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Autore: Elly J    30/01/2014    2 recensioni
- Da quanto tempo sei un Runner? - gli chiesi una volta raggiunta la cima del palazzo.
- Da quanto basta perché Mercury mi voglia nella sua squadra. - mi rispose lui senza nemmeno guardarmi in viso.
Quel ragazzo dal nome strambo aveva un qualcosa che mi irritava particolarmente.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: tutti i personaggi di Mirror's Edge presenti in questa fan fiction non appartengono all’autrice, ma appartengono alla DICE e a chi detiene i diritti sul videogioco. Questo racconto è stato scritto per puro divertimento personale e quindi non a scopo di lucro. Di conseguenza nessun copyright è stato violato.
Gli intrecci del racconto sono stati invece ideati dall’autrice (Elly J) che quindi ne detiene il copyright, vietandone così la riproduzione altrove.
La riproduzione altrove e qualsiasi citazione è ammessa solo se l’autrice ne ha dato il consenso.





Quel giorno non avevo combinato granché. O meglio, non avevo voluto combinare granché.
Fin dalla mattina avevo staccato l'auricolare con il quale comunicavo con Merc. Sapevo che una volta tornata alla base mi avrebbe rimproverata.. ma che dico? Mi avrebbe fatto il culo, tanto per essere precisi. Probabilmente avrebbe affidato le mie missioni a qualcun'altro per un'intera settimana. Anzi, quasi sicuramente lo avrebbe fatto e sapevo benissimo a chi le avrebbe affidate. Ovviamente a Celeste.
Ma d'altronde, che mi importava?
Nulla.
Non mi importava nulla.
 
- Com'è che ti chiami?
- Jacknife.
- Come? - domandai nuovamente ridendo.
- Hai capito benissimo.
Lo guardai con aria di sufficienza, forse un po' troppo.
- Perché tu come ti chiami? - mi chiese poi.
- Faith. Faith Connors.
- E che cavolo di nome sarebbe?
- Non sei divertente.
- Nemmeno tu.
 
Mi appollaiai sul bordo della balconata del piano più alto del palazzo.
Lo ricordavo bene quel palazzo. Molto bene.
Alzai lo sguardo verso il cielo arrossato, il sole che iniziava a scomparire dietro i palazzi.
I palazzi.
Così alti, immensi, troppo immensi.
Così pericolosi.
Quante volte avevo rischiato di perdere la vita mentre correvo e saltavo da un palazzo all'altro, da un tetto all'altro, da una finestra all'altra?
Quante?
Troppe.
 
- Da quanto tempo sei un Runner? - gli chiesi una volta raggiunta la cima del palazzo.
- Da quanto basta perché Mercury mi voglia nella sua squadra. - mi rispose lui senza nemmeno guardarmi in viso.
Quel ragazzo dal nome strambo aveva un qualcosa che mi irritava particolarmente.
- Pensi di essere un bravo Runner solo perché Merc ti ha fatto entrare nella nostra squadra?
- Penso che sono un bravo Runner e basta.
Una risata ironica uscì con vigore dalle mie labbra.
- Se lo dici tu. - commentai.
 A quel punto lui si girò verso di me.
- E tu, Faith Connors? Sei così brava come dicono in giro? - mi chiese con un fastidioso sorrisetto stampato in faccia.
- Sono brava quanto basta per non farmi ammazzare.
Rise con vigore. - Non basta sopravvivere per essere un buon Runner, credo che tu lo sappia.
Lo guardai infastidita. - Taci e seguimi. Ti faccio vedere il percorso.
 
L'aria che si respirava quella sera era la solita.
Smog, smog, smog.. sempre e solo smog.
Molte volte mi ero immaginata in un'altra vita, in un altro posto con un altro lavoro, con un altro passato alle spalle, con altra gente. L'immagine che attraversava i miei pensieri con più frequenza era quella di una Faith Connors in università. Molto spesso mi era capitato di passare sul tetto dell'università della città e troppo spesso mi ero fermata ad osservare gli studenti che entravano e uscivano dall'edificio, che studiavano, altri che non lo facevano, alcuni che ridevano, altri che si appartavano nei giardini a leggere, molti che si appartavano a far ben altro.
Io mi immaginavo lì, tra quei ragazzi, a studiare, alle volte a combinare guai, a ridere, a divertirmi, a piangere e disperarmi per gli esami andati male.. mi immaginavo lì, a vivere.
 
- Dimmi un po', Faith. Perché sei diventata una Runner?
- Non credo ti riguardi.
Camminai sul bordo del tetto per alcuni metri e dopo una rapida occhiata al piano di sotto segnai con l'indice della mano destra una scaletta di servizio poco distante.
- Scenderemo da lì. - dissi.
- Non cambiare discorso.
Mi girai verso di lui e lo guardai duramente.
- Siamo nel bel mezzo di un allenamento, non credo sia il momento giusto per parlare di certe cose.
Lui alzò gli occhi al cielo.
- Celeste mi aveva avvisato che eri un po' noiosa, ma non pensavo così tanto.
Una brivido di rabbia mi percorse tutta la schiena fino a raggiungere l'attaccatura dei capelli.
- Perché non ti vai ad allenare con Celeste allora visto che io sono così noiosa? - gli sibilai a denti stretti.
- Beh, - disse lui facendo spallucce - il fatto è che lei se la tira troppo. Preferisco te, in un certo senso. Anche se sei noiosa.
- Sta zitto.
- Va bene.
- Ho detto che devi stare zitto!
Lui alzò le braccia in segno di resa.
- Muovi quelle chiappe. - conclusi freddamente.
 
Attraversai tutta la balconata di corsa, senza fermarmi.
Ormai il sole aveva lasciato il posto ad un manto blu scuro punteggiato di piccole stelle e ad una città sovraffollata di luci e fari artificiali.
Mi fermai, anche questa volta, sul bordo.
Il bordo.
Avevo sempre avuto il vizio di fermarmi lì, soprattutto nel punto dove il tetto fa angolo.
Perché lì?
Me lo ero chiesta un sacco di volte.
"Perché da lì posso vedere ogni cosa, posso sorvegliare la città."
Secondo Merc mi fermavo troppo spesso.
- Devi correre, non ammirare il paesaggio! - mi gridava durante il mio addestramento.
Ma c'era qualcosa in quell’azione che mi accendeva qualcosa dentro, mi dava il coraggio di andare avanti, di saltare da un palazzo all'altro, di guardare giù senza avere il timore di cadere..
 
- Ma te la posso chiedere una cosa, Faithy?
- Solo se non mi chiami con quella sorta di soprannome mal pronunciato, Jackie.
Quella sera Merc ci aveva dato libera uscita.
Da quanto non succedeva?
Cioè, non era mai successo, per essere precisi.
Lui non mi ascoltò nemmeno.
- Perché hai quel vizio di fermarti sui bordi, Faithy?
Mi girai verso di lui con uno sguardo interrogativo.
- Cosa?
- Hai capito benissimo.
Lo guardai per alcuni secondi indagando la sua espressione.
- E' il mio modo di fare. - dissi facendo spallucce.
Lui rise e scosse leggermente la testa. - Ah beh.
 
Dopo aver preso una bella rincorsa spiccai un salto e atterrai con una capriola sul tetto di fronte.
Il rumore lontano delle macchine riempiva l'aria. Alcuni clacson strombazzavano alla mia destra, mentre da qualche parte di fronte a me una locomotiva di qualche genere si fermava stridendo sui binari.
Persi alcuni secondi a riallacciarmi una scarpa e dopo tornai con lo sguardo sulla città.
La Città, con la C maiuscola.
La mia casa, il mio essere, la mia quotidianità.
Molte volte avevo pensato di lasciarla, quella Città.
Perché?
Per cosa?
Ma soprattutto, per chi?
Non avevo altro posto dove andare, non avevo nessuno che mi aspettasse in un altro luogo.
Perché pensare di andare via?
Non ne avevo mai parlato con nessuno di questo mio pensiero. Mai.
Perché?
Perché sapevo che non avrei mai lasciato la Città.
Però non avevo mai pensato che qualcun altro invece potesse farlo.
Il vento mi scompigliò i capelli.
 
- Che cosa? Non puoi farlo!
- Faith, cerca di capire..
- Capire? - urlai - Cosa dovrei capire?
- Non posso più rimanere qui.
Un grosso macigno mi opprimeva il petto. Mi soffocava, mi annebbiava la vista.
- Perché? - sussurrai con le lacrime agli occhi.
- Perché è giusto così.
- Forse è giusto per te, ma non per me.
Lui si bloccò per alcuni secondi, guardandomi negli occhi.
- Mi dispiace, Faith.
I miei singhiozzi riempirono l'aria.
- Non puoi andartene!
- Tornerò, te lo prometto.
Ormai le lacrime scendevano copiose, mi solcavano il viso, le guance e l'animo.
- Ciao, Faith.
Poi scomparve, nella notte, tra i tetti dei palazzi.
 
Una singola lacrima mi solcò la guancia sinistra.
Chiusi gli occhi.
Quanto tempo era passato dalla sua partenza?
Tre anni.
Ma quanti sono tre anni?
Per me, una vita.
Quando dolore possono contenere tre anni?
Tanto.
Tantissimo.
Troppo.
Mi avvicinai al bordo del tetto e sorvegliai la Città, come facevo sempre.
Quell'azione era il mio modo di fare, era quel qualcosa che mi dava la forza e il coraggio di continuare per la mia strada, per combattere per qualcosa, per lottare per una vita migliore.
Ma non mi completava.
No, quell'azione, così importante, così necessaria non mi completava.
Lui mi completava.
Jacknife mi completava.
Con le sue battute orribili, i suoi sorrisi fastidiosi, i suoi soprannomi senza senso.
Solo lui mi completava.
E se n'era andato, tre anni fa.
Una vita fa.
La lacrima solitaria che mi aveva solcato la guancia era caduta sul cemento, formando una piccola voglia scura.
Un ultimo sguardo alla Città e poi me la lasciai alle spalle, così come i suoi ricordi.
Ripresi a correre, come sempre.
Riaccesi l'auricolare e subito la voce di Merc che sbraitava mi fece sorridere.
Il sorriso mi si riaccese.
Ripresi a saltare da un tetto all'altro.
Ripresi a combattere, a disarmare, a lottare.
Ripresi a rischiare la vita.
D'altronde quella era la mia vita, il mio presente.
Jacknife era il passato, un passato formato solo da ricordi, alcuni vivi, altri sfuocati.
Ma il passato non doveva più contare.
No, non doveva.
Ora doveva contare solo il presente e quello che esso avrebbe potuto garantire per il futuro.
Non sarei mai stata completa, mai. Ne ero consapevole, fin troppo.
Ma d'altronde dovevo sopravvivere in qualche modo, no?
Perché era questa la mia vita, sopravvivere.
Perché era la vita che avevo scelto.
Perché ero quello che avevo voluto essere.
Una Runner.
  
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