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Autore: Darik    01/06/2008    2 recensioni
Era fuggito dal suo passato. Ma il destino ha voluto che tornasse in una circostanza particolare. Nota: il protagonista è un personaggio di mia invenzione.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL MOTIVO PER CUI L'HO FATTO

Il sole mi ferisce gli occhi.

Filtra tra le fessure della finestra.

So che è tardi, me l’ha da poco segnalato la sveglia.

Eppure mi disturba assai l’essermi svegliato.

Stavo dormendo cosi bene.

Stavo pure facendo un sogno, che non ricordo molto, ma ho la netta impressione che fosse qualcosa di piacevole.

Ma ormai è inutile recriminare, sono le nove passate e tra poco il sole inonderà la stanza.

Quindi tanto vale alzarsi ed uscire.

Attraverso il piccolo soggiorno ed entro nel bagno.

Continuo a stupirmi che in questo villaggio che sembra dimenticato da Dio, ci sia l’acqua corrente.

Qui tutto sa di vecchio: larga parte degli abitanti sono vecchi, e indossano vestiti vecchi, molti di tipo tradizionale.

Anche la maggior parte della case sono realizzate in vecchio stile, l’economia locale vive soprattutto di coltivazione del riso, e parecchie strade sono in terra battuta.

Non c’è un cinema, una sala giochi, sono poche le macchine, di pullman ce n’ è uno solo, che passa solo una volta a settimana.

Se non fosse per la zona centrale, l’unica con lampioni e un locale moderno, tra l’altro molto attraente grazie alle sue cameriere, questo villaggio sembrerebbe rimasto fermo all’epoca Meiji.

Ma del resto, questa è gente arretrata che ha esplicitamente rifiutato il progresso, e non vedo l’ora di andarmene da qui.

L’acqua sulla faccia è bella fresca, però mentre mi asciugo, avverto uno strano formicolio alle dite.

Improvviso, non fortissimo, anzi, ma abbastanza fastidioso perché continuo.

Spero che in quest’acqua non ci sia qualche germe chimico.

Mi vesto rapidamente, e scendo nella piccola hall.

“Signor Masui, vuole far colazione?”

L’anziana signora che sta dietro il bancone mi guarda con un sorriso di cortesia che ha qualcosa di strano.

“No grazie, penso che mangerò qualcosa più tardi. Ah, avete riparato il telefono?”

“Purtroppo no. Il tecnico potrà venire solo domani”.

Mi volto per non far vedere la mia espressione irritata: in città un tecnico lo si sarebbe trovato subito.

Esco dalla piccola pensione e salgo sulla mia macchina, parcheggiata in quella specie di garage, ovvero un prato ricoperto con una tettoia, ovvero un largo pezzo di lamiera dai bordi contorti e arrugginiti.

Mi sembra un miracolo che la notte non sia caduto addosso alla mia auto.

Salgo e mi dirigo verso il centro del villaggio.

La pensione, e la strada, sorgono in una zona molto isolata, circondata da monti pieni di boschi, risaie e piccole pianura verdeggianti.

E’ quello che molti definirebbero un piccolo paradiso naturale.

Su questo posso concordare, ma non riesco ad apprezzarlo perché ha un difetto naturale: a cosa serve? Tutta questa natura rigogliosa, che utilità può mai avere per l’uomo?

Se l’uomo avesse davvero avuto bisogno solo della natura per vivere, allora perché avrebbe sviluppato tutte le sue tecniche?

L’intelligenza serve per costruire, limitarsi a vivere con la natura che fornisce il minimo indispensabile, è veramente uno spreco di energia intellettiva.

E in questo spreco, gli abitanti di questo villaggio sono dei veri campioni.

BANG!

Il rumore mi fa sussultare.

Rischio di sbandare, ma riesco a fermarmi appena in tempo, prima di far conoscere il muso della mia macchina ad un grosso albero.

Scendo e controllo i danni, sperando ardentemente che non sia una gomma bucata.

Non vengo esaudito, anzi, la ruota anteriore destra non è solo bucata, ma proprio lacerata, mezza distrutta.

Come se fosse saltata sopra una piccola mina.

O fosse stata colpita da un proiettile di grosso calibro.

Do un occhiata alla strada dietro di me, il terreno non sembra aver lasciato tracce del colpevole.

Qualche superstizioso potrebbe pensare alla vendetta di qualche divinità, magari della natura stessa, contro un miscredente che non la apprezza.

Per me è solo una dannata sfortuna, acuita dal fatto che attualmente sono senza gomma di scorta.

E con la ruota in quel modo, non posso né tornare alla pensione né raggiungere il centro, con l’auto.

Non mi resta che farmela a piedi, alla ricerca di un telefono.

Che perdita di tempo.

Più cammino, più la mia irritazione cresce.

Sono cosi abituato alle cose fatte bene in modo svelto, che l’andare lentamente mi secca assai.

E in questo buco di villaggio, dubito che ci sia un meccanico.

Chissà quanto dovrò attendere per un carro attrezzi!

“Aspetta un attimo, non ce la faccio più!”

“Coraggio, non possiamo fare troppo tardi. La maestra è comprensiva, ma non fino a questo punto”.

Le due voci che sento, provengono da una curva che sta proprio davanti a me.

La giro e vedo due graziose bambine, una con i capelli scuri e lunghi, l’altra bionda con i capelli corti, che arrancano sotto il peso di cartelle troppo pesanti.

Non avendo niente da fare, e vista la loro età, trovo doveroso aiutarle.

E nonostante il continuo formicolio alle dita, le muovo senza problemi.

“Ehi piccoline, volete una mano?”

La mia domanda le fa sussultare, si girano e mi guardano sospettose.

Posso capirlo, lo farei anche io se fossi un bambino che si trova davanti uno sconosciuto.

“Chi sei tu?”

La bambina bionda usa un tono piuttosto adulto, anzi duro.

Un po’ mi infastidisce che non mi dia del lei.

Quella con i capelli lunghi invece prima mi squadra dall’alto in basso, poi mi sorride.

“Si, il suo aiuto ci sarebbe davvero utile. Dobbiamo arrivare in tempo a scuola”.

Velocemente toglie la cartella alla sua amica e la da a me insieme alla sua.

“E’ lontana la vostra scuola?”

“Ad un chilometro di distanza, sempre dritto” risponde l’intraprendente bambina.

Forse pure troppo intraprendente, non vorrei che volesse approfittare troppo della mia gentilezza.

Ci avviamo insieme.

La bambina bionda cammina lentamente, stando dietro di me.

Ed è come se sentissi il suo sguardo dietro la nuca.

Mi infastidisce, ma sopporto.

L’altra bambina invece cammina con passo svelto e allegro.

“Ehi signore, io sono Rika. E la mia amica è Satoko. Ma lei chi è? Non mi sembra di averla mai vista prima di ora”.

“Io sono Masui. E non mi conosci perché non abito qui, anche se ci sono nato”.

“Eh? Davvero?”

“Si, ho lasciato questo villaggio quando ero molto piccolo, insieme a mia madre”.

“Ed è tornato per restarci? Mi piacerebbe, lei ha una faccia molto simpatica”.

“Ti ringrazio… Rika. Ma sono venuto qui solo per affari, domani o al massimo dopodomani, torno a Tokyo”.

“Oh, che peccato”.

Il dispiacere di Rika mi sembra davvero sincero.

Strano, dato che ci conosciamo solo da qualche minuto.

Eppure anche io le ho fatto una piccola confidenza, ed è strano.

Già non sono solito parlare dei fatti miei con gli sconosciuti.

La mia origine in questo posto, poi, mi da un fastidio che una volta andai all’anagrafe per chiedere, inutilmente, se era possibile cambiare i dati sul mio luogo di nascita.

Ma mi sarò aperto leggermente con lei perché è una bambina.

Cosa potrà mai farci una bambina con una mia notizia personale?

“Siamo arrivati” dice Satoko, sempre impassibile.

La scuola è un edificio costruito soprattutto in legno, ad un solo piano, che si trova sulla sinistra della strada principale.

Dalle dimensioni, e tenuto conto del numero di abitanti, direi che non ospita molte classi, forse solo una.

Satoko mi strappa di mano la sua cartella e prosegue verso l’edificio senza degnarmi di una parola o di uno sguardo.

Che maleducata!

Rika invece mi si para davanti, mi fa un inchino e mi regala uno splendido sorriso.

“Scusi per Satoko, prova troppa diffidenza verso gli estranei. Allora, addio signor Masui. Mi dispiace che non potremo fare amicizia”.

“Dispiace anche a me. Ti auguro buona giornata, Rika”.

Rika mi saluta agitando la mano, mentre io proseguo in avanti per la stessa strada.

Dopo un po’ mi volto, e Rika, ormai lontana, è ancora lì a salutarmi.

Lusingato di aver fatto colpo su di lei, ma dovrebbe avere almeno venti anni in più.

Continuo a camminare, e il caldo si fa insopportabile.

Più volte, per lavoro, sono andato in California.

Una volta anche nel deserto del Gobi.

Ma il caldo che c’è qui mi sembra nettamente peggiore.

Mi sbottono la camicia e cerco qualche albero che possa darmi un’ombra decente.

Ne vedo uno, ed è una doppia fortuna.

Perché appena lo vedo, il formicolio delle mani comincia a martellarmi anche i piedi.

Anche stavolta, non è nulla di forte o doloroso.

Però è continuo e molto fastidioso.

Mi appoggio all’albero, mi tolgo una scarpa e mi massaggio un piede in cerca di sollievo, senza riuscirci.

“Prima le dita della mani, ora i piedi. Non mi starà mica venendo qualcosa?”

Alla mia domanda mi auguro che non sia cosi.

In questo posto sperduto non ci sono ospedali, c’è solo un medico. E chissà dove si trova.

Proprio allora sento un rumore che difficilmente mi sarei aspettato: dalla direzione opposta alla mia, giunge il rumore di un motore.

E sembra pure un motore di grossa cilindrata.

Infatti ecco sbucare una macchina, una berlina nera, pure di buona marca, tenuta benissimo.

Forse posso chiedere un passaggio fino al medico e alzo il pollice.

L’auto si ferma e il finestrino del passeggero si abbassa.

“Le serve aiuto?” mi domanda una splendida adolescente con lunghi capelli castani con indosso un maglione bianco a collo alto.

“Temo di si. Prima ho forato con l’auto restando a piedi, e ora penso di dover andare dal medico. Potreste darmi gentilmente un passaggio?”

“Un passaggio dal dottor Irie? Ma certamente”.

Il guidatore invece, un uomo dall’aria parecchio dura, non sembra altrettanto d’accordo.

“Signorina Shion, non credo che…”

“Oh, smettila di essere cosi pignolo. Un passaggio non ha mai ucciso nessuno” replica la giovane chiamata Shion.

“Se volete, posso pagarvi il passaggio” propongo speranzoso.

“Ma si figuri. Salga pure”.

Non me lo faccio ripetere due volte e salgo a bordo.

Quando mi siedo, mi sento come a casa.

Prima, in mezzo a quel nulla naturale, mi sembrava di essere un pesce fuor d’acqua.

Ora, a bordo di un auto simile a quelle cui sono abituato, mi sembra tutto a posto.

Persino i miei formicolii mi sembrano più sopportabili.

Il benessere però non dura a lungo.

Perché tramite lo specchietto retrovisore, mi accorgo di essere scrutato dal guidatore.

Cioè, i suoi occhi non li vedo, perché coperti da occhiali nerissimi, neri come la sua barba e i suoi baffi.

Tuttavia sento che mi fissa, proprio come quella Satoko poco fa.

E se già l’essere fissato mi infastidiva prima, ora che a farlo è un tizio dal look simil-yakuza, mi sento un po’ inquieto.

Ritengo comunque che sia utile cercare di rompere il ghiaccio.

“La ringrazio molto lei e sua figlia per il passaggio, signor…”

La ragazza di nome Shion comincia a ridere, una risata alquanto solare.

“Oh no, lui non è mio padre. E’ il mio accompagnatore tutto fare” mi spiega.

Provo un certo imbarazzo.

“Mi scusi”.

“Non fa nulla” risponde Shion.

Il paesaggio scorre monotono fuori dai finestrini.

Cerco di rompere la monotonia.

“Cosa vi porta qui?”

Shion si gira e mi guarda perplesso.

“In che senso, scusi?”

“Che cosa vi ha portato in questo posto. Da dove venite?”

“Oh bella, siamo qui perché è qui che abitiamo”.

“Voi siete di qui?”

“Fino a prova contraria”.

Resto davvero sbalordito: dunque anche in questo villaggio antiquato ci possono essere altre sorprese, oltre all’acqua corrente.

Questa novità però, mi inquieta anche.

Da dove avrà origine tutto questo?

Non sarà che…

Mi guardo intorno, e pur essendo nato qui, non ricordo niente di niente, non so affatto se stiamo facendo la strada giusta per andare da questo dottore.

Mi viene da chiedermi se ho fatto bene a fidarmi.

Questa Shion sembra simpatica, ma il suo accompagnatore pare davvero un gorilla della Yakuza.

Non è che mi hanno teso un tranello?

In fondo mi hanno offerto il passaggio troppo facilmente.

E inoltre, è stato un caso che siano passati di qui, oppure no?

Magari la gomma della mia auto è esplosa perché le hanno veramente sparato.

Questa gente in passato ha dimostrato di essere capace di reazioni anche violente.

E avrebbe i suoi motivi per avercela con me.

All’epoca non mi feci vedere qui, ma ci sono altri modi in cui potrebbero aver scoperto chi sono.

Alla fine rompo il silenzio con una leggera risata.

“Perché ride?” mi domanda incuriosita Shion.

“Niente, stavo pensando a delle sciocchezze” rispondo a lei e anche a me stesso.

Il fatto che questo posto non mi piaccia, non deve spingermi a diventare paranoico.

“Siamo arrivati” avverte l’autista.

L’ambulatorio è un edificio dalle pareti bianche, ed è costruito in modo moderno, per mio sollievo.

Spero solo che il dottore sia qualificato, e non sia un vecchio rimasto fuori dal mondo.

Scendo dall’auto, e ringrazio i miei accompagnatori.

“Siete stati gentilissimi, e mi scuso per avervi disturbato”.

Shion si sporge dal finestrino regalandomi un sorriso divertito e gentile: “Non è stato nulla di particolare, non si preoccupi. Be, addio signor Masui”.

Non faccio in tempo a cambiare espressione e ad aprire bocca, che l’auto già è partita.

Quello strano autista sembra aver fretta, pure troppa fretta, dato che riesco a sentire Shion lamentarsi per la partenza troppo brusca.

Quando l’auto è sparita, mi sento sollevato.

Perché il fatto che Shion conoscesse il mio cognome mi ha fatto tornare alla velocità della luce tutti i dubbi paranoici di poco prima.

E se lo avesse detto mentre ero ancora a bordo, mi sarei davvero sentito come un topo in trappola.

Mi guardo intorno, il piazzale è deserto, non c’è nessuno appostato pronto a saltarmi addosso.

Mi do dell’idiota per la paranoia che sembra assalirmi.

Sono o non sono una persona razionale?

Ci sono tanti modi in cui può aver conosciuto il mio nome, come quando ti telefonano a casa persone che non conosci, e che hanno avuto il tuo numero da tuoi conoscenti.

Non deve per forza essere dovuto a ciò che feci, anzi, volevo fare, anni fa.

Entro nell’ambulatorio, deserto.

Mi sembra un brutto inizio per valutare la qualità del posto: almeno un portinaio dovrebbe esserci.

“Ehi, c’è nessuno?”

“Si, eccomi” risponde qualcuno.

Da una stanza esce una persona giovane, sembra un mio coetaneo, con i capelli castani e gli occhiali.

Dato il camice, mi sembra che sia lui il dottore che cerco.

“Le serve qualcosa? Sono il dottor Irie”.

“Vorrei effettuare una visita di controllo” gli spiego dicendogli anche il mio nome, piacevolmente colpito dalla sua aria giovane e professionale.

“D’accordo, venga pure”.

Il dottore mi invita nel suo studio, molto simile a quello dei medici di città.

Mi fa sedere sul lettino e mi pone domande sulla mia salute e sui sintomi.

Gli dico degli improvvisi e fastidiosi pruriti alle mani e ai piedi, e che non ho mai sofferto di problemi fisici, non fumo e non bevo mai in eccesso. E non sono allergico a qualcosa.

Lui mi dice di togliermi la camicia, mi controlla con lo stetoscopio il cuore e le spalle, poi verifica la mia pressione e i miei riflessi.

Controlla infine le mie mani e anche i piedi, tastandoli.

“Guardi, signor Masui, a prima vista lei non ha niente, la sua salute è di ferro. L’unica spiegazione che trovo al suo formicolio potrebbe essere l’origine nervosa. Ma certo non posso dirle cosa l’ha scatenato. E dato che non mostra altri sintomi, le direi di aspettare un giorno o due. In caso contrario, dovrà farsi visitare da un dottore meglio attrezzato, da città insomma”.

“Capisco” rispondo abbastanza sollevato.

Mi rendo conto che il suo modo di fare non è da campagnolo.

“Dottore, lei è originario di qui?”

“No, mi sono trasferito qui da poco”.

Anche questa notizia mi solleva sulla validità della sua diagnosi.

Sto per chiedergli quanto gli devo per la visita, e cosi mi accorgo che mi fissa intensamente.

Pure lui! Sta diventando un hobby seccante!

“Però, perdoni se mi permetto, ma lei è di qui?”

La domanda mi spiazza un po’.

“Sono nato qui, ma non ci abito da molto tempo”.

“Vede, tra i miei anziani pazienti c’era un signore, da pochissimo deceduto, che le somigliava davvero parecchio. Aveva anche il suo stesso cognome. Prima ho pensato ad una omonimia, ma ora che la vedo bene in faccia…”

Faccio subito due più due.

“Era mio padre, e sono venuto qui per il suo funerale. Un ultimo saluto”.

“Capisco. Le faccio le mie condoglianze. Immagino che per lei sia stato doloroso, suo padre era una cosi brava persona”.

“Niente affatto, almeno per quanto mi riguarda”ribadisco nettamente.

Il dottor Irie mi guarda stupito.

So bene che cosa gli stona, essendo un particolare che mia madre mi sempre raccontato.

Forse non dovrei dirglielo, le mie paranoie mi avvertono alla lontana che è meglio tacere, ma non posso farlo quando dicono che provavo affetto per quel tizio.

“Le assicuro, caro dottore, che mio padre è stata una persona per la quale non ho mai provato nulla. Ha solo rovinato la vita mia e di mia madre. So bene che qui era molto rispettato e amato, per lungo tempo è stato persino capo del villaggio. Ma per me era solo un porco, che ha abbandonato me e mia madre, anzi, ci ha scacciati, per via della sua reputazione. Non voleva accettare come moglie una donna molto più giovane di lui, nonostante avessero già avuto un figlio. Ha rovinato la vita di mio madre. Per tirare avanti entrambi da sola, ha finito col morire prematuramente. Per questo non potrò mai perdonarlo! Il mio ultimo saluto è consistito nello sputare sulla sua tomba!”

Mi accorgo di essere stato di una brevità brutale.

Devo aver pure gridato.

Irie mi guarda stupito e perplesso.

Non sembra scandalizzato, ma solo perché non è originario di qui.

Un vero abitante del luogo probabilmente se ne sarebbe andato turandosi le orecchie.

Dovrei scusarmi per quello sfogo, ma proprio non ci riesco.

Non ci vedo nulla di male nel far capire che odiavo quel bastardo, anche se forse sono stato troppo dettagliato.

E ora che l’ho fatto, posso calmarmi.

“Allora, quant’è per il disturbo?” domandò nuovamente rilassato.

“Niente, una semplice visita è gratis”.

“Molto bene allora. Ha un telefono? La mia macchina ha forato e devo chiamare un carro attrezzi”.

“Un telefono lo avrei, ma è rotto. Verranno a ripararlo domani. Ne può comunque trovare uno che funziona in centro”.

“Lo so, stavo andando proprio lì. Allora addio, dottore, e grazie di tutto”.

Esco dall’ambulatorio, e solo allora mi accorgo che il centro del villaggio è scomparso.

A quanto pare il punto in cui mi trovo io si trova dietro una delle montagne che circondano il villaggio.

Che fare?

Il telefono non c’è, Irie non sembra avere la macchina, ma anche se l’avesse, non posso certo chiedergli di farmi da tassista.

L’unica cosa che posso fare allora, è sopportare questi dannati formicolii e incamminarmi cercando di ricostruire mentalmente il percorso fatto con la macchina di Shion.

Il tentativo è logico, ma il risultato è disastroso.

Appena lasciata la stradina che conduce all’ambulatorio, non riesco più a ricordarmi se venivo da est o da ovest, e in lontananza, tra i boschi, intravedo altre strade e sentieri che potrebbero essere giusti oppure no.

Neanche il paesaggio aiuta, perché per chilometri vedo sempre e solo boschi tutti uguali.

Dannazione! Ma come ho potuto perdermi?

Neanche fossi un bambino delle elementari!

A questo punto non mi resta che seguire la strada principale, in attesa di qualche passaggio.

Durante il cammino, la strada si affianca ad un fiume, piuttosto largo. E ad un tratto quel paesaggio mi diventa familiare, anche se sento trattarsi di un ricordo non recente.

Il perché lo capisco quando giro una curva, e la vedo.

La mia più grande creazione incompiuta.

La mia diga.

Quello che avrebbe dovuto essere il bacino, si staglia ora davanti a me trasformato in una discarica di rottami.

Avrebbe dovuto essere una delle più grandi dighe del Giappone, avrebbe dovuto rifornire di energia elettrica l’intera regione.

Ma questi bifolchi sono riusciti ad impedirne la costruzione.

Maledetti!

Il mio capolavoro!

“Signore, ehi signore!”

Una squillante voce di ragazza mi fa prima guardare intorno, poi in basso.

Tra i rottami c’è una ragazzina con un vestito bianco.

“Signore” mi ripete “potrebbe scendere ad aiutarmi?”

“A fare cosa?”

“C’è un oggetto che voglio recuperare assolutamente. La prego!”

Data la mia situazione, non dovrei perdere tempo, ma potrei chiedere a quella ragazzina di riaccompagnarmi alla civiltà. E per farlo, è ovvio che prima devo aiutarla.

“D’accordo, ora scendo”.

Seguendo le sue indicazioni, raggiungo il sentiero che porta in fondo alla discarica.

“La ringrazio tantissimo, signor…”

“Masui”.

“Masui? Che carino! Io sono Rena”.

Sorrido un po’ imbarazzato, è la prima volta che qualcuno trova carino il mio cognome.

“Allora, signor Masui, lei tenga sollevata questa lamiera, mentre io prendo quello che cerco”.

Questa Rena solleva una grossa lamiera che un tempo doveva essere stata un cofano, io lo sorreggo come meglio posso mentre lei si infila sotto.

La lamiera mi copre la visuale, non vedo cosa sta facendo, la sento solo smuovere una gran quantità di rottami.

“Evviva! Evviva! L’ho trovato!!”

“Che cosa?” chiedo fingendo un po’ di interesse.

La ragazza sguscia fuori, con in mano un orsacchiotto di pezza.

“Bellissimo! Alla mia collezione di orsetti me ne mancava proprio uno grigio!”

Non so se mi conviene ridere davanti alla vista di una ragazza sui quattordici anni che saltella come una bambina del’asilo e abbraccia, baciandolo, un vecchio orsacchiotto sporco e pure rotto.

“Scusa, ma non facevi prima a comprarlo nuovo?” le domando mentre mollo il rottame.

“Oh no! Io gli ho promesso che avrei scelto lui, e cosi ho fatto”.

“Come glielo hai promesso?”

A questo punto mi chiedo anche se ho davanti una ritardata.

“Il giorno in cui l’ho visto per la prima volta in mezzo a questi rottami. Gli dissi: Non preoccuparti, mi prenderò cura io di te. Ti ricucirò il petto, ti rimetterò l’occhio e la coda e ti pulirò per bene.”

Si, temo proprio che sia una ritardata.

Ma non sono comunque affari miei, devo raggiungere il centro.

“Senti, signorina, ora che ti ho aiutato, che ne dici di indicarmi la strada per il centro?”

“Volentieri. Però prima devo finire il mio giro qui. Non posso certo sprecare le opportunità che offre questa stupida diga”.

Ho un sussulto.

“E cosa avrebbe di stupido?” domando alquanto indignato.

Una vocina mi dice che non ha senso prendersela.

Decido di ignorarla.

“Il fatto che per costruirla si voleva evacuare il mio villaggio. Rovinare questo paradiso per sostituirlo con dell’acqua trattenuta da colate di cemento. Un vero spreco”.

“Lo spreco è stato il non costruirla!”

Rena non sembra sorpresa dalla mia reazione.

Anzi, sostiene il mio sguardo con decisione.

Sembra quasi un'altra persona.

“Io ricordo ancora cosa dicevano gli esperti che avevamo contattato. Quella diga era assolutamente inutile, non c’era motivo di costruirla”.

“Bugiardi! Il motivo c’era eccome!”

“Ovvero?”

“Perché….”

Mi fermo.

Non perché non conosca il motivo.

Ma perché è un qualcosa che finirebbe per darle ragione.

Potrei dirle il cumulo di sciocchezze detto ai ministri per convincerli.

Quelli ti danno qualsiasi cosa se gli dici che gli farà guadagnare voti.

Invece questa ragazzina, ha una strana luce negli occhi.

Non si berrebbe le mie bugie.

Allora non dico niente e me ne vado.

Sento il suo sguardo dietro di me, ma me ne frego.

Mi lascio alle spalle il mio fallimento, mi incammino senza sapere dove sto andando.

Non mi interessa più andare nel centro di questo dannato paese.

Non mi interessa che il sole stia tramontando e che forse questi luoghi sperduti non sono adatti per passeggiate serali di viandanti smarriti.

Ho smesso di preoccuparmi anche di questi continui formicolii.

Voglio solo andarmene.

Lasciarmi tutto alle spalle, dimenticare quello che dovrebbe essere mio padre, recarmi in visita ad un’altra tomba, quella di mia madre, e dirle che il bastardo che ha preferito questo dannato villaggio a noi due, sta marcendo all’inferno.

Lei non può saperlo, perché è andata in paradiso, un luogo diverso da quello dove adesso sta sicuramente soffrendo lui.

Sento il rumore di una macchina che arriva da dietro di me.

Speriamo che non sia di nuovo Shion.

Non ne posso più degli abitanti bastardi di questo posto.

Per non correre rischi, decido di non fare l’autostop.

Tuttavia l’auto, si affianca comunque a me e si ferma.

“Salve, le serve un passaggio?”

L’autista è una splendida ragazza dai lunghi capelli biondi.

Vederla mi fa restare per il momento senza fiato.

“Ho chiesto se le serve un passaggio”.

“Uh… ehm… ecco, forse si, ma lei non è di qui?”

“No, ci lavoro soltanto. Perché me lo chiede?”

“Semplice curiosità. In effetti un passaggio mi servirebbe. Dove è diretta?”

“Adesso sto andando ad un appuntamento con un amico. E poi devo dirigermi in centro”.

“In centro? Allora un passaggio mi serve davvero”.

Cerco di razionalizzare, di ricordarmi che prima di andarmene di qui, devo recuperare la mia auto.

Salgo a bordo, l’auto parte.

“Visto che dovremo fare un po’ di viaggio insieme, tanto vale presentarci. Io sono Takano Miyo”.

“E io sono…”

“Lo so già. Lei è l’ingegnere Masui”.

“Eh? Come fa a saperlo?”

“Conosco molto bene la storia di questo villaggio. E allo stesso tempo, conosco molto bene gli ambienti della capitale. Lei è l’ingegnere che ha progettato la diga, giusto?”

“Be, si”.

“Eh, sa, a volte mi fermo a guardare la diga, e penso allo spreco: tutti quei soldi, tutte quelle aspettative.. rovinate da persone che non sanno cosa sia il progresso”.

Le sue parole trovano la mia piena approvazione.

“Ha ragione. Certa gente ignorante non capisce proprio il progresso”.

“Infatti. Però a volte le cose non sono come sembrano”.

“Cosa vuole dire?”

Takano mi guarda e sorride, un sorriso alquanto sornione e strano.

“Lei dovrebbe saperlo meglio di me. Davvero una popolazione di appena duemila persone può bloccare la costruzione di una diga in cui il governo ci ha speso milioni? Non è proprio impossibile, ma sembra anche poco verosimile. E’ se invece fossero stati aiutati da qualcuno?”

“Non… non la seguo…”

“Ci sono tanti modi per fermare una costruzione come quella. Atti di sabotaggio, corruzione, oppure… un rapimento. Magari di qualcuno importante per gente importante”.

Guardo questa Takano in modo strano: perché ha attaccato questo discorso?

Mi vuole prendere in giro?

O vuole dirmi qualcosa?

“Pensi questo: se avessero rapito, che so, il figlio del ministro per i lavori pubblici, non crede che sarebbe stato un ottimo motivo per spingerlo a sospendere i lavori? Se questo figlio fosse stato solo un bambino, rapirlo sarebbe stato facilissimo. Cosi come il portarlo in un luogo nascosto, magari tenendolo in un bagagliaio”.

“Insomma, si può sapere cosa sta dicendo?!”

Takano scoppia a ridere, una risata che ha un che di infantile.

“Oh, mi scusi. E che quando penso alla mancata costruzione della diga, mi vengono sempre in mente strane idee. Mi scusi ancora”.

“Non… non fa niente”.

Mi sforzo di credere che sia solo una persona che lavora troppo di fantasia.

Nel frattempo vedo che stiamo arrivando davanti a quello che sembra l’ingresso ad un tempio.

“Sa, stanotte ci sarà una festa, anzi, la più importante festa del paese, dedicata alla sua divinità protettrice, Oyashiro Sama. E io devo fare da guida ad un fotografo free lance”.

“E in un posto come questo, cosa ci trova di interessante?”

“Be, studia la leggenda di Oyashiro Sama, che tra l’altro è diventata negli ultimi anni ancora più interessante. Tra le tante storie che la compongono, adesso si è aggiunta quella secondo cui ogni anno, in prossimità della festa, delle persone favorevoli alla costruzione della diga, una scompare e l’altra muore”.

“Inquietante” dico sorpreso, anche se la mia sorpresa è dovuta più all’apprendere che tra gli abitanti del luogo c’erano anche quelli favorevoli alla mia diga.

Probabilmente non l’ho mai saputo perché doveva trattarsi di una minoranza che ha rischiato spesso di essere linciata da quegli idioti dei loro compaesani, preferendo quindi non dare nell’occhio.

“In realtà” riprende Takano “non si hanno molte certezze su quest’ultimo fatto, che sembra molto una leggenda urbana. In passato ci sono state delle morti, ma nessuno è riuscito a collegarle alla diga o ad Oyashiro Sama. E’ stata la voce popolare ad abbellire parecchio dei fatti reali”.

“Capisco”.

Questo discorso mi inquieta assai.

Non credo nelle leggende, e tanto meno nelle divinità protettrici, ma i timori su quello che questa gente potrebbe farmi se dovesse scoprire chi sono,tornano alla grande.

Non vedo l’ora di andarmene domani.

“Ah, ecco Tomitake. Vuole venire con noi?”

“No, grazie, preferisco aspettare in macchina” rispondo gentilmente, in realtà preferisco non farmi vedere troppo in giro.

“Allora io vado, cercherò di non farla aspettare troppo, signor Masui”.

Takano scende dall’auto e si dirige verso un ragazzo con gli occhiali, che più o meno ha la mia età.

Li vedo allontanarsi.

Mi metto ad aspettare, ma dopo un po’ non ne posso più di stare chiuso in macchina.

Senza contare che questi maledetti formicolii sembrano aumentati.

Scendo, e non so perché, mi avvio lungo la scalinata che conduce al tempio di Oyashiro Sama, mentre ormai si è fatto sera.

Salgo i gradini, guardandomi intorno, e vedendo solo boschi.

Infine arrivo davanti al tempio, non molto diverso dai tanti templi e tempietti che si trovano in Giappone.

Lì dentro ci sarebbe la divinità protettrice di questo posto.

E’ solo una stupidaggine.

Eppure glielo chiedo.

“Perché?”

Mi risponde un lieve vento.

“Perché l’hai fatto? Perché hai protetto Hinamizawa dalla mia diga e non hai protetto me e mia madre quando siamo stati scacciati da mio padre, che temeva di suscitare uno scandalo davanti ai suoi compaesani?”

Credo di stare impazzendo.

E nonostante questo, continuo: “Perché loro si e noi no?”

“La stessa domanda si potrebbe fare a te”.

Sobbalzo, e dall’ombra esce una ragazza.

Mi guarda con occhi duri.

“Chi? Ma tu sei… Shion…”

“No” risponde lei.

E ha ragione: come volto e corporatura è identica, ma la voce è diversa. Anche il modo di muoversi. E poi ha un’altra pettinatura, e gli abiti sono più casual.

“Chi sei?”

“Mion Sonozaki. Shion è la mia sorella gemella”.

Cavolo, mi sembra di essere in un film.

“E cosa vuoi da me?”

“Oyashiro Sama vuole punirti per i tuoi peccati”.

Comincio a sudare.

“E quali peccati avrei commesso?”

“Lo sai”.

Nonostante la situazione paradossale, capisco a cosa si riferisce, e inizio a indietreggiare.

“L’ho fatto per il progresso! Dovreste essermi grati”.

“No, l’hai fatto per te stesso, per vendetta. Sei egoista quanto tuo padre”.

“Non è vero!!!”

Degli uomini sbucano come dal nulla dietro quella Mion.

Stanno nell’ombra, ne intravedo solo le sagome.

Ma saranno almeno una ventina.

Quindi scappo.

Scendo le scale il più velocemente possibile.

Sento la voce di quella Mion, vicinissima nonostante non mi stia dietro.

“Non puoi scappare!”

Eppure lo faccio.

“Non puoi scappare perché è già troppo tardi!”

Mi fermo all’improvviso.

Provo una fitta lancinante al petto, come se qualcosa di duro e appuntito vi si fosse conficcato dentro.

Cado in avanti.

E mentre cado…. Rammento….

E capisco anche perché ho fatto tutto quello che ho fatto in passato.

Oh si, era davvero troppo tardi…

Mamma, temo che ti lascerò da sola in paradiso….


L’uomo estrae l’ascia dal petto della sua vittima, legata ad un tavolo.

“E’ fatto”.

Qualcuno gli si affianca.

“Bene, togliamo i chiodi dalle mani e dai piedi e chiudiamolo in un sacco. Al resto ci penserà il fiume”.

“Anche quest’anno, abbiamo fatto quello che dovevamo fare”.

FINE

  
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