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Autore: Kodamy    01/06/2008    8 recensioni
[Ovvero, l'acchiappasogni.]
Ancora una volta, gli incubi ti tengono sveglia.
Quegli occhi che sanno di casa scostano lo sguardo dal tuo.
E tu lo odi, e lo detesti, perché per un attimo ti aveva ingannata, facendoti pensare di essere finalmente a casa.
(E tu ti odi, e ti detesti, perché, anche solo per un attimo, ci avevi creduto.)
A volte si ha solo bisogno di qualcuno da poter chiamare, senza timore, "famiglia".
[Lenalee & Kanda; pre-manga.]
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lenalee Lee, Yu Kanda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6

Nightmares keep you   a w a k e.

 

[l’acchiappasogni]

 

 

Ancora una volta gli incubi ti tengono sveglia.
Pensi a quello che ti hanno fatto fare

non volevi, non volevi, dannazione, non volevi

e pensi a quello che direbbe tuo fratello se sapesse cosa hai fatto

erano persone? sembravano persone, ma loro dicono che non lo erano, non lo erano, non lo sono vero?

e vorresti morire e scomparire da qualche parte, in silenzio: perché se non puoi stare accanto a tuo fratello, allora ti lasciassero stare almeno con l’altra tua famiglia, quella che non c’è più.

Ma ti hanno legata a quel letto, per evitare che tu ti faccia ancora del male.

Non capiscono proprio niente.

Allora giri la testa da un lato, lasciando scivolare le lacrime sul cuscino, lasciando che i tuoi occhi respirino

 anche se vorresti solo annegare

e nel farlo vedi un altro paio di occhi a mandorla dall’altra parte dell’infermeria: il tuo cuore si ferma per qualche secondo, prima di saltarti prepotentemente in gola.
Sono occhi simili ai tuoi, che sanno di casa.

Sanno di casa e tu non ragioni più, non ora – la troppa felicità, forse lo hai scordato, è capace ti toglierti anche le più semplici facoltà di pensiero.

Per un attimo pensi – Ge Ge! – e lo dici, lo gridi, piangendo, e tiri quelle catene che ti fermano lì.

Per un attimo pensi – pensavo di non vederti mai più, mi sei mancato, mi sei mancato, mi sei… - e lo dici, ancora una volta, gridando e piangendo.

Quegli occhi a mandorla si sollevano su di te, sopracciglia appena crucciate, braccio teso all’infermiera che lo sta fasciando per bene. Stretto-stretto.
E’ uno sguardo vuoto, quello di quegli occhi a mandorla: come se non capisse quello che, nella vostra lingua, gli sai dicendo tra le lacrime. Allora ti rendi conto che quegli occhi a mandorla non la capiscono, la vostra lingua.

Rispondono qualcosa, quegli occhi a mandorla, ed è una voce seccata che sei tu, a non comprendere.

Ed in un attimo, quel mondo orribile ed ingiusto è tornato al proprio posto.

Non è il tuo Ge Ge. Non ti guarderebbe mai così, lui.

E’ troppo giovane. E’ troppo cattivo.

E’ troppo estraneo, e hai voluto vedere solo quello che volevi vedere.

Boccheggiando, non hai più voce né lacrime.

Ge Ge.

Ge Ge.

Ge Ge.

Quegli occhi che sanno di casa scostano lo sguardo dal tuo, e le infermiere che vi stanno guardando sembrano terribilmente deluse, e sbuffano e alzano lo sguardo al cielo e si scambiano occhiate preoccupate.
E tu lo odi, e lo detesti, perché per un attimo ti aveva ingannata, facendoti pensare di essere finalmente a casa.


(E tu ti odi, e ti detesti, perché, anche solo per un attimo, ci avevi creduto.)

 

Passano due settimane, prima che ti facciano uscire da quell’infermeria e ti lascino libera di camminare per quel luogo lugubre tutta da sola.

Ma, ancora una volta, gli incubi ti tengono sveglia.
Ti hanno comprato bei vestitini, carini e vezzosi, sperando che tu decida finalmente di comportarti come una bambina della tua età: tu non li metti, e le tue notti sono infestate da incubi di bambole vestite di pizzo e dalle mani di porcellana infrante, tenute insieme da fili come marionette, che danzano su cadaveri

 no, no, akuma

sporchi di sangue: bambole eleganti, leggiadre, ed irrimediabilmente rotte.

I vestiti sono lì, nella tua stanza senza chiave

– hanno tolto la serratura tanto tempo fa, per evitare che potessi chiuderti dentro

impilati sulla sedia di ciliegio. Pizzi, merletti, colori sgargianti.

Tu, addosso, hai la stessa camicetta da notte nera e logora che indossavi due settimane fa e che non ha più un buon odore, ma non hai alcuna intenzione di indossare quei vestiti e diventare la loro bambola.

Gli incubi persistono, notte dopo notte.

E vorresti dormire, vorresti davvero dormire, ma ti tengono sveglia.

Devi andar via.

Non è più solo un capriccio, ora. Devi andar via, è una cosa necessaria per la tua sopravvivenza.

Decidi di farlo, una notte d’aprile.

 

Ti scoprono sulla soglia, perché il guardiano della porta comincia ad urlare e ti spaventa e cominci ad urlare anche tu. Ancora una volta quel tipo buffo della scientifica con gli occhiali spessi e rotondi prega i finder di lasciarti stare, che non stai bene – non lo capiscono?

Ma lo sai, che è lui che ti ha dato i vestiti.

Quando ti lasciano stare e lui si avvicina, quindi, fai l’unica cosa plausibile.

Cominci a correre, più veloce che puoi, perché d’altronde è quello che sei brava a fare.

Ma sei stanca, e non hai dormito, e le tue gambe si sentono offese dall’incredibile disgusto che provi per loro, e decidono di abbandonarti proprio in quel momento.

Li senti, i loro passi, che si avvicinano.

Ti legheranno di nuovo a quel letto, in infermeria, davanti agli occhi di tutte le infermiere.

Le lacrime si affacciano ancora prepotenti ai tuoi occhi, mentre viri per la grande sala buia che viene usata per l’allenamento di voi armi per la Guerra – dove sei stata solo una volta, ma che ricordi essere enorme e speri possa esserlo abbastanza di inghiottirti e farti sparire per sempre, fra le altre armi di spade e fucili e tutti quegli altri strumenti per uccidere di cui non hai mai avuto motivo di imparare il nome.

La stanza non è vuota, sebbene sia notte fonda.

Al centro della stanza c’è lui, seduto, e ci sono quegli occhi imbronciati – chiusi - che sanno di casa e di terra natale, di famiglia e parenti e amici che non ricordi di aver mai avuto.

Quando chiudi rumorosamente la porta alle tue spalle e il respiro ti si blocca il gola, quegli occhi si aprono e quel volto si gira verso di te, colto di sorpresa.

Scuoti forte il capo, affondando i canini nel labbro. “Per favore, per favore, non dire nulla, non dire…

Non ti capisce, ed è chiaro, e in quel momento di panico cerchi di ricordare quelle poche parole che ti hanno forzato giù per la gola, piuttosto che fatto imparare.

“Per favore…”  mormori, ed il tuo inglese fa schifo ed è a malapena comprensibile, tuttavia lui sposta lo sguardo sulla porta – rumore di passi – mentre tu, incespicando sulle tue gambe inutili e traditrici, annaspi verso il catasto di manichini usati per gli allenamenti.

Ti senti una bambina, mentre ti nascondi dietro di loro e ti fai piccola piccola.

A volte dimentichi di esserlo, sentendoti solo una semplice prigioniera di guerra.

Loro entrano. Posano lo sguardo su quegli occhi imbronciati.

“Cosa ci fai qui?” chiedono, e tu non li comprendi e smetti di respirare per non farti notare.

Il ragazzino batte ciglio: e con le sopracciglia appena crucciate, lentamente, risponde. “Meditare.”

Ed è il tempo sbagliato ed il modo sbagliato, ma tu non lo sai, e non lo sa neanche lui.

“La ragazzina è passata di qua?”

“No.”

Come capisci ragazzina, che dev’essere un altro modo per dire il tuo nome, “no” è una parola che capisci.

Ed è una risposta secca, di chi vuole essere lasciato in pace, di chi è impegnato e di chi è totalmente disinteressato del prossimo, al punto da aiutarlo ignorando la sua esistenza.

Il tuo cuore batte un po’ più forte, perché non gli crederanno, lo sai che non gli crederanno, e…

Loro se ne vanno.
La porta si chiude.
I passi si allontanano.

Incredula, rimani lì dietro i manichini. Non osi muoverti di un millimetro, per paura che sentano un rumore e tornino e ti riportino in quel letto, in quell’infermeria.

Quegli occhi che sanno di casa non ti guardano neppure una volta, mentre tu tieni i tuoi fissi sulla schiena.

Finchè non si chiudono su un mondo più tranquillo e un po’ meno pieno di incubi di prima.

 

(Quando ti verrà a cercare, un’ora dopo, ti troverà accoccolata su un fianco e con un pollice in bocca.

“Gaki.”
Mocciosa, mormorerà, in quella che è la sua lingua e non la tua.

Il giorno dopo verrai trovata e punita e segregata di nuovo in infermeria, ma avrai passato una notte tranquilla e senza sogni. Perché, per la prima volta, qualcuno è stato dalla tua parte.)

 

Mesi dopo, sei ancora una volta nascosta dietro i manichini. Sono un po’ dei guardiani, quei manichini che si frappongono fra te e il resto del mondo.

Leverrier ti stava cercando. Volevi solo essere lasciata in pace da quell’uomo orribile.

E questo è diventato un po’ il tuo lido sicuro. Ci sono sempre quegli occhi lì, quegli occhi che affermano con sicurezza, ogni volta, di non averti vista. Quegli occhi che ti ignorano, e ai quali tu sei grata per questo.

Leverrier è sempre presente nei tuoi sogni, ultimamente: ti terrorizza.
Gli incubi ti tengono sveglia.

Ogni tanto, in quella stanza con i manichini, quel ragazzino litiga con il suo maestro, ogni tanto litiga con i suoi compagni, e comprendi che lui non ha avuto problemi a diventare una macchina stermina-akuma, e che fa già il suo lavoro sebbene non possa essere poi così più grande di te.
Non lo comprendi.

“Come puoi?” gli chiedi, allora, mettendo insieme due parole semplici-semplici e il tuo pessimo accento sdrucciolo, per esprimere quella domanda che ti rode un po’ dentro.

Lui ti guarda, per una rara volta, con un piccolo broncio sulle labbra. Forse comprende la tua domanda: tuttavia, invece di rispondere, si volta dall’altra parte.

Probabilmente, pensi, gli mancano le parole.

Il giorno dopo, loro decidono di non credere più alle parole di quel ragazzino spocchioso. Trovano il tuo nascondiglio dietro i manichini, ti tirano su brutalmente e a nulla servono le tue lacrime.

“Non capisci che il mondo ha bisogno di te?” ti dicono, ti ripetono, ma per te sono solo suoni vuoti.

Quel giorno, sarete puniti entrambi.

 

Hai tentato di suicidarti ancora una volta.

Perché gli incubi continuano a tenerti sveglia, e vuoi solo riposare un po’.

Quel ragazzino è spesso in infermeria, sebbene non sembri mai avere ferite gravi. Tanto sangue, molto sangue, e neppure una ferita. E’ spesso in infermeria, eppure non vi scambiate né uno sguardo né una parola.

Pensi sia arrabbiato con te, perché per colpa tua è stato punito anche lui che non aveva fatto nulla di male.

Altaleni tra il sonno leggero e la veglia, aleggi sotto il velo dell’incoscienza.

Tra un momento e l’altro, fra le lacrime che ti destano dal sonno, vedi due occhi che sanno di casa sospesi sul tuo letto. – Mi ha perdonata – pensi.

Perché?, pensi.

“Lenalee.” Dicono quegli occhi, preoccupati. “Lenalee, sono qui.”

“Lenalee.”

Non sei del tutto cosciente, ma piangi lo stesso.

Di gioia, però.

Perché, una parte di te, seppur piccola, lo sa che il tuo Ge Ge è tornato a casa.

 

Per un po’ non sei costretta a fare nulla, e gli incubi vanno via. Passi il tempo nel nuovo ufficio del tuo Ge Ge, gli porti il tè di Jerry e indossi gli abiti che ti regala lui. Gli unici momenti di timore sono quelli in cui cominci a dubitare che tutto questo sia reale, e a pensare che potrebbe essere tutto frutto della tua fantasia e che un giorno ti sveglierai e gli unici occhi che sanno di casa non faranno altro che detestarti in silenzio.

Ge ge ti insegna l’inglese, dolcemente, e lo fa in una maniera così buffa che ti fa ridere e non ti sembra neppure di imparare. Ma ti era dimenticata di essere stata una bambina brillante, e riesci ad imparare tutto assorbendo come una spugna i raggi solari che tuo fratello emana, e vivi dei suoi sorrisi e pensi che quella è casa.

Dopo qualche settimana, alla visita di Leverrier, tu torni in quella stanza con i manichini, ma non ti nascondi.

Ti siedi accanto a quegli occhi imbronciati, e chiudi i tuoi.

Lui non fa domande, non dice nulla.

Tu sei tranquilla: il tuo Ge Ge è qui con te, e terrà quell’uomo lontano. Non gli permetterà di farti del male.

Di questo sei sicura.

Quel giorno, prima di andar via, con il tuo inglese migliorato chiederai il nome a quel ragazzo imbronciato che fa di tutto per non sembrare una brava persona.

Lui risponderà, evitando di guardarti in faccia, che il suo nome è Kanda.

E il suo inglese è, incredibilmente, peggiore del tuo nuovo di zecca.

 

Dopo un po’, tuttavia, Leverrier si impone su tuo fratello, perché tu sei un’esorcista e il mondo ha bisogno di te ed è colpa tua in fondo se un po’ di gente muore e viene trasformata in akuma in giro per il mondo.

Perché tu, che puoi aiutare le loro anime, ti rifiuti di farlo.

Questa volta comprendi quelle parole, e comprendi che vogliono farti passare per un’insensibile.

Vorresti dire che non è colpa tua, che non ce la fai e basta, tuttavia rimani zitta.

Affoghi quel fiume di parole, arginandolo nelle labbra strette in una linea sottile.

La tua seconda missione in assoluto – la prima risale, a dire il vero, a quasi un anno fa - è con Kanda e Marie, e si rivela un disastro.

Alla fine, infatti, è Marie a doversi occupare di tutto, perché tu sei troppo terrorizzata per farlo e Kanda è troppo occupato a prendersi colpi per te e sanguinare per potersi occupare anche di altro.

Quella sera è già fuori dall’infermeria, e tu sei scossa e non fai che chiedere scusa, e non ti rendi neppure conto che sei tornata ancora una volta ad esprimerti nella tua lingua madre.

Lui non comprende le parole, ma sembra aver intuito il senso.

“Non faccio per te.” Dice, con il suo inglese ancora un po’ sgrammaticato. “Tuo fratello ha chiesto.”

Alzi lo sguardo, battendo ciglio. “C-come?”

“Di tenere d’occhio.” Fa spallucce lui, legandosi i capelli in modo da scostarli dal viso.

Vorresti dirgli che continua a coprirti fin da prima che tuo fratello giungesse all’ordine. Non lo fai.

Tu scuoti il capo, e continui a chiedere scusa. Perché non è la prima volta, che è lui a rimetterci per colpa tua.

Ma Kanda fa spallucce come se non avesse davvero importanza.

Tu lo sai che ne ha.

 

Kanda risponde alla tua domanda con quattro mesi di ritardo – arriverai, conoscendolo meglio, a considerarlo un record di velocità in quanto a risposte per domande importanti.

“La mia famiglia.” Esordisce, quando siete già tornati a casa da una settimana, e siete seduti fianco a fianco davanti ai manichini.

Apri gli occhi e lo guardi, ma i suoi occhi sono ancora chiusi.

Rimani in silenzio, perché sai orma che non ha senso parlare o meno, se ha intenzione di dire qualcosa.

“Ci sono solo Akuma, ad Edo, ora.”

Ricordi, allora, la tua domanda. Mormori un ‘oh’ privo di convinzione, scostando lo sguardo.

“Io ho solo Ge Ge.” Ammetti “Non ricordo la mia famiglia. Sono stati uccisi dagli Akuma, tutti. Però non riesco lo stesso a combattere come fai tu.”

“Perché non ricordi.” Sbotta lui, ed è quel tono caustico che da tempo non rivolge nei tuoi confronti. “Io sì.”

Rimanete in silenzio, perché non c’è nulla da dire e, in fondo, lo sai che ha ragione.

E che è una differenza enorme, quella.

 

(Qualche ora più tardi, prima di alzarsi in resa al brontolio del suo stomaco, mormorerà soltanto “Avevo una sorella.”

In quel momento capirai che, come tu avevi cercato rifugio da lui vedendo qualcun altro di totalmente diverso, lui aveva offerto protezione a te per rimediare del suo fallimento nel proteggere qualcun altro di totalmente diverso.

E penserai che, in fondo, è meglio così.)

 

E’ passato più di anno, ma ancora una volta gli incubi ti tengono sveglia.

Hai appena sognato il viso di quel bambino

no, no, di quell’akuma

che si deforma fino a diventare quell’orribile macchina da guerra infernale e come, anche da macchina da guerra infernale, riuscisse a singhiozzare e a piangere senza lacrime e dare a lei la colpa di tutto, quando lei non c’entrava proprio niente.

Ancora una volta, gli incubi ti tengono sveglia.
Ma, adesso, non hai più neppure una ragione per lamentarti.

Perché non sei più sola.

Da anni, ormai, Ge Ge è tornato e quel luogo lugubre sembra quasi una casa, e non hai più neanche il diritto di piangere e pensare che “è tutto sbagliato, è tutto sbagliato”, perché è il sorriso di tuo fratello che ti porge il fascicolo della nuova missione, ed è il sorriso di tuo fratello che ti dice “stai attenta” e tu puoi solo rispondere con un sorriso e dire “vado, allora” e lasciarti alle spalle quella casa orribile, ma pur sempre casa, con la speranza di poterlo rivedere ancora a dirgli, ancora una volta, “Sono a casa.”

Non sei più sola.

Non sei sola, tranne quando lo sei.

In missioni come questa, chiusa nella tua stanza della locanda

perché sei sempre tu, da sola, perché sei l’unica ragazza, perché pensano di farti un favore e darti un po’ di privacy e tempo libero da passare con i tuoi demoni tutti personali

sei sola.
Chiudi gli occhi, e quel viso riaffiora prepotentemente dalla caterva di ricordi – quelli gettati in un angolo, e catalogati come “da dimenticare”. Solo che non si dimenticano mai davvero.

Li riapri, osservando il soffitto ed il buio soffocante che lo preclude al tuo sguardo.

Ed anche lì, riflesso dei tuoi pensieri, vedi quel volto.

Ti alzi di scatto, gettando le lenzuola di lato.

Il pavimento è freddo, sotto i tuoi piedi scalzi. Anche la maniglia della porta lo è.
Il cuscino che stringi contro il petto mentre bussi alla porta di fronte alla tua è, invece, ancora caldo.

Lo stringi ancora più forte a te, cercando di trarne un piccolo conforto.

La porta si apre, e Kanda ti guarda con occhi intrisi di sonno: ricambi il suo sguardo con i tuoi intrisi di umido.

Dopo qualche attimo di silenzio, lo vedi scostarsi da un lato ed aprire un po’ di più la porta.

Con aria stanca e un po’ rassegnata, ti fa cenno di entrare.

In maniera un po’ brusca e, come sempre, senza una domanda.

Tu sgattaioli dentro rispettando il suo silenzio con il tuo; la sua schiena ti sfiora quasi il naso, una volta rimboccati sotto le coperte, e pensi – sarà solo un impressione- che la notte è un po’ meno buia e spaventosa e fredda, e che il ricordo di quell’akuma – non un bambino, non più – è appena un po’ più sbiadito di prima.

 

Sai che, nel caso dovesse succedere qualcosa, Kanda è lì e non permetterà che ti succeda nulla.

 

E, in momenti come quelli, sei proprio contenta di avere un fratello come lui.

 

 

 

 

 

Questa roba epica nasce da una drabble che avevo iniziato a scrivere – ancora una volta per quella challenge delle canzoni. Praticamente era metà del primo pezzo, con Imaginary degli Evanescence.

Finito il tempo, la canzone che mi parte dopo è “Tourniquet”, sempre degli Eva. Ovviamente, mi viene in mente come continuo della prima.

E alla fine nasce sta roba °_° Edit - mi ero dimenticata che, secondo le info su internet, Ge Ge dovrebbe essere il famoso "niisan" in mandarino. O qualcosa del genere. Non so quanto posso fidarmi di internet.

Ultimamente mi piace troppo il rapporto fra Kanda e Lenalee.

 

 

Approfitto dello spazio per ringraziare Edward, Irene Adler, Lalani, lilithkyubi, Lely1441 e Secret_Requiem per aver commentato l’altra Oneshot. Non sapete quanto ci tengo e quanto ve ne sono grata.

Penso che per chi scrive non c’è nulla di più bello che rendersi conto di essere arrivato ai sentimenti di chi legge. Almeno, è una cosa che personalmente mi rende felicissima.

E mi commuovo sempre a leggere i commenti.

 

(Anche se mi sento un po’ in colpa, perché ultimamente mi sento un po’ dire da tutti che faccio passare l’appetito causa magone. –joking, joking- XD)

Edit: ricordavo che nel flashback di Lavi la nostra tipetta non avesse le scarpe. Però sono andata a ricontrollare, e le scarpe ce le ha. Anche se non sono i Dark boots, quindi sinceramente non so proprio che pensare. In qualche modo ero anche convinta che fosse senza scarpe nel flashback del terzo numero. Me banana, chiedo venia per l'imprecisione °_° Teoricamente, pensando all'iniziale rifiuto che aveva per l'innocence, ero giunta all'arbitraria conclusione che l'avesse... rifiutata e basta, insomma.
PEr l'altra precisazione, beh, a quello ci avevo pensato. Ma Lenalee non ha fatto la scalata per l'Ordine, da quel che ho capito, perchè quella è la via per chi ci va volontariamente, no? Non penso sappia esattamente come uscire di lì. Ha fatto un'unica missione nella timeline della fic, e non penso instintivamente vada a cercare un'uscita nei sotterranei. Mi era sembrata una cosa un po' forzata. Ma effettivamente potrebbe apparire forzata anche questa. Ecco cosa succede quando si scrive a questi orari spropositati X°D Sembra tutto aver senso XD Ahn, e si, la "sorella" l'ho inventata io. PErchè tanto Hoshino non ci dice niente, quindi chessò, potrebbe anche avere un cane a tre e teste e chiamarsi, in realtà, Arnoldo. >_<"

  
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