Note:
Io
non dovrei iniziare raccolte but who
cares (?).
Dovrebbero essere sei flashfic in tutto, una coppia
(da non intendersi in senso romantico) di figli ognuna più un trio perché i
supporti sono brutti e cattivi (o forse sdoppierò Morgan/Linfan,
non so ancora). Non ho segnalato ooc perché a conti
fatti parlo di personaggi durante l’infanzia, per i quali ci sono poche
indicazioni e vaghe anche sulla wikia, ma insomma,
qualche tratto diverso potreste trovarlo qua e là.
Titolo:
You’re not alone.
Personaggi: Gerome,
Inigo
Prompt: “Primo incontro” (comune a
tutta la raccolta) + “’Non sei più solo’ dici, e ridi di nuovo” (My Dearest – Supercell).
Iñigo
non riesce a fare a meno di spostare freneticamente lo sguardo un po’ ovunque,
senza alcun ordine o logica: gli occhi saettano dalla semplice bancarella del
mercato alla fontana che si vede in fondo alla via, proprio al centro della
piazza; stringe, con la piccola mano, quella minuta e delicata della madre.
Olivia lo guarda con un sorriso pieno dell’amore che solo le madri sanno
esprimere così facilmente tramite un gesto semplice come l’incurvarsi delle
labbra.
Il suo bambino conosce per la prima volta il territorio ylissiano
e il suo popolo; sa, dai racconti dei suoi genitori, che è diverso dai Regna Ferox e che è stato grazie all’allora principe d’Ylisse se lei e suo padre si sono conosciuti. Accoglie con
la meraviglia tutto ciò che vede, con la semplicità di cui sono capaci solo i
piccoli. È combattuto tra l’istinto di voler esplorare e quello di non lasciare
la mano della mamma, unica certezza in un mondo a conti fatti sconosciuto.
«V-Voglio
Minerva…» balbetta con il tono di quando si è ad un
passo dal pianto e tutto il viso, oltre alla voce, lo dimostra. Nell’ingenuità
della sua età Gerome non ha idea del fatto che gli
adulti che lo guardano, lì dov’è con aria persa e spaurita, stiano presumendo
che Minerva sia il nome di sua madre – il che, certamente, non aiuterà a
trovare quella vera. Vede solo visi sconosciuti e ha paura, cerca nel cielo la Viverna e la sua padrona, uniche due figure che potrebbero
placare il senso di improvviso abbandono che si sente dentro senza sapergli
nemmeno dare un nome.
Zelcher dice sempre che “lui è il suo ometto” – che
non sa bene cosa significhi a parte il fatto che tocca a lui badare alla sua
mamma – e quindi adesso si chiede se forse lei non sia arrabbiata perché non è
stato abbastanza bravo, e abbia deciso di lasciarlo lì finché non sarà più
forte o più alto (come i veri eroi).
E in quel momento sente una mano prendere la propria e lo sguardo incontra un
sorriso allegro e felice di bambino: «Ciao! Sei solo? Minerva è la tua mamma?
Andiamo a cercarla insieme? Mamma, è da solo!» esclama, sposta lo sguardo su
una donna e poi torna su di lui «Dai, ti aiutiamo! Io mi chiamo Iñigo, tu
come ti chiami?»
Lo tempesta di parole, di sorrisi, stringe la sua mano come se fossero amici da
sempre – Gerome non ride, ma neanche piange; si alza
in piedi e ricambia la stretta goffamente. Da bambini è tutto più facile, e
anche se quello lì non lo fa sentire sicuro come sua mamma o come Minerva, la
mano che stringe la sua è calda.
«…Io mi chiamo Gerome.»