Cara
Rosie,
sempre
più spesso mi chiedi come mai di nonno tu ne abbia uno solo.
Sei grande, ormai,
e con te cresce anche la tua curiosità per il mondo e
ciò che ti circonda.
Questa lettera, mia adorata bambina, è per raccontarti una
storia che poche persone
conoscono; questa, piccola, è la mia storia.
Avevo
circa la tua età quando mio padre morì. Lo amavo
molto, quanto tu ami papà e
me. Un amore forte e viscerale; oh, quanto adoravo le sue storie prima
di
dormire, la sua voce dolce e calda, i suoi occhi felici, le sue
carezze. Tutto
questo mi fu portato via all’improvviso, come se un uragano
si fosse abbattuto repentinamente
sulla mia vita distruggendo e scuotendo e rovinando ogni mio appoggio
solido e
fondamentale.
Papà
si era molto ammalato. Un male quasi impossibile da curare, gravissimo,
lo
fiaccava ogni giorno di più. Eppure lui lottava, lottava per
tenermi stretta a sé,
per non privarmi di un altro genitore. Come sai, infatti, la mia mamma,
tua
nonna, era scomparsa tragicamente quando io ero molto piccola, di lei
ricordavo
solo che mi assomigliava molto e che amava cantare, proprio come me e
ora… come
te.
Nonostante
il suo continuo combattere, comunque, mio padre perse il duello con la
morte,
spegnendosi. Prima di lasciarmi, però, quando la malattia
gli impediva già di
parlare e di aprire gli occhi per più di pochi secondi, con
mano tremante,
accarezzandomi impercettibilmente, quasi a non voler essere scoperto,
mi fece
un dono: un pezzetto di corda con tre nodi.
Non
capii, ero così piccola e ingenua e triste…
Quello
spago fu l’ultimo regalo che ricevetti, insieme a
quell’ultima carezza che
sapeva sì di disperazione, ma anche di un invito a non
mollare.
Dieci
anni dopo, quando una dolce fatina, la mia madrina, venne ad aiutarmi
per
andare al ballo dove conobbi tuo padre, quella corda improvvisamente
acquistò
un senso. La Fata Smemorina, infatti, tra una magia e l’altra
mi disse di
appartenere a una confederazione di esseri magici chiamata
“Tre Nodi”. Tre nodi
come quelli presenti sulla corda regalatami da papà.
Stupidamente non ci
prestai attenzione, presa com’ero da ciò che mi
stava accadendo intorno e
lasciai che quell’informazione così importante si
riempisse di polvere in un
cassetto della mia mente.
Dopo il
mio matrimonio con tuo padre ebbi molto più tempo da
dedicare a me stessa non
dovendo più accontentare i capricci di qualcun altro. Mi
trovai a pensare più e
più volte a un collegamento tra il buffo dono di mio padre e
qualsiasi altro
oggetto o situazione o luogo. Trovai il nesso che cercavo quando la mia
madrina, l’unica persona rimastami della mia vecchia vita che
teneva ancora a
me, una sera di luglio, precisamente l’anniversario nel
nostro primo incontro,
decise di volermi rivedere sul limitar della foresta. Con me,
naturalmente, c’era
la mia cordicella che in pratica non mi lasciava mai.
I nostri saluti furono calorosi e felici e Smemorina non la
smetteva di parlare
neanche un secondo; erano cambiate molte cose in quell’anno e
lei era una donna
davvero curiosa, ma qualcos’altro turbava la mia mente.
−Quando
mio padre morì mi donò questo, – la
interruppi, sovrappensiero, mostrandole la
cordicella. −E...
mi chiedevo se
tu
potessi capirne qualcosa… ti
prego Smemorina, aiutami.
−Oh
cielo, bambina! Sei sicura di quello che dici? Questa funicella
è sicuramente
legata ai Tre Nodi! Voglio dire, è il nostro simbolo! Ne ho
una anch’io!−
rispose,
mostrandomi la sua copia della piccola fune annodata, tirandola fuori
da un
tascone del vestito azzurro. −Forse…
forse tuo padre voleva che ti assistessi
in qualche modo!
−Io…
io
non lo so Smemorina. Vorrei solo capire cosa è successo a
mio padre… del perché
di questa corda… del perché se ne andato!
Lacrime
amare presero a bagnarmi le guance e un dubbio iniziò ad
insinuarsi in me. E se
mio padre fosse stato ucciso? Non avrebbe avuto alcun senso la corda se
fosse
stato altrimenti, forse mio padre sospettava qualcosa, forse non aveva
la forza
di dirlo, forse anch’egli desiderava capire cosa stesse
succedendo alla sua
realtà.
Invano
Smemorina provò a consolarmi; tentò di
trasformare un ranocchio in una
principessa in tutù ma divenne un maialino arancione e le
mie lacrime cominciarono
a scendere più copiose. Come avrebbe potuto aiutarmi quella
donna? Buona, sì,
ma così smemorata e buffa…
Quasi
come se mi leggesse nella mente, la vecchia fata sussurrò:
– Non dubitare di
questa vecchietta solo perché ha i capelli bianchi,
Cenerentola. Puoi portarmi
nel luogo in cui se ne è andato?
Annuii,
sorpresa. Quella sera stessa tornammo nella mia vecchia casa. Lady
Tremaine, la
mia matrigna, sussultò vedendomi arrivare, poi, quasi
spaventata dalla mia
fragile persona, che fino a poco tempo prima usava per pulire, servire
e
rassettare, s’inchinò con una smorfia.
Non la
considerai. Quella donna mi aveva fatto tanto male che non meritava
neanche la
mia compassione. La camera di papà aveva lo stesso odore di
quando l’avevo
lasciata: tabacco e mogano. Mi sfuggì un sorriso. Lo sentivo
quasi lì con me.
Mi presi un po’ di tempo prima di chiamare la madrina a
mente. Strizzai gli occhi, pensai di volerla vedere ed eccola
lì, in una nuvola di stelline brillanti.
Per la
prima volta la fata non parlò ma, limitandosi a farmi un
cenno con il capo, si
diresse vicino al letto di mio padre, perfettamente immacolato da
quell’orribile
giorno; Lady Tremaine, infatti, aveva deciso di cambiare stanza
perché la sua
vecchia camera le ricordava troppo papà. Come se le
importasse veramente.
Non
passò molto quando Smemorina, accigliata, cacciò
la bacchetta dalla manica
destra del suo morbido abito.
−Tiritì,
tiritò, tiritù, letto svela il misfatto, ora o
mai più!
Il
letto di papà fu colpito da un lampo di luce gialla.
Qualche
secondo dopo, immerse in una nebbia dorata, io e la fata madrina
vedemmo
comparire al nostro fianco una figura evanescente, con le stesse
sembianze di
una persona che conoscevo…
−Genoveffa!
– urlai. Doveva andarsene da lì!
Smemorina
ridacchiò. Non capivo cosa c’era da ridere in
quella situazione così delicata.
Forse intimorita dal mio sguardo severo, la fata si rabbuiò
e allungata una
mano trapassò da parte a parte la mia sorellastra che non
parve accorgersi di
nulla. Ah, la magia… non finiva mai di sorprendermi.
Osservai
la scena in silenzio.
Genoveffa,
che notai essere poco più che bambina in quella forma
spettrale, si avvicinò al
letto di papà e dopo essersi guardata intorno, come se nulla
fosse, attraverso
una piccola boccetta di profumo spruzzò qualcosa sulle
lenzuola.
La
scena si ripeté dinanzi ai miei occhi per dieci volte circa
e ogni volta
Genoveffa aveva una pettinatura o un abito diverso. In pratica, Rosie,
la mia
sorellastra per alcune settimane aveva fatto visita regolarmente alla
stanza di
mio padre cospargendo il letto di quello strano liquido biancastro.
−Fata
Smemorina, cos’è quella roba? – non
riuscii a contenermi. Dovevo sapere. La mia
madrina si avvicinò al letto, sfiorando le lenzuola con
delicatezza e
pizzicandosi le dita in seguito.
−È
un
batterio, mia cara. – Smemorina strizzò gli occhi,
quasi a voler piangere.−
O
meglio, è una pozione che contiene un batterio.
−Un
batterio? Genoveffa? Mio padre? Io… non è
possibile! Devo… devo chiederglielo
subito!
Corsi
fuori da quella stanza, da quell’omicidio, da
quell’orribile verità.
−Genoveffa!
Genoveffa, vieni fuori! È la tua regina che te lo ordina!
Non
avevo mai ordinato niente a nessuno, tantomeno urlando… ma
stavolta era
diverso. C’era di mezzo un assassinio, e il morto era mio
padre. Il mio amato
padre.
Genoveffa
uscì dalla sua stanza, trascurata, invecchiata a poco
più di vent’anni, un
piede ancora zoppo per i danni procuratisi nel provare a indossare la
mia
scarpetta di cristallo.
−Maestà
– disse, inchinandosi con aria di sufficienza, proprio come
l’odiosa madre.
La
invitai a scendere al piano inferiore. Davanti al grande camino del
salone che
avevo pulito così tante volte sedevamo io, le mie
sorellastre e Lady Tremaine, nonostante
sentissi ancora la presenza di Smemorina accanto a me.
−Sono
passati molti anni da quando il papà è morto,
– cominciai. – Immagino che a
tutte voi manchi molto, proprio come manca a me.
Osservai
i loro sguardi, nessun fremito, nessun guizzo di tristezza. Vuote.
−Credo
che nostro padre e suo marito, Lady Tremaine, sia stato ucciso. E ho
dei… −temporeggiai,
cercando di trattenere le lacrime e la rabbia. – Sospetti. Si
dà il caso che il
sospettato si trovi proprio qui, in mezzo a noi,−
mi fermai un istante. – Genoveffa, circa
dieci anni fa cosa spruzzavi sul letto di papà, quando
t’intrufolavi di
nascosto in camera sua?
Pronunciai
l’ultima frase con una tale rapidità che quasi non
si capì.
−Non
so
di cosa stai parlando.
La sua
risposta fu secca, fredda, come se se l’aspettasse.
−Ho
le
prove, mostro! – le urlai contro, aspra. –
Cos’era quella pozione? Come l’hai
avuta? Per l’amor del Cielo parla! Genoveffa, ti ho servito
per anni, mi devi
delle spiegazioni! Se non lo farai, te lo ordinerò in quanto
tua regina.
La mia
sorellastra trasformò il suo ghigno in una risata beffarda e
malefica che ben
presto divenne un continuo singulto seguito da copiose lacrime.
−Io
ero
invidiosa, – cominciò. – Di te, di voi.
Sì, tu Cenerentola eri sempre al centro
di tutto e di tutti ed io e mia sorella eravamo sempre in disparte!
Sempre! Ma
io soprattutto. Sì, io ero il nulla. Anche Anastasia era
più importante di me,
con il suo caratterino più docile e con un viso
più dolce del mio. E la mamma,
oh, la mamma sembrava felice. Ma le sue figlie? Non esistevano
più. C’era solo
il suo stupido nuovo odioso marito.
−Bambina,
ma cosa stai dicendo?−
provò a ribattere Lady Tremaine.
−Oh,
sta zitta mamma! – rimbeccò la figlia, −
Io
non ce la facevo più. Odiavo tutti voi. La mia vita era un
inferno! L’unico a
volermi bene era il mio papà… che se ne era
andato. Dovevate capire quanto
soffrivo! –
Non
sapevo cosa pensare. Genoveffa era sempre stata una bambina…
una ragazza,
forte, dura, sicura di se stessa. Non mostrava a nessuno il suo dolore,
ma solo
la sua frustrazione e la sua rabbia.
−Pagai
una delle cameriere che avevamo prima per ottenere
quell’intruglio. Lei non
sapeva di cosa si trattasse, naturalmente. Beata ignoranza. Dal canto
mio,
essendo io la maggiore tra voi, sapevo leggere e mi dilettavo con i
libri di
medicina e scienze della biblioteca. Non ci ho messo molto a trovare
qualcosa
che potesse essere letale. Ho fatto l’ordinazione alla serva
e puff, ecco il
mio veleno direttamente dal mercato nero del villaggio. Ci ha messo
anche più
del previsto per far fuori tuo padre, regina.
−E
tua
madre? – trattenni le lacrime. – Non avevi paura
che tua madre facesse la
stessa fine? –
Sorrise:
−
No, certo. Ho ordinato anche l’antidoto per
lei. Ogni giorno bastava una piccola goccia nel tè. E se ti
stai chiedendo del
perché nessuno riuscisse a curare tuo padre la risposta
è semplice. Gli altri
ingredienti della pozione rendevano il germe della malattia
indistruttibile,
tranne che al mio antidoto. −
Improvvisamente
la consapevolezza di ciò che aveva fatto quella donna
malefica mi pervase. Non
c’era pietà da provare o tristezza. La morte di
mio padre era stata ingiusta e
terribile ma la fragile psiche di Genoveffa aveva toccato il fondo. Era
compassione, quella che provavo.
Decisi
di non punirla. Che restasse lì, in quella stessa casa, sola
tra le persone che
amava ma che ormai non amavano più lei. Il dolore non pesa
tanto quanto il
senso di colpa, ma ti toglie di più. E in quel caso le aveva
tolto tutti i suoi
affetti. Spesso siamo noi i veri nemici di noi stessi, piccola mia.
Impara a
essere leale, forte, generosa, regale. Impara ad essere te stessa.
I tuoi
genitori saranno sempre qui, per te, ogni volta che cadrai e ti
sentirai sola e
vorrai finirla con tutto quel dolore. Saremo sempre qui, anche quando
saremo
andati via da questo mondo. Ricorda, chi ti ama non se ne va mai
veramente.
Con
affetto,
mamma.
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