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Autore: Lilu_wolf    11/01/2014    4 recensioni
Mi chiamo Hope. E questa è la mia storia, di come ho ucciso, e sono stata uccisa
Una fenice non muore
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scappa.                                                                                                                                                                                        
 
È solo un sussurro a fior di labbra, ma le esplode nel cuore come una cannonata. lacerante.                                                                                         
   Hope, scappa.                                                                               
    Sente i passi, sempre di più, ma non riesce a muoversi, è inchiodata alla strada fredda, dal calcio di quella pistola.                                                                                                                                                                             
 Una campana suona, è l’una di notte.                                                                                                         
   Le luci blu lampeggiano nell’aria, trema, le mani immerse in quel liquido caldo, scuro e denso, che le scorre tra le mani.                                                                                                                                                               
    Hope..                                                                                                                                                                                              
       
Un urlo straziante, quello che lacera la notte. Sua madre. Non ha la forza di voltarsi, ma deve farlo. Ora non sente più i passi, ne le campane, nemmeno le sirene, anche la voce è sparita. Sente solo sua madre che urla. E Dawn, con la voce piena di orrore.                                                                                                                                                                           
  Hope.. cosa hai fatto? Cosa hai fatto..  
 
                        
Hope si rizzò a sedere, con i ricci davanti agli occhi, occhi pieni di incubi. Si accorse di non avere il controllo sul suo corpo, tremava senza tregua, e i suoi polmoni non funzionavano bene. S’impose di respirare                                                                                                                                                                   
     -Respira Hope, respira. Sei al sicuro- mormorò Joe, attento a non abbracciala, provocando in lei un ulteriore motivo di terrore. La ragazza strinse i denti, dentro di lei era in corso l’ennesima lotta di ricordi.                                                                                                                                                                                           
 –Nessuno ti farà del male-                                                                                                                                                   
    –Joe..-                                                                                                                                                                                            
    –Sei a casa- 


Ci sono demoni che non possiamo sconfiggere. Li nascondiamo nei cassetti, recessi della nostra mente, e cerchiamo di scappare. La vita è una corsa, ma non per scappare. Ci sono dei momenti in cui bisogna fermarsi, guardarsi dentro, affrontare la realtà, porci domande, darci risposte.  Quanti avvenimenti ci hanno segnato, ci hanno fatto piangere di dolore e di gioia,  quante ci hanno spaventato, o ci hanno segnato.  Io ho corso senza mai fermarmi, attraversando le strade della delusione, della gioia, della sofferenza, della felicità, con impeto e coraggio. Ho sentito la vita, assaporato la sua essenza, ho incontrato la morte, l’ho guardata degli occhi, ho provato il suo gelido vuoto.  Mi sono sentita preda, cacciatrice, vittima, assassina. I sapori di questa giostra della vita li ho provati tutti. Ho detto addio a persone che mi hanno cambiato la vita, e ne ho incontrate altre che mi hanno sconvolto. Ho lottato per la verità, ho lottato per difendermi, per uccidere, per proteggere, e per amore. Ho cercato di salvare la mia famiglia, coloro a cui tenevo, condannando me stessa.  Ho lottato per ciò in cui credevo, la speranza. Percorrendo i tempi della mia vita, che sembra continuamente sorpassarmi. Ho lottato per la speranza. Mi chiamo Hope. Hope come speranza.  E solo quella mi è rimasta. Per amore mi sono sacrificata, e per amore sto morendo. Per Joe. Dawn. Per tutta la mia famiglia. Qualche volta i demoni tornano a casa. Ci tormenteranno sempre, se continuiamo a fuggire. Bisogna affrontarli, altrimenti torneranno a farti visita quando sei più fragile, nei sogni, logorandoti e distruggendoti, pezzo per pezzo. Ed è proprio la notte, il momento in cui bisogna sconfiggerli. Qualche volta dobbiamo fermarci, in questa nostra folle e continua corsa. Bisogna guardarsi nell’anima, e riprendere in mano i cocci della nostra vita.
Mi chiamo Hope. E questa è la mia storia, di come ho ucciso, e sono stata uccisa.                                      
   
 
Parte 1: il paese.
Se un turista, come me a quei tempi, capitasse nel paesino sperduto a nord Italia,  chiamato Borgo Querciantica, di circa tremila abitanti,  farebbe subito retromarcia e se ne tornerebbe indietro. Non c’è assolutamente nulla al paese. È solo un pittoresco borgo che attira poeti e pittori, perché si trova in mezzo ad un boschetto, attraversato da un placido fiume.  Ciò a cui il borgo e i suoi abitanti tengono davvero, sono le leggende. Leggende di mostri, di eroi, di avvenimenti che s’intersecano in quella valle. Leggende che agli adulti, agli anziani, piace tramandare. Si raccontano nelle locande, tra un boccale e l’altro, si narrano davanti al fuoco ai bambini, nelle sere d’inverno. D’estate si tramandano sotto un portico all’ombra. Si ride, si piange, si ricorda. I ricordi. Questo è il più grande tesoro della valle.  La valle. Che come uno scrigno racchiude la cittadella e tutte le sue storie. Storie in cui c’è sempre un fondamento di verità.  Quando mi trovai a passare a Borgo Querciantica ero una ragazzina di dieci anni, gli occhi grandi, pieni di curiosità.  Non sapevo che quella sarebbe stata la mia nuova casa. Ci trasferimmo circa due mesi dopo. Odiavo quel luogo.  Eppure, dopo qualche sera, mentre passeggiavo, incurante del meraviglioso paesaggio che avevo sotto gli occhi, decine di pioppi, larici, querce, cespugli di bacche, e il rumore placido del fiume, mi accorsi che tutti i ragazzi correvano verso un albero, il più antico di tutti. Sorgeva in una piazzetta circolare, circondata dai negozi. Un albero antico, dove c’erano attaccate mille e mille lanterne. Guardando bene, mi accorsi che non erano lanterne, ma lucciole. Non avevo mai visto le lucciole, e ne rimasi incantata.  Tutti i ragazzi si riunirono intorno all’albero, chi tra i suoi rami, chi seduto, chi ai margini della piazza, falsamente disinteressato.  Accanto all’albero, annerito forse da un incendio, c’era un vecchio, che pareva avere la stessa età del massiccio tronco. Fumava una pipa, ed era sdentato. I ragazzi iniziarono a parlare tutti insieme –Ben, raccontaci una storia!- urlarono. Ben, questo era il nome dell’uomo, si guardò intorno. C’erano due sagome sullo sfondo della piazza. Non le distinsi bene, restavano nel folto dell’ombra, ma il vecchio s’illuminò. E prese a raccontare una storia, un’affascinante storia di draghi e di principesse. Rimasi estasiata dall’atmosfera che si era venuta a creare.  I ragazzi ascoltavano tutti, e l’albero.. sembrava brillare. Perdemmo la nozione del tempo, e quando la storia finì non ero per nulla stanca. Anzi, rianimata, di un’energia nuova. Tutti i si alzarono, e corsero di nuovo  via –Novellina- mi chiamò il vecchio Ben. Mi girai –Piace il villaggio?- mi dondolai da un piede all’altro. Non lo sapevo. Quella sera aveva radicalmente cambiato la mia opinione. Se mi giravo potevo vedere il drago volare nel bosco, con la principessa sul suo dorso, tanto quella storia mi aveva affascinata –No- dissi alla fine –Questo posto non mi piace. Catturami- dissi, con aria di sfida. Lui fece lo stesso sguardo che aveva fatto guardando le due figure alla fine della piazza. Sorrise, mettendo in mostra i pochi denti ingialliti.                                                                                                                                   
–Mi ricordi tanto qualcuno..-                                                                                                                                                  
 -Una principessa delle tue fiabe?- domandai sarcastica                                                                                             
   –Oh, no.  non una principessa. Una ragazza reale, che abitava questa valle-                                                
    -Quella che hai salutato prima?-                                                                                                                                     
     -Precisamente-                                                                                                                                                       
    -E’ una protagonista delle tue storie?- domandai ancora,  alzando un sopracciglio                          
-Oh, si. Lei è l’unica delle leggende che racconto, ad essere stata vista con i miei occhi. Io c’ero- Ben aspirò dalla sua pipa, e un’intensa boccata di fumo si librò nell’aria. 
 –Ed io ti ricordo lei.- lui annuì, ad occhi socchiusi. I grilli smisero di cantare. Qualche lucciola si fermò. Il fiume coprì i rumori della natura   
  –Sei cocciuta e testarda. Ma intrigante-  lo ammetto, fui compiaciuta da questa sorta di complimento  
  –Non era una delle tue principesse, eh?-   
    -No, no. Lei è una regina-  
  Cio che dissi dopo cambiò del tutto la mia opinione della valle, degli abitanti di quel posto.  Mi sporsi verso il vecchio, e sussurrai quelle tre parole a fior di labbra.
   -Raccontami di lei-     
 il vecchio sorrise   
–Si chiamava Hope-

 
-Hope! Hope!-    
  Dawn si guardò intorno: non era possibile, tutte le sere la stessa storia! S’infilò il soprabito, coprendo la camicia da notte, ancora estiva ed inadeguata in quella giornata di freddo ottobre, e corse fuori. Il grande giardino era immobile. Un venticello scuoteva le cime degli alberi. Dawn non aveva paura del buio, ma non poteva scacciare l’inquietudine 
   –Hope?- sussurrò. Vento. Silenzio. Un fruscio. 
-Hope lo so che sei lì, mi fai paura!- gridò Dawn, avanzando nell’erba carica di rugiada. Vicino il muro d’edera  si fermò. Oltre c’era il bosco, e la loro proprietà finiva una ventina di metri più in là.  
  –Hope..-  
   -DAWN!- 
Dawn urlò con tutta la forza, prima che la bambina che si era gettata giù dall’albero,  le tappasse la bocca  
    –Hope!- esclamò Dawn, furiosa, arrossendo per l’umiliazione    
     –Scusami, sorellina, non immaginavo che ti saresti spaventata- era veramente pentimento, quello che esprimeva Hope? Gli occhi scintillavano, per la gioia della fuga, e dello scherzo. 
  Le ragazze si guardarono, l’ una lo specchio dell'altra
   –Ok. Ti perdono- annuì Dawn, strofinandosi il naso con la manica. Hope era in pigiama, e aveva solo una giacca di jeans come soprabito.
–Comunque cosa volevi dirmi?- domandò. A quella domanda, Dawn si ricordò di colpo
–Oh, la storia! Muoviti!- esclamò, trascinandola in casa. Le due bambine si spogliarono velocemente, percorsero sussurrando il corridoio 
–Ti sei lavata i denti?-   
 -Si. Mamma è arrivata?-  
- No, non l’ho vista.-   
   -Presto, presto..-  corsero  a letto, e si infilarono sotto le coperte. Appena a tempo. Una donna entrò nella stanza, con in braccio una neonata paffutella  
–Allora, che storia volete sentire?-  domandò con dolcezza –Una bella!- una Nuova!- urlarono in coro le bambine. La loro madre sorrise –Vi  racconterò della storia dei vostri nomi- mormorò dolcemente. Le due bisbigliarono estasiate. I loro nomi erano strambi. Erano inglesi. Ma loro erano in Italia. Era questo che le rendeva diverse, i loro nomi erano unici, e loro ne andavano fiere, quando nell’appello, al posto delle decine di “Francesca” “Giovanni” e “Chiara” sentivano i loro nomi, che non potevano essere confusi. La donna, la loro madre, cominciò a raccontare
-C’era una giovane donna, libera ed indipendente. Amava la vita, e sognava grandi cose. Un giorno conobbe un uomo, un giovane soldato molto simpatico e giovale. Un americanotto, come si suol dire. In effetti lui era americano, ma parlava bene anche l’italiano. La ragazza s’innamorò follemente, e decise di sposarlo, a dispetto della sua professione che lo avrebbe tenuto lontano per molto tempo. La coppia era felice, non gli mancava nulla. A parte..
-A parte?- sussurrò Dawn, incantata. Adorava le storie d’amore.                                                                   
      -Sta zitta!- sibilò la sorella, dandole una spintarella
A parte per il fatto che lei non poteva avere figli. Lo desiderava con tutto il suo cuore, ma non poteva. Il soldato le disse di non preoccuparsi: lui l’avrebbe amata per sempre. Per dimostrarglielo, la portò a fare un viaggio nella città più bella che la ragazza avesse mai visto. Si chiamava.. Londra.  Lei ne rimase estasiata. C’era di tutto e di più.  Un posto la affascinò in particolare: c’era un quartiere, dove delle persone vendevano strane cose. La ragazza, passeggiando lì per caso, incontrò un’anziana donna. Quella donna le disse che avrebbe avuto tanta felicità, che i suoi desideri si sarebbero realizzati. Però avrebbe avuto bisogno di un grande coraggio. Doveva proteggere la sua famiglia. Tutta. Lei lo promise. Non fece in tempo a tornare a casa, che aspettava una bambina. Le sembrò un miracolo, pianse di gioia.  Decise di chiamarla Dawn, Alba. L’alba di una nuova epoca. L’alba di ciò che sarebbe stata una vita insieme, Alba di una famiglia.  Ma.. al terzo mese, si scoprì qualcosa di sconcertante: la bambina non era sola. C’era una gemella. E quella gemella, sembrava compromettere la sua stessa vita, e quella di Dawn. La donna giurò alle sue bambine, che se si fossero salvate, se fossero riuscite a vivere, lei le avrebbe protette. Sempre.  Le bambine si salvarono. La donna riuscì a partorire, anche se con enorme fatica, la sua Dawn, e la sorella. Solo quando l’ebbe tra le braccia decise di chiamarla Hope. Hope significava Speranza. La speranza che l’aveva guidata per tutto quel tempo. Quella che non aveva perso, e che aveva salvato entrambe. L’alba e la speranza. Questi, bambine, sono i vostri nomi. È quanto vi amo.
La donna spense il braciere e mormorò –Buona notte tesori- le bambine dormivano.  Le guardò. La sera non si notava quasi la differenza. Entrambe avevano i capelli neri. Entrambe avevano la pelle bianca. Ma l’unico modo per distinguerle, oltre il carattere, erano gli occhi. Dawn aveva gli occhi verde brillante, come l’erba illuminata dal sole mattutino. Hope.. gli occhi di Hope potevano sembrare identici a quelli della sorella, ma erano scuri. Un verde brillante, certo, ma brillante come una stella nella notte.  La donna sospirò, e spense la luce.                                                                                           
   –Hope sei sveglia?-                                                                                                                                                 
    -Si. Dawn, un giorno ti porterò a Londra-                                                                                                                           
   -Dici sul serio?-                                                                                                                                                                              
   -Si. Sarà il nostro sogno segreto-
 
Hope e Dawn dormivano, silenziosamente.                                                                                           
     Il loro respiro era costante, rotto solo dai sommessi rintocchi della pendola presente nella stanza.                                                                                                                                                                           
  Hope e Dawn erano gemelle.                                                                                                                                   
 Gemelle nate dalla sofferenza, che avevano rischiato la morte più volte, e amavano la vita.           
Hope e Dawn erano migliori amiche, non potevano volersi più bene.                            
Tradire l’una, sarebbe stato per l’altra come tradire se stessa.  
Hope e Dawn non potevano essere più identiche. 
  Entrambe avevano capelli neri, lisci e leggermente mossi,  carnagione chiarissima, occhi verdi.  
   Ma Hope e Dawn non potevano essere più diverse. 
  E ben presto qualcosa le avrebbe divise, segnando le loro vite.
Per sempre

 
 
   
 
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