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Autore: Raven85    25/01/2014    2 recensioni
Ti vogliamo bene, Susie.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era il 1973 quando mia figlia venne uccisa.
Accadde il 6 dicembre, un giorno che nevicava. Io e Abigail, mia moglie, avevamo all’epoca tre figli: Susie e Lindsey molto ravvicinate, ad appena un anno di distanza, e Buckley, molto più piccolo. Io lavoravo nelle assicurazioni e avevamo una casa rispettabile, abbastanza grande, e nessun grosso problema, né finanziario né di altra natura.
Eravamo una famiglia normale.
Lindsey era a casa da un pezzo quel pomeriggio, e io ero appena tornato dal lavoro. Aspettavamo Susie per cenare. Ma lei non tornò.
Aveva quattordici anni e frequentava la scuola media. Era una ragazzina normale, dolce, affettuosa, con un’intelligenza nella media. Era la mia bambina, la mia Susie.
In seguito i poliziotti parlarono del campo di granturco, e posso immaginare che fu lì, mentre tornava a casa, che qualcuno la adescò. So anche da chi, nonostante non sia mai stato provato: George Harvey, il nostro vicino di casa.
Quel pomeriggio al posto di mia figlia alla porta di casa si presentò l’agente Len Fenerman, che non esito a definire un salvatore. Certo, non scoprì mai l’assassino di Susie e tantomeno riuscì ad arrestarlo, ma non si arrese fino a quando l’evidente mancanza di indizi gli impedì di continuare.
Avevo fatto al telefono una descrizione di Susie, preoccupato per il suo ritardo. Ma quando vennero gli agenti, fu per dirmi che avevano trovato solo una parte del corpo di mia figlia.
Il suo gomito.
Da quel momento in poi per me il mondo divenne una macchia sfocata, come se camminassi sempre nella nebbia. Nessuno che non abbia perso un figlio può capire cosa significa.
Ma non fui sicuro da subito che mia figlia fosse morta. Anche nei giorni seguenti, nonostante le prove si accumulassero - il gomito, il suo libro di testo smarrito, il sangue nel campo - il suo corpo non era stato ritrovato, dunque perché preoccuparsi? Sarebbe tornata, anche senza un gomito. Sarebbe tornata di sicuro.
Mi era difficile consolare mia moglie. A darle il colpo di grazia fu Len che arrivò a casa nostra con il cappello di Susie, che lei le aveva fatto personalmente. Era chiuso in un sacchetto di plastica, ed era impregnato della saliva della mia bambina. Il mostro che le aveva fatto del male glielo aveva infilato in bocca, per evitare che urlasse.
Fu solo da quel giorno che prendemmo atto della verità. Nostra figlia era morta. Era stata uccisa, e chissà cosa di orribile prima. Non osavo immaginarlo.
Lindsey lo seppe dai nostri discorsi, non avendo osato né io né tantomeno Abigail affrontarla apertamente. Ma aveva tredici anni, per di più era estremamente intelligente, un piccolo genio in boccio. Aveva quindi compreso molto di più e molto prima.
Il difficile fu dirlo a Buckley. Aveva solo quattro anni, e i primi giorni cercammo di tenerlo al riparo dalla verità, servendoci anche dell’aiuto dei genitori del suo amico Nate, che lo ospitarono per qualche giorno. Lui chiedeva sempre di sua sorella, ma cercavamo di distrarlo con altre attività.
Nel mio studio avevo decine e decine di navi in bottiglia. Era un passatempo che mi aveva sempre appassionato, e avevo cercato di trasmetterlo anche ai miei figli. Ma c’ero riuscito solo con Susie. Lei amava quei modellini, e amava tenermi ferma la bottiglia mentre io raddrizzavo le vele. Era una cosa come un’altra che ci teneva uniti.
Una sera mi trovavo proprio nello studio, circondato dalle navi in miniatura. Forse per la prima volta guardandole realizzavo che quelle piccole mani non avrebbero più retto i miei lavori. Non avrei più visto il suo sorriso mentre le vele si alzavano, non l’avrei più vista trattenere il respiro, come se da un piccolo fiato potesse dipendere il destino di quelle imbarcazioni.
Cominciai a spaccare le bottiglie una dopo l’altra.
In breve mi ritrovai circondato da migliaia di cocci di bottiglia. E allora accadde una cosa che ancora oggi sono in dubbio se potessi essermela immaginata. Vidi il viso di Susie in ognuno di quei vetri.
Quando uscii, poco dopo, incontrai il nostro vicino di casa. Stava montando una tenda, così mi offrii di dargli una mano.
In quel momento ebbi la certezza di avere davanti a me l’assassino di mia figlia.
Naturalmente non gli feci capire di sospettarlo, ma immagino che lui lo avesse intuito, quando gli dissi che sapeva qualcosa. Ma non mi diede alcuna risposta. Mi disse semplicemente di tornare a casa.
Appena rientrai telefonai subito alla Polizia, e devo dire che Len si fece in quattro per verificare i miei sospetti. Ma non trovò nulla su George Harvey, se non una piccola discrepanza col nome di sua moglie defunta: a Abigail aveva detto che si chiamava Sophie, a Len Leah.
Mi decisi a parlare a Buckley la notte di Natale - anche se può sembrare il momento meno opportuno. Ma il bambino si rendeva conto che in casa non c’era la solita atmosfera festosa, e soprattutto sentiva l’assenza di Susie, che pesava come un macigno. Così, mentre in cucina Lindsey parlava col suo nuovo ragazzo - nuovo da quella sera - e Abigail sfogava le sue lacrime, lo portai con me in sala e lo invitai a giocare a Monopoli per la prima volta. Mi sembrava una buona metafora, e funzionò.
Da quella sera la candelina, il segnaposto che Susie usava sempre quando giocavamo sparì dalla scatola e io non ne seppi più nulla. In seguito, dopo alcuni anni, mio figlio ormai dodicenne mi accusò di averla sottratta dal cassettone della sua camera da letto, ma io non la vidi più.
Di una cosa in particolare mi vergogno di quel periodo, e non posso darne causa al dolore che stavo vivendo: di non essere stato il padre di cui i miei figli avevano bisogno. Amavo tutti e tre i miei ragazzi, non facevo distinzione fra loro. Ma Susie era la mia prediletta, era la maggiore, era stata la prima ad arrivare e soprattutto somigliava così tanto ad Abigail, che la sua perdita avvizzì in me l’essere padre. A logica sapevo che Lindsey non meritava di venire trattata come l’ombra di sua sorella, che Buckley era ancora piccolo, e che entrambi avevano bisogno del massimo amore da parte mia. Ma ero distrutto dal dolore, ero annientato, e non riuscivo a vedere le cose con la giusta lucidità. Sono certo però che almeno Lindsey lo ha capito.
Non sapendo bene neanch’io il motivo andai a casa di Ray Singh, un compagno di classe di Susie che a quanto pareva aveva una cotta per lei. Per breve tempo era stato sospettato dell’omicidio, ma io non lo avevo mai creduto davvero. Diciamo che era stato un sospetto fondato sul suo essere straniero, nella fattispecie di origini indiane.
Mi aprì sua madre, Ruana, e rimasi colpito dalla sua bellezza esotica. I poliziotti si erano fermati a casa sua e lei era rimasta impassibile mentre interrogavano suo figlio. Doveva sicuramente aver dato loro l’impressione di una donna fredda e altera, ma con me non si comportò così. Rifiutò decisamente il mio dispiacere per il coinvolgimento di suo figlio nelle indagini. E a lei per prima rivelai chi pensavo che fosse l’assassino.
Disse che se fosse stata al mio posto, e avesse avuto la mia stessa certezza, non avrebbe esitato ad ammazzare il colpevole. Solo poco tempo dopo le sue parole mi tornarono in mente.
A gennaio, circa un mese dopo la scomparsa di Susie, il preside propose di fare una messa in suo onore. Secondo lui portare per così dire alla luce la faccenda avrebbe fatto bene anche agli altri ragazzi, così venne organizzato tutto.
Quella mattina dunque salimmo tutti in auto, noi quattro con la madre di Abigail, Lynn. Veniva raramente a trovarci e per mia moglie era sempre un imbarazzo, con le sue manie di protagonismo, il suo colletto di visone, le sue limousine e il suo trucco pesante. Ma sotto sotto era una donna molto più tenera di quanto si pensasse. Amava a modo suo la sua unica figlia, e allo stesso modo i tre nipoti. In quei giorni Lindsey le chiese di insegnarle a truccarsi.
Alla messa c’erano quasi tutti, tranne Ray Singh e sua madre. Ma tutti gli altri c’erano: i compagni di classe di Susie, la sua amica Clarissa col ragazzo, e naturalmente il ragazzo di Lindsey, Samuel.
Di quel giorno non ho ricordi molto chiari, probabilmente perché non successe nulla di particolare. Sentivo Susie più o meno come al solito, dentro e accanto a me, e forse la sua presenza aleggiava per tutti più adesso che non c’era più, che quando era in vita. A volte capita.
Ricordo però che a un certo punto mia suocera si voltò verso Lindsey e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei si voltò verso la porta d’ingresso della chiesa, e un attimo dopo era svenuta.
Non mi disse mai né cosa le aveva detto né il motivo della sua reazione.
Quell’estate Lindsey andò al raduno degli studenti dotati, e nella nostra casa rimanemmo in tre: io, Abigail e Buckley. Di mattina molto presto uscivo per fare jogging conducendo con me Holiday, il nostro cane, e questo mi forniva la possibilità di passare davanti alla casa di George Harvey. Esternamente non aveva nulla di diverso da mille altre case, ma dentro di me la certezza che lui fosse l’assassino di mia figlia e che magari nascondesse il suo corpo proprio lì, in cantina, diventava sempre più solida. A consolidare il tutto, poi, si mise anche il cane, che una mattina d’agosto iniziò ad abbaiare furiosamente proprio davanti all’abitazione di quell’uomo.
Telefonavo spesso alla Polizia, premendo affinché facessero indagini più approfondite. Per questo nel mese di agosto Len venne a casa nostra e mi chiese di non contattarli più.
Il caso di Susie era stato archiviato.
Per quanto capissi la situazione, l’impotenza della Polizia e tutto il resto, non potevo fare a meno di sentirmi abbandonato. In un certo senso, era come se Susie fosse stata uccisa una seconda volta.
Una notte ero nel mio studio, che ormai era diventata la mia camera da letto. Non che Abigail mi avesse cacciato dalla nostra stanza, ma io ero sempre perso dietro ai miei pensieri e spesso annotavo particolari che ritenevo importanti su un taccuino, e volevo concederle almeno la notte un po’ di pace. Così dormivo là, su una poltrona.
Quella notte in particolare ero proprio nello studio. Avevo messo sul davanzale della finestra una candela che tenevo sempre accesa: era un modo per sentire più vicina la mia bambina. Ero come al solito immerso nei miei pensieri, e riflettevo sull’ipotesi di entrare nella casa di George Harvey, convinto che là avrei trovato la risposta a tutte le mie domande. Adesso sono certo che almeno per un periodo il corpo di Susie sia veramente stato lì, e che una semplice perquisizione lo avrebbe sicuramente fatto saltar fuori.
Era passata la mezzanotte quando vidi una luce fuori, nel giardino. Non so perché, nel mio delirio impotente mi convinsi che fosse proprio il nostro vicino di casa, così mi vestii e afferrai la mazza da baseball che avevo regalato a Lindsey prima che lei scegliesse il calcio. Uscii nella notte, e tra le nostre due case c’era davvero qualcuno, qualcuno seduto e rannicchiato per terra, terrorizzato dalla mia presenza. Ma non era George Harvey.
Era Clarissa.
Seppi in seguito che lei mi aveva visto con la mazza in mano e aveva cominciato a piangere e a urlare. Il suo ragazzo, che la stava raggiungendo, l’aveva sentita e mi aveva massacrato di botte, rompendomi un ginocchio.
Io ricordo solo i singhiozzi della ragazzina, l’allentarsi delle mie dita che lasciavano cadere la mazza, la sua figura raggomitolata. E un attimo dopo il ruggito del suo ragazzo e le botte, il dolore, la perdita di coscienza.
La mattina dopo mi svegliai in ospedale, reduce da un’operazione al ginocchio, con Lindsey che dormiva, la testa bionda appoggiata contro il mio fianco. La mia bambina era lì per me.
Una delle mie bambine era lì per me.
La riabilitazione fu lunga e difficile, e altrettanto si poté dire della riabilitazione morale. In paese tutti sapevano cosa avevo fatto, e quando Lindsey tornò a scuola si sentì circondata da frecciate e maldicenze, perché adesso non era solo “la sorella della ragazza uccisa”, ma anche “la figlia del pazzo”.
Questa è un’altra cosa che non mi sono mai perdonato.
Quell’autunno Buckley intraprese la strada dell’asilo, ma anche su di lui aleggiava l’ombra della sua sorella maggiore. Ma per quello sapevo che non avrei mai potuto fare niente.
Avevo ripreso vigore ed ero in grado di portare il mio bambino a cavalluccio su per le scale, e fu durante questi giochi che un pomeriggio irrompemmo nel bagno dei ragazzi e scoprii Lindsey intenta a depilarsi le gambe col mio rasoio.
Il rapporto con Lindsey è sempre stato più difficile di quello con Susie. La mia figlia maggiore poteva anche non avere all’apparenza nulla di speciale, ma era dolce, mite, più docile di Lindsey, che era un mezzo maschiaccio e un genio intero. Aveva in sé qualcosa di ribelle che la faceva scontrare puntualmente con me e sua madre - più con lei - e dalla morte della sorella in lei era cresciuta anche la rabbia. Non amava fare sport femminili. Correva coi ragazzi e le era stato proposto di entrare nella squadra di calcio, cosa che per gli anni ‘70 sarebbe stata improponibile. Già allora capivo che era molto più forte di me, di sua madre, di tutti noi. Aveva imparato a contare solo su sé stessa.
Cogliendo quell’occasione insperata mandai Buckley a giocare con Holiday, e io reperii una lama nuova per il rasoio. Mentre Lindsey si depilava per la prima volta, le confessai i miei sospetti.
Penso fu allora che in lei maturò la decisione di fare ciò che io non avrei potuto: entrare nella casa di George Harvey.
Non ero stato io a chiederglielo. Non avrei mai esposto mia figlia a un tale pericolo. Perché naturalmente una persona capace di uccidere una ragazzina non si sarebbe fatto problemi a farne sparire un’altra - quali che fossero i motivi delle sue “abitudini”.
Ma lei non mi chiese nemmeno il permesso. Semplicemente una sera tornò con un’ora di ritardo, la maglietta sporca di fango e piena di tagli, stringendo in mano un foglio appallottolato. Il disegno raffigurava una buca - probabilmente la tomba di Susie.
Disse che adesso mi credeva.
In seguito alla denuncia alla Polizia George Harvey partì, e non ne sapemmo più nulla. Non venne mai preso e non pagò mai per i suoi delitti.
All’anniversario della morte di Susie si radunarono spontaneamente tutti i nostri vicini per una veglia in suo onore. Lindsey era a casa con sua madre e suo fratello, e aveva visto i movimenti dalla finestra, e me lo comunicò appena tornai dal lavoro. Così prendemmo Buckley - questa volta non lo avremmo tenuto fuori - e li raggiungemmo, nel campo di granturco.
Fu una cosa sentita e bellissima, e ancor più perché era nata in totale spontaneità. E c’erano tutti: Ray e Ruth, una compagna di classe di mia figlia; i Gilbert, il cui cane aveva trovato il gomito di Susie; e anche la madre di Ray, che rimase nascosta.
C’erano tutti. Mancava solo Abigail.
Probabilmente già quella sera mia moglie aveva deciso di lasciarci. Disse che avrebbe fatto una piccola vacanza in una casa al mare di proprietà dei suoi genitori, invece non tornò e i giorni diventarono settimane, le settimane mesi. I mesi anni.
Non credo di averlo capito subito. Ma feci il mio dovere di padre. Continuai a lavorare e stavo in casa, cucinavo, lavavo, stiravo. Poi Lynn mi telefonò e disse che voleva trasferirsi da noi.
La mettemmo nella vecchia stanza di Susie, dove ogni tanto tutti noi andavamo per sentirla vicina, almeno un po’. E la convivenza fu meno spiacevole del previsto, nonostante i suoi assalti al mio frigo bar e le frequenti sbronze.
Ogni tanto Abigail scriveva, e spesso mandava cartoline ai ragazzi. A volte telefonava. Mia suocera fu per me un grande aiuto, soprattutto con Buckley, che stava diventando un bambino difficile e solitario, indurito dall’assenza di sua madre. E questo, lo potevo capire benissimo. Perché anche Susie non c’era più, ma non era stata lei a volerci lasciare. Invece mia moglie lo aveva deciso.
Lindsey andava bene con Samuel e andava altrettanto bene a scuola. Era una ragazza complicata, ma non era più solo l’ombra di sua sorella. Aveva trovato la sua identità, ed era venuta alla luce anche davanti ai miei occhi.
In quegli anni le cose erano cambiate per tutti, ma non per me. Ogni anno, ad ogni anniversario della morte di Susie ripetevo la veglia nel campo, ma partecipavano sempre meno persone. E io capivo bene cosa stava accadendo; proprio ciò che io non volevo assolutamente accettare. Tre anni, cinque anni, otto anni e le persone la dimenticavano. Per gli studenti della scuola media mia figlia era ormai solo un nome: nessuno di loro l’aveva conosciuta di persona. Susie Salmon era soltanto una delle migliaia di ragazzine scomparse. Solo io continuavo a pensare a lei come se fosse sempre quel 6 dicembre, come se da un momento all’altro potesse tornare a casa da scuola con una scusa per giustificare il ritardo. E mi rendevo conto - ma me ne rendo conto di più adesso - che questo stava pregiudicando pesantemente non solo il mio senso della realtà, ma anche il rapporto con chi era ancora vivo intorno a me.
Era il mio Buckley a risentirne di più. Lindsey aveva ormai passato quella fase, ma lui aveva appena dodici anni e soffriva del fatto che guardando lui sembravo rivedere sempre la mia bambina scomparsa.
Nel nostro giardino aveva costruito qualche anno prima un fortino, con materiali rimediati per lui anche da Hal, il fratello di Samuel. Era una delle cose che avrebbe voluto fare con Susie, ma io non avevo mai avuto la forza di aiutarlo a realizzarlo. Così lo aiutò Lindsey, con Samuel e Hal.
Alle medie scoppiò in lui la passione per il giardinaggio, e in questo gli fu consigliera mia suocera. Lynn gli procurava sempre libri sul giardinaggio, e se lui l’accompagnava a fare la spesa lo portava al vivaio a comperare piante in vaso. Era un’attività anche potenzialmente utile, e a lui piaceva perché lo aiutava a non pensare. E non c’era niente di meglio.
Dopo il diploma, una sera di pioggia Lindsey e Samuel non tornarono. Ricomparirono il giorno dopo, fradici, con addosso solo magliette e biancheria. E mi diedero la splendida notizia: avevano deciso di sposarsi.
Lindsey era preoccupata della reazione che avrei avuto, o forse aveva ancora qualche riserva a lasciarmi solo. Ma io mi ero affezionato a Samuel, in quegli anni aveva avuto sempre il massimo rispetto per mia figlia e per me, quindi dissi che non avrei potuto essere più felice.
Qualche giorno dopo vidi Buckley uscire in giardino con una scatola sottobraccio. Mi spiegò che aveva rimediato dei cenci per sostenere le piantine di pomodoro che stavano crescendo, e io lo osservai dalla finestra. Quando vuotò il contenuto notai con stupore che aveva preso i vestiti di Susie.
Adesso sono certo che se fossi stato meno duro con lui, se avessi cercato di spiegargli, nulla sarebbe accaduto e neanche la sua reazione sarebbe stata così violenta: ma ero come un automa. Uscii e raccolsi i vestiti di mia figlia, dirigendomi verso casa.
Buckley espose. Sono sicuro che quello fu solo il naturale esplodere di un vulcano che covava da molto tempo, e solo allora vidi per intero la sua rabbia. Era troppo piccolo per saperla controllare come aveva fatto Lindsey tanto tempo prima. Gridò che dovevo scegliere. Che Susie era morta, ma lui era vivo. Disse solo cose vere, lo sapevo anche allora. E mi accusò di avergli portato via il segnalino del Monopoli, la candelina che usava sua sorella.
Fu troppo per il mio cuore già provato. Una fitta di dolore si arrampicò sul mio braccio, e mi accasciai a terra, colpito da un infarto. L’ultima cosa che ricordo fu il grido angosciato di mio figlio, e la sua corsa in casa a chiamare la nonna. Poi il buio.
Quando all’ospedale mi risvegliai, accanto a me c’era Abigail. Sua madre l’aveva chiamata e lei era venuta dalla California. Per me.
Mi era mancata in un modo che non so spiegare neanche adesso. L’avevo sempre amata, certo, ma nel corso della sua assenza mi domandai spesso come avevo potuto permetterle di andar via. Speravo che adesso fosse tornata per restare.
Solo il giorno dopo la vidi. Era l’alba e Abigail dormiva accanto a me, seduta su una sedia. E io vidi Susie, nell’angolo della stanza. Non potevo mentire a me stesso: lei c’era, c’era stata fin dalla sua scomparsa e ci sarebbe stata sempre. Era la mia bambina e sarebbe rimasta nell’angolo del mio cuore dedicato solo a lei.
Quando Abigail si svegliò le dissi cosa avevo visto, e inaspettatamente lei mi credette. Non perché l’avesse vista anche lei: mi credette e basta. Ero felice anche solo di questo.
Len Fenerman venne a trovarci. Sperai che ci fossero sviluppi, che Harvey fosse stato preso, invece ci aveva solo riportato una cosa che sapeva appartenere a Susie.
Un ciondolo del suo braccialetto. La chiave di volta della Pennsylvania con le sue iniziali.
Insieme a quello era stato trovato anche un corpo, disse, ma non era quello di mia figlia. Per questo penso che il nostro vicino di casa abbia fatto male anche ad altre persone prima di capitare sulla strada della mia famiglia. E per questo non potrò mai perdonarlo.
Quella fu l’ultima volta in cui incontrammo Len. Il caso era archiviato e il corpo non sarebbe mai stato trovato: non restava che rassegnarci e cercare di andare avanti.
Lindsey e Samuel si sposarono, e comprarono la casa vittoriana dove si erano rifugiati la notte di pioggia. La combinazione aveva voluto che appartenesse al padre di Ruth, la compagna di Susie, e che aveva accettato di venderla ai ragazzi se Samuel avesse accettato di lavorare con lui. Così poterono ristrutturarla.
E arrivò la piccola Susie.
Nacque in primavera, e fu naturale per Lindsey darle il nome della sorella maggiore. Abigail Suzanne. Susie.
Naturalmente la ferita non si è chiusa del tutto. Continuo sempre a pensare alla mia bambina perduta, ma mi piace pensare che da dov’è ci osservi e che tenti anche di proteggerci, se rientra nelle sue possibilità… come io avrei dovuto fare con lei.
Ti voglio bene, Susie.



Ehm. Ciao…
Sì, ancora su Amabili Resti. Credo che questo libro mi resterà nel cuore e quindi ho deciso di cimentarmi in questo… ogni capitolo porterà il nome di uno dei personaggi che gravitavano intorno a Susie, a cominciare naturalmente dai suoi genitori. Iniziando dal padre, Jack appunto.
Hope u like it…
Raven85
  
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