e non avrei mollato tanto facilmente. 
"Non possiamo parlare come due persone civili?". 
"Era la mia intenzione fin dall'inizio, signor Parker. Ma se lei continua a interrompermi sono costretta a ribattere, non crede?". 
"Sei sempre la solita testarda rompipalle", sbottò, passandosi una mano tra i capelli. 
Mi morsi la lingua, trattenendo un insulto. Avevo un vantaggio, certo, ma se avessi incominciato a essere cattiva l'avrei perso e anche l'articolo sarebbe andato a quel paese. Per questo lanciai un'occhiata alla lista delle domane e ignorai la sua battuta. "Alcune riviste scandalistiche hanno pubblicato sue foto in club privati, in compagnia di parecchie ragazze. Cos'ha da dire?". Okay, lo ammetto: quella era una domanda di Jamie ed era anche parecchio stronza, ma volevo tenere le redini di quell'incontro e quello era l'unico modo che avevo. 
David si irrigidì. "Dico che posso andare a divertirmi dove voglio, le pare?", rispose. 
"E la sua ragazza? È da un po' che non lo si vede più in giro con Beatrice Mells". 
"Non è la mia ragazza, è solo un'amica". 
"Beh, alcune foto possono confermare il contrario", lo punzecchiai. Oh, sì che mi stavo divertendo! 
"Esco con lei a volte e me la scopo. Dov'è il problema?". 
Sbuffai. "Le scoccia usare un linguaggio più educato, per favore?". 
"Sì, mi scoccia, porca puttana. Che cazzo te ne frega della mia vita privata?". 
"Sono una giornalista", gli ricordai con freddezza. "È il mio lavoro farmi gli affari degli altri". 
"Sei caduta davvero in basso, Amanda. Ti stai nascondendo dietro al tuo lavoro per vendicarti". 
Assottigliai gli occhi. "Non ti permetto di giudicarmi", sbottai passando alla seconda persona senza nemmeno accorgemene. "E ho tutto il diritto di vendicarmi di un bastardo come te". 
"Voglio un'altra giornalista con cui tenere l'intervista", disse duramente. "Tu non sei obiettiva e finirai per scrivere stronzate solo per sentirti meglio". 
"No, non sono così", affermai sicura. "Sono una giornalista", ripetei. "E scrivo quello che vedo. E in questo momento vedo un uomo estremamente maleducato, mi dispiace". 
"E io vedo solo una persona che non ha il coraggio di affrontarmi, nemmeno dopo tutti questi anni". 
"Lasciamo il nostro passato fuori da questo posto", esclamai. "Voglio finire l'intervista e ti assicuro che farò come se non ti conoscessi". 
"Sai che non è possibile". 
"Beh, non m'interessa. Ora posso procedere con le domande?". 
David mi guardò negli occhi per qualche secondo, po sbuffò, annuendo. 
Finii l'intervista nella metà di tempo che ci avrei impiegato normalmente, saltando le domande alle quali conoscevo la risposta e limitandomi a quelle essenziali. Anche David non si allargò troppo, dicendo lo stretto essenziale e continuando a fissarmi accigliato. 
"Bene, la ringrazio per il tempo che mi ha concesso", dissi quando David finì di parlare. Volevo uscire da quel posto in fretta e tornare da Adam. 
"Quando uscirà l'articolo?". 
"È una rubbrica settimanale, quindi potrà trovarlo sul giornale venerdì". 
Lui annuì, alzandosi e stiracchiandosi. Lo imitai, infilando in fretta il registratore e il quadernino in borsa e indossando la giacca. "Arrivederci", lo salutai freddamente senza nemmeo guardarlo negli occhi. 
Veloce e indolore. 
Veloce, purtroppo, era anche David, che mi afferrò per un polso e mi costrinse a rimanere dov'ero. "Ora possiamo parlare?", chiese impaziente. 
Feci una smorfia, fingendo di guardare l'ora. "In realtà sono in ritardo, dovrei proprio andare". 
"Chiunque sia può aspettare cinque minuti", sbottò. 
"Non abbiamo niente da dirci", sibilai, torcendo il braccio e obbligandolo a lasciarmelo. 
"Poco fa mi sembrava il contrario, sai?". 
"È stata solo una tua impressione, fidati". 
David sbuffò. "Posso solo chiederti una cosa?". 
Lo guardai, incerta. "Parla, poi deciderò se rispondere". 
"Perché hai accettato l'articolo se sapevi che avresti dovuto incontrarmi?". 
Rimasi un'attimo spiazzata: quella domanda proprio non me la sarei mai aspettata! "Perché è il mio lavoro", risposi semplicemente. "C'è tanta gente che non sopporto e passare un ora con te era uno dei mali minori. E poi non potevo rinunciare l'articolo di apertura della mia rubbrica". 
"Beh, allora sono contento per te", disse solo. 
Io annuii piano. "Grazie. Ora posso andare?". 
"Sei proprio di fretta, si può sapere chi ti sta aspettando, il presidente degli Stati Uniti?", esclamò, alzando gli occhi al cielo.
Assottigliai le labbra, incrociando le braccia. "Il mio fidanzato", risposi secca. 
David mi guardò sorpreso. "E qualcosa mi dice che lo conosco anch'io, vero Amanda". 
"Piantala con questi giri di parole", sbottai. "È Adam, se ti interessa saperlo. E sarei dovuta essere con lui già da cinque minuti". 
"Beh, mi dispiace se ti sto togliendo tempo prezioso da passare con il tuo uomo", ironizzò. 
Sbuffai. "Sì, sì, ti dispiace proprio. Ora, se permetti, abbiamo finito l'intervista, abbiamo parlato e io vorrei tornare a casa". 
"Non resti nemmeno se ti offro un caffé?". 
Lo guardai, sorpresa. "Stai scherzando?". 
Scrollò le spalle. "No. In nome della nostra vecchia amicizia". 
"Ma quale vecchia amicizia?", sbottai. "Non siamo mai stati amici". 
"Già, ed è stata solo colpa tua". 
Alzai gli occhi al cielo. "Non esagerare, eh! È partito tutto da te, se non mi sbaglio". 
"Ancora con quella storia?", esclamò. "Non possiamo passare oltre?". 
"Ma io sono passata oltre. Il problema è che non c'è nessun noi, David. Quest'incontro è stato un  caso, ma fidati, non accadrà di nuovo". 
"Non ci giurerei, fossi in te". 
"Mi minacci? Di nuovo?", lo accusai. 
"No, era solo un avvertimento, Amanda. Il mondo è piccolo, no?". 
"Il mondo ha anche tante strade, David". 
"Come dice il detto? Tutte le strade portano a Roma". 
"Dipende, se le prendi dalla parte opposta ti portano lontano da Roma". 
David sbuffò, di nuovo. "Sempre testarda", mugugnò. 
"Non sei l'unico a non essere cambiato", mi lasciai sfuggire. 
Lui alzò un sopracciglio, abbozzando un sorriso. "Credo che lo prenderò con me un complimento", disse. "E comunque anche tu sei sempre la stessa. Anzi, sei molto più bella". 
Arrossi, distogliendo lo sguardo. "Grazie", mugugnai. 
"È un dato di fatto. Hai anche le tette più grosse", disse candidamente, aprendosi in un sorriso a trentadue denti. 
"David!", lo ripresi. "Farmi un complimento non significa diventare uno scaricatore di porto!". 
"Beh, anche questo è un dato di fatto. Non è che sei incinta?". 
Ammutolii, rimanendo di pietra? Ma come cavolo aveva fatto a capirlo? Semplicemente guardandomi il seno? Che razza di maniaco... 
David mi guardò in cerca di una risposta e il suo sorriso scomparve quando incontrò il mio sguardo confuso. "Credo che la risposta sia sì", disse passandosi una mano sulla nuca, imbarazzato. 
Scossi la testa. "Sì, aspetto un bambino. Ora devo davvero andare, David. È stato un piacere... più o meno", aggiunsi a bassa voce. 
Uscii in fretta dall'ufficio e mi diressi verso l'uscita a testa bassa. 
"Buon fortuna, Amanda", mi urlò David. Mi ferma, ma non mi voltai. "E ricordati che ci rincontreremo". Rabbrividii, rincominciando a camminare a passo più spedito. Perché quelle parole a me suonavano più come una minaccia che come un avvertimento?
Uscii in fretta, ringraziando l'aria fresca che mi colpì violenta le guance, portandoci un po' di refrigerio. Individuai subito l'auto di Adam e mi ci catapultai dentro, attaccandomi subito alle sua labbra, come se fosse l'ossigeno necessario per farmi tornare a respirare. 
"Che accoglienza", commentò ridacchiando quando mi staccai per prendere fiato. "Cosa devo dedurre? Che è andato così bene da volere festeggiare? Oppure che è andato così male che mi vuoi usare per dimenticare?". 
Sbuffai, sedendomi sul sedile del passeggero e allacciandomi la cintura. "È andata bene. Più o meno", ripetei. "Però è stato stancante cercare di mantenere le distanze". 
Adam annuì, accendendo la macchina e uscendo dal parcheggio. "Ti ha riconosciuta?". 
"Subito". 
"Accidenti, che memoria". 
"Già. Si ricordava addirittura dell'incidente che hai avuto anni fa", gli rivelai.
Adam s'irrigidì. "Ma davvero?", sussurrò senza staccare gli occhi dalla strada, ma stringendo la presa sul volante. "E perché te ne ha parlato?". 
Scossi le spalle, allungando una mano per stringergli il ginocchio e rassicurarlo. "Stupidità, presumo. Oppure voglia di mettersi in mostra". 
"Stupidità", ripetè Adam, sbuffando. 
"Ti manca giocare?", gli chiesi dopo qualche secondo di silenzio. 
Lui esitò un attimo a rispondere. "A volte vorrei avere una palla in mano e schiacciarla a terra con forza per sfogarmi", disse. "Però non so se tornerei a giocare e non solo per il ginocchio". 
Il suo sguardo diceva chiaramente che non ne voleva parlare e non insistetti: sapeva che se si voleva confidare io ci sarei stata, forzarlo non sarebbe servito a nulla, lo sapevo bene. 
"Comunque ora voglio solo andare a casa e rilassarmi con un bagno caldo". 
"Da sola?", chiese Adam, alzando un sopracciglio e sorridendo malizioso. 
"Chissà", dissi semplicemente. 
Adam scoppiò a ridere. "In realtà volevo festeggiare, così ho prenotato un tavolo al tuo ristorante preferito". 
"Festeggiare cosa?", chiesi curiosa. 
Lui scosse le spalle. "Tutto: la nostra storia, la gravidanza, mio padre sta meglio, il tuo lavoro va alla grande e hai superato anche la prova di David. Hai bisogno di altro per festeggiare?", domandò retorico. 
"No, solo che non me lo sarei mai aspettato", risposi sincera, non riuscendo a smettere di sorridere per la commozione. 
"Beh, qualche volta anche io devo essere romantico", rise. 
"Tu lo sei sempre", sussurrai. "A modo tuo, ovviamente". 
Adam si voltò e mi afferrò la mano, stringendola con la sua sopra la leva del cambio. "E allora questa cosa facciamo le cose per bene: ora ti lascio a casa, ti prepari e ti passo a prendere alle nove. Prendi anche qualcosa con cui dormire perché andiamo da me, dopo". 
"Dimmi che non hai programmato tutto!", esclamai sorpresa. 
Lui fece una specie di smorfia. "In realtà sto decidendo tutto al momento", ammise. 
Mi allungai verso di lui e gli lasciai un bacio sulla guancia. "Visto che sei romantico?".
Lui scosse la testa, sorridendo. Intanto eravamo arrivati sotto la mia palazzina e, dopo averlo salutato con un bacio a stampo, scesi dall'auto e corsi in casa. 
Non me la sarei mai aspettata un'iniziativa simile da parte di Adam: non gli erano mai andati a genio i ristoranti e preferiva le cenette intime in casa, dove si poteva parlare e farsi smancerie senza tanti problemi. Però dovevo ammettere che mi conosceva bene e sapeva che, qualche volta, mi piaceva andare fuori a cena, passeggiare a braccetto e finire la serata facendo l'amore. Cose da libri harmony, per intenderci, ma avevo bisogno di nutrire il mio lato romantico, ogni tanto e Adam sapeva benissimo come farlo. 
Quella sera fu magnifica. E non solo perché Adam si comportò da perfetto gentiluomo e perché finimmo per fare l'amore in macchina, come due ragazzini, per placare quel desiderio che si era acceso durante la sera a causa delle sue continue battute maliziose, ma soprattutto perché iniziavo finalmente a sentire che tutto stava girando nel verso giusto. 
Ero felice, come mai lo ero stata in vita mia. C'era qualcosa, nel profondo del mio animo, che era rinato dopo tanto tempo. Il mio amore per Adam era come un'eterna fenice, bella e maestosa, potente e infinita. 
Per quel motivo ero convinta che sarebbe durato per sempre, nonostante le avversità. Forse ne ero inconsciamente consapevole, certo, ma all'epoca non avevo ancora capito come funzionasse il mondo e, soprattutto, che le fiamme che bruciano la fenice sono estremamente più dolorose delle ceneri che la fanno rinascere. 





Ehi gente! 
Finalmente ho un attimo libero e riesco ad aggiornare. 
Questo capitolo era previsto fin dall'inizio: in fondo David è stato colui che ha permesso l'inizio della relazione tra Adam e Amanda e gli dovevo una ricomparsa. Per Amanda è stata un'altra sfida da superare e, malgrado tutto, ce l'ha fatta: chissà se le parole di David sono veritiere o meno... 
Ringrazio davvero tutti quelli che mi seguono, anche in silenzio, in particolare Minelli e Ali_13: siete davvero dolcissime con i vostri commenti, grazie di tutto! 
Sono riuscita a portare avanti di un paio di capitoli la storia e vi lascio con uno spoiler del prossimo capitolo. Buon weekend a tutti! 
mikchan


SPOILER
Capitolo 19- FEAR AND GUILT FEELINGS
[...] "Mi stai dicendo che non ti sei pentito di quello che è successo?", esclamai. 
"Ma la pianti di travisare le mie parole?", sbottò arrabbiato. "Le cose stanno così e te lo dico per l'ultima volta: io sono stato malissimo senza di te e per questo sto cercando di rimediare. Ti voglio al mio fianco, dannazione, e non solo perché sei la madre di mio figlio. Il fatto di avere commesso uno sbaglio, però, non mi ha impedito di rimboccarmi le maniche e faticare per riavere quello che volevo. Per questo mi fanno infuriare questi continui piagnistei: hai sbagliato, hai fatto soffrire delle persone? Bene, fai qualcosa per cambiare". [...]
  
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