Rinuncia forzata ed odio, mi stava tutto così bene, mi calzava a pennello.
La descrizione apatico-cinica, intendo.
E, cavolo, ero così brava, così spensierata, fottutamente sincera che ci avevano creduto tutti quanti.
I tuoi diciotto anni erano dietro l’angolo, li vedevo quasi, già immaginavo la festa alla quale non sarei venuta. Non volevo mai andare alle feste, soprattutto le tue, soprattutto quando una volta avevo scoperto che avevi trovato qualcuno.
Mi rimanevano i filmati mentali deliranti e le lacrime e cantare sotto la doccia come se volessi spezzarmi in due.
«Ehi, scusa, auguri» e tu,
sola, in compagnia del tuo tipico sguardo
impaurito, non capisti se scappare o meno.
«Grazie» non sei mai stata
quella loquace, lo ero sempre stata io.
«Scusa» troppo orgoglio per
urlarlo in quel silenzio ovattato, che mi
entrava dentro e faceva vorticare tutto il mio stomaco e faceva
svolazzare le
farfalle che ci abitavano.
«Ti scuso» così
intelligente, cazzo, mi leggevi dentro, mi avevi sempre
capito al volo ed io in quel momento avevo solo bisogno di sentirmi
meglio con
me stessa. Ti guardasti intorno, il tuo sguardo si posò su
un cupcake rosso,
con sopra una candelina azzurra spenta, perché le sfumature
più chiare del blu,
le trovavi appaganti.
«Grazie» di nuovo, con voce
tremante.
Avvampai di colpo.
«Grazie» le tue lacrime erano
nel limbo, non capivi se piangere o meno.
Ci separavano qualcosa come tre anni ed un passo,
perché stavo contando
le tue ciglia. Improvvisamente distinsi le lacrime intrappolate in
esse; scivolavano
sulle tue labbra socchiuse e non capii perché avessi bisogno
di aprire la bocca
per respirare.
Non che mi dispiacesse, perché fu
bellissimo baciarti, anche se
piangevi e se sembrava che il tuo cuore stesse perforando la tua cassa
toracica.
«EHI, STRONZA, DOVE SEI?!» alla
fine era la tua vita, quella. Non la
mia. Le voci che ti cercavano erano quelle dei tuoi amici, non dei
miei;
probabilmente non si erano nemmeno accorti della mia assenza.
«Te ne vai?» parlasti
più a te stessa.
«Odiami» risposi.
«Perché?» piangesti
ancora ed io fui tentata di darti altre migliaia di
baci.
Da mi basia mille,
deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dammi mille baci,
poi altri cento,
poi altri mille, poi per la seconda volta cento,
poi altri mille ancora, poi cento.[1]
«Perché così
sarà più facile per me fare lo stesso».
Non stavo scappando, stavo solo andando via per un
po’ di tempo, tipo
per sempre, tu rimanesti lì ad inghiottire aria per riempire
lo stomaco.
Però ti sentivi più vuota,
sempre più vuota.
Ora sai che ti dico?
Ti odio, sì, hai capito bene, ti odio.
Ad esempio odio le tue mani, con le dita lunghe e magrissime, le tue cazzo di mani da pianista, le sogno ogni notte ed odio il loro ricordo.
Odio la tua voce al miele, che ricordo ogni mattino a colazione, ma anche a scuola, quanto torno a casa e mentre dormo.
Poi, dai, guardati, seriamente, come si possono non odiare quegli occhi di cioccolato fuso che vedono, captano ogni sospiro dell’anima?
Il tuo fottuto naso all’insù; quando disegno donne bellissime hanno tutte quell’odioso nasino, come un marchio di fabbrica.
Ed i tuoi fianchi magri, la tua vita strettissima e la maglia che ti avevo regalato.
Ti odio, fanculo, ti odio.
Perché, sul serio, neanche tra mille anni potrei dimenticarti. Neanche tra altrettanti potrei smettere di desiderare le tue dita sulle mie braccia, sui miei polsi, sulla mia pelle, sul mio viso e dappertutto. Sei letale ed intossicante come una droga, non ho abbastanza forza di volontà per combatterti, forse nemmeno ne ho voglia.
Non ho più voglia di far niente, nemmeno di respirare.
Magari un giorno mi troverai da qualche parte nella tua vita e capirai, capirai ogni cosa.
Aspetterò.