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Autore: A Punk    20/01/2014    1 recensioni
Brixton, 10 Aprile 1981. È il giorno dell'Uprising, il primo giorno delle rivolte.
Davvero, John Watson non ha idea di che diavolo ci faccia a Brixton.
Forse è stato il fatto di non aver potuto fare niente prima, forse perché non riusciva a dormire, forse perché appena chiude gli occhi l’immagine del cadavere del ragazzo gli appare sulla retina. Un negativo marchiato a fuoco, proprio sotto le palpebre.
Genere: Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Uprising
 
You can crush us
You can bruise us
But you'll have to answer to
Oh, the guns of Brixton
[Guns of Brixton - The Clash]
 
10 Aprile 1981.
 
Lamberth, 1.37 a.m.
 
-Forse è stata la nebbia- propone qualcuno. -Semplicemente non lo hanno visto.-
Mormorii di assenso dalla sala operatoria.
Quello che stanno facendo è osceno, neanche si impegnano a trovare una scusa decente, neanche ci provano, no.
Perché mica lo stanno facendo per loro stessi, inventare una scusa per dormire meglio la notte, per non guardarsi le mani e vederle continuamente lorde di sangue. Oh, no.
Loro lo fanno perché la comunità farà domande, e magari qualche giornalista vorrà una dichiarazione, e a loro poco frega se la scusa che hanno scelto è patetica, se c’erano una ventina di testimoni, se hanno lasciato morire un uomo.
Un uomo di quella comunità che secondo loro gli è cresciuta addosso come un cancro, che neanche la chemio è riuscita a debellare. E che quindi l’unica cosa che gli resta da fare è lasciarla morire lentamente, pezzettino per pezzettino, a incominciare dal giamaicano steso sulla barella in sala d’aspetto.
-È successo di notte, dopotutto- riprende qualcuno. -È logico che i black english non si riescano a distinguere dal resto del paesaggio- Ride della sua stessa battuta.
Un’infermiera incrocia le braccia, contrariata. Non per quello che è appena successo, non per il fatto che hanno lasciato morire un uomo solo perché di origine caraibica, no. Semplicemente alza un dito, ad indicare la macchia vermiglia che si sta allargando sulla barella, e lo schifo di budella e vomito e piscio che quel cadavere si è lasciato dietro e -io quel macello non lo pulisco. Fate fare a qualcun altro- dice.
E alla fine tocca a John, il tirocinante, ripulire tutto.
John, quello che abita in un’altra zona della città, quello che non ride alle battute razziste, quello con i capelli biondi e gli occhi gentili. Quello che poco prima ha tirato un pugno al muro perché non gli hanno permesso di assistere il ragazzo.
Quello che alla fine, per quanto sbraiti e disapprovi, alla fine ubbidisce.
 
Bloomsbury. 2.54 a.m.
 
Se anche non lo avesse sentito, lo avrebbe capito. Era iniziata.
Si avvertiva nell’aria satura di elettricità statica, prodotta dai corpi che si muovevano febbrili, dalla pelle d’oca, dai respiri trattenuti.
Si avvertiva nelle grida che esplodevano, cacciate giù in gola per troppo tempo, troppo a lungo.
Si avvertiva nelle schiene che si rizzavano, nelle teste che guardavano in alto. Nelle Chuck Taylor calzate di fretta e negli anfibi consunti. Nei chiodi con troppe borchie, nei dread, nel fumo di sigaretta che si mischiava alla polvere.
Nel nome di Michael Bailey, che ancora risuonava nelle strade.
Michael, il ragazzo che i medici avevano lasciato morire in ospedale, a Railton Road. Il ragazzo di colore con l’addome squarciato che avevano deciso di operare dopo perché prima c’erano da curare slogature ed epistassi di pazienti bianchi che si erano messi in coda al pronto soccorso e che non si poteva far aspettare.
Era stata la morte del ragazzo ad accendere la miccia, ma erano stati i medici a fornire il pretesto, a consegnare la Molotov accesa proprio nelle mani dei manifestanti. Non aspettavano altro.
Victor gliene aveva parlato, qualche giorno prima. Lo aveva avvertito, aveva cercato di dissuaderlo, lo aveva trattenuto, insultato e poi lo aveva baciato. Gli aveva chiesto di non lasciarlo.
-Se proprio devi andare- aveva poi aggiunto -vedi di riportare indietro il tuo maledetto culo tutto intero-
Sherlock Holmes gli aveva sorriso e poi si era voltato. Victor non aveva aggiunto nient’altro.
 
Brixton. 3.49 a.m.
 
Suo fratello c’era dentro fino al collo.
“La rivoluzione è l’oppio degli intellettuali, Sherlock”.
Eppure suo fratello non aveva mai camminato per Brixton, l’odore della cannabis mischiato a quello dell’intonaco scrostato. Le assi di legno marce dei pub e dei pavimenti delle case, così umide che neanche i tarli si degnavano di abitarle.
La Brixton ferita, Brixton che sanguina e non è madre, ma accoglie in grembo i freaks, i punk e gli skinheads e gli hippies e i black english, e tutte le persone considerate feccia dalla borghesia londinese. La Brixton che ha donato tutto ciò che aveva a quei figli che si è ritrovata, e che in cambio non ha preteso niente.
Sherlock pensa che forse gli intellettuali non l’hanno capita fino in fondo, questa rivolta.
 
Brixton, 04.12 a.m.
 
Ci sono poche persone nel pub, ma è così piccolo che lo riempiono tutto.
Jim è al suo solito posto, ha una bottiglia in mano. Sta ridendo.
Le cose che si trovano attorno a lui in quel momento sembrano posizionate in modo perfetto.
Ogni cosa al proprio posto, un posto che gli era stato prefissato in un tempo imprecisato, da non si sa chi, non si sa dove, e che poi era stato dimenticato. Un posto che la  presenza di Jim Moriarty sembra invece aver provveduto a ricordare.
E’ sempre a suo agio, non importa se la sua pelle pallida spicca nell’oscurità del pub, o se tenga in mano una Molotov senza benzina, o se la sua camicia più bella si è macchiata di nero. Sherlock un po’ lo invidia per questo.
-Shezza!-
Sherlock si avvicina, e sorride. Forse perché lo ha chiamato con quel suo stupido nomignolo, o forse, perché anche lui vuole apparire come qualcosa che ha finalmente trovato il suo posto. Non lo sa. E neanche pensa gli piacerebbe saperlo.
-Molotov!- dice Jim. Come se non fosse abbastanza chiaro. -Abbiamo svuotato tutte le bottiglie di quella che qui chiamano birra nei tombini, tutte le bottiglie che abbiamo trovato. C’era odore di malto ovunque- storce il naso. -Ma la cosa peggiore è stata la benzina, Sherlock. Malto, benzina, vernice. Odori così forti che ti davano la testa. Un ragazzo è svenuto, Ian, mi pare.-
Prende la bottiglia per il collo e gli da una leggera spinta. Inizia ad ondeggiare ed entrambi rimangono a fissarla.
-Mycroft ha detto di aspettare.- Dice infine Sherlock, fermando la bottiglia con la punta delle dita sottili. Si sporge verso l’altro -E’ la polizia che deve iniziare. Lestrade si è messo in contatto con mio fratello, e per poco non lo hanno beccato a passarci informazioni. Ha detto che stanno arrivando, manca poco, mezzora al massimo. Ha detto che portano gli scudi e i caschetti, come hanno fatto a Lamberth. Portano anche i manganelli.-
Jim apre la bocca e sta dicendo qualcosa, ma la sua risposta viene coperta dal rumore di una bomba carta che esplode.
E’ iniziata.
 
Brixton, 5.25 a.m.
 
Ci sono solo urla, all’inizio. Urla, poi sangue, e rumore di scoppi ovunque. Sirene, polvere, altri scoppi e persone che si accasciano, quando la polizia comincia a caricare.
Non è affatto come Jim se lo era immaginato.
E’ tutto caos, e poi dolore, quando alcune schegge di vetro si conficcano nella caviglia, ma soprattutto caos.
I poliziotti sembrano colpire alla cieca, i manganelli che ropono costole e clavicole e gli scudi che sbattono gli uni contro gli altri.
Un’altra molotov esplode, persone che scappano, lui non le segue.
Prende in mano una bottiglia, qualcuno ha già provveduto ad accenderla.
La lancia.
Non sa neanche perché sta combattendo, non è la sua battaglia. Neanche ci abita a Brixton, lui.
Forse è lì solo per Sherlock, che lo ha convinto non si sa come, o forse è li perché in fondo gli piace. Il rumore del vetro che esplode, le urla e la polvere che entra su per il naso, che ti impedisce di respirare. Per le grida, per le persone che continuano a combattere anche in mezzo al fuoco e alle schegge di vetro.
La bottiglia la vede arrivare con la coda dell’occhio, sente che qualcosa non va, che dovrebbe spostarsi, ma il suo cervello lavora molto più velocemente dei suoi riflessi.
Tutto ciò che riesce a fare è chiudere gli occhi e portare le braccia al viso, per proteggersi dalle schegge.
La bottiglia esplode.
Passa qualche secondo e il dolore non è ancora arrivato. C’è semplicemente questa cosa dura premuta contro il suo corpo.
Apre gli occhi.
E’ un ragazzo, tiene in mano uno scudo della polizia rubato e lo circonda con un braccio.
-Mi chiamo Sebastian- dice.
Jim gli sorride, e tutto attorno a loro le cose trovano il proprio posto.
 
 
Brixton. 8.48 a.m.
 
Davvero, John Watson non ha idea di che diavolo ci faccia a Brixton.
Forse è stato il fatto di non aver potuto fare niente prima, forse perché non riusciva a dormire, forse perché appena chiude gli occhi l’immagine del cadavere del ragazzo gli appare sulla retina. Un negativo marchiato a fuoco, proprio sotto le palpebre.
John Watson non è neanche un medico, fra le altre cose. Solo un tirocinante.
Sta quasi per tornare indietro quando lo vede.
E’ rannicchiato dietro un cassonetto come un gatto, si tiene il fianco e la maglietta è macchiata di sangue. Ha occhi così azzurri che ti verrebbe voglia di distogliere lo sguardo.
John si avvicina, e quello neanche volta la testa, continua a guardare dall’altra parte, verso gli scontri.
Si inginocchia accanto a lui. -Dove… uhm… dove ti hanno colpito?- chiede.
Il ragazzo scoppia a ridere, poi inizia a tossire e sputa un grumo di sangue. Quando si volta, ha ancora una scintilla divertita negli occhi.
-Schegge di vetro al fianco destro, ma è solo una ferita superficiale. Forse resterà una piccola cicatrice. Uno scudo, allo stinco sinistro. Non è rotto, ho controllato; probabilmente ho solo una grossa ecchimosi. Un manganello, dietro la testa. Ho perso conoscenza. Sono quasi sicuro sia stato Jim a trascinarmi qui dietro.-
Deglutisce spesso quando parla e ha i denti macchiati di sangue.
-Hai anche una ferita allo zigomo.- dice John.
Il ragazzo si porta una mano alla guancia e sussulta. -Non me ne ero accorto.-
John non sa cosa fare. In realtà non sa neanche perché è venuto lì. Per dare una mano, certo. E poi?
Che cosa credeva di fare? E’ solo un tirocinante, non ha mai neanche praticato.
-Posso… uhm, posso fare qualcosa per te?-
Lui lo guarda, e c’è una malinconia infinita nei suoi occhi. Dura solo un attimo, ma John è sicuro di averla vista.
Il ragazzo sussurra.
-Portami via da qui-
 
 
 
  
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