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Autore: catniss    09/02/2014    3 recensioni
Stati Uniti, Kentucky.
Alaska Hurst. Diciassettenne.
Josh Hutcherson. Ventunenne.

Un passato lasciato alle spalle ma con dei conti ancora insospesi.
Un'amicizia spaccata, troncata a metà, che conserverà per sempre le crepe.
Ricordi assordanti, mancanze implacabili, uragani devastanti, demoni distruttivi. Due vite incomplete.
Due sconosciuti che si conoscono a memoria.
Vi presento Broken Strings.
"La strana intimità di quelle due rotaie. La certezza di non incontrarsi mai. L’ostinazione con cui continuano a corrersi di fianco."
-Alessandro Baricco
Siete pregati di non plagiare.
©atniss .
Genere: Drammatico, Fluff, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Broken Strings
Capitolo primo.

 
“E pensavo: forse mi ci abituerò. Non mi ci abituai mai.”
- Charles Bukowski
 
 
 
Fu una notte senza sogni, per Alaska. Una notte in cui solo il vento gelido sulla sua pelle riusciva a farla ragionare ed a tenerla sveglia.
Si sfregò gli occhi rossi e doloranti, si asciugò le lacrime che le arrivavano alla curva della mascella e si tirò una ciocca di capelli verso il basso, fino a sentire il formicolio sul cuoio capelluto.
Infine si massaggiò le tempie, quasi a voler scacciare i cattivi pensieri che le popolavano la mente.
Riprese a camminare, cercando di fare il meno rumore possibile mentre scavalcava la staccionata sul retro della casa. Si guardò alle spalle e vide il sole sorgere al di là del bosco che conosceva ormai a memoria. Strizzò gli occhi e scosse la testa; da lì a poco Rose si sarebbe svegliata e Alaska non poteva permettersi di farsi scoprire. Con un agile salto riuscì a raggiungere il davanzale della sua finestra, per poi issarsi dentro con un po’ più di fatica.
Si tolse rapida i vestiti e le scarpe, rimanendo in biancheria intima e calzini. Scivolò infine sotto le fredde coperte. Chiuse gli occhi e spense la sua mente.
I ricordi incessanti che le avevano fatto compagnia tutta notte ora si erano spenti, così come si erano accesi. Sospirò e si addormentò.
Rose intanto si era alzata, vestita e pettinata, così come ogni mattina. Ma c’era qualcosa di diverso in quel 28 settembre. Rose aveva ormai perso il conto di tutti i brividi che le avevano accarezzato dolcemente la pelle che proteggeva, a modo suo, la fragile colonna vertebrale.
Rose aveva perso ugualmente il conto dei giorni che aveva passato con Alaska. Erano troppi, ed alcuni privi di significato, ma in quel momento, non riuscì a non ricordarli ed a non rammaricarli tutti. Quei giorni che non aveva nemmeno visto passare costituivano la metà della sua vita. L’altra metà se l’era portata via John, suo marito, deceduto quando Alaska gattonava ancora.
Rose si rigirò la fede che portava ancora al dito, quasi come se la stesse cullando. Infine se la sfilò e lesse un’ultima volta le incisioni che vi erano state fatte anni prima
 
FOREVER YOURS
 
Sorrise e si avviò verso la stanza di Alaska con la tazza di thè caldo fra le mani tremolanti.
 
            La dita affusolate di Alaska percorsero istintivamente i libri sullo scaffale, accarezzandoli ed indovinandoli al solo tatto. Quando arrivò al mucchietto di lettere perfettamente chiuse e perfettamente ordinate dovette trattenere le lacrime. Perché proprio oggi? pensò.
Non le aveva mai aperte, quelle lettere, e il solo pensiero di farlo la trascinava in uno stato di panico surreale, ma l’idea di strapparle e di gettarle via era impensabile.
Difatti, Alaska era proprio così.

irrazionale
confusa
imprevedibile

 
Prese in mano il mucchio di lettere legate insieme da un nastro rosso, che slegò lentamente e con attenzione. Lo posò sullo scaffale e ammirò la carta nera delle buste, domandandosi se un giorno fosse riuscita a combattere la sua paura, ovvero quella di suo padre. Infine le ripose ordinatamente al loro posto, rimanendo a fissarle per innumerevoli istanti. Ed iniziarono i flashback.
«Tesoro» l’apostrofò Rose. Quando Alaska si voltò e vide la paura nei suoi occhi, si chiese se fosse colpa sua. Ci fu qualche secondo di silenzio, poi la ragazza, sotto richiesta della nonna, portò la tazza vuota in cucina, si vestì ed in men che non si dica fu ad aiutare la nonna nelle scuderie.
Rose accese la radio, cercando di portare un po’ di buon umore in quella giornata gelida di fine settembre.
Pulirono i cavalli e cambiarono il fieno. Nulla di nuovo. Lì, nelle vite di Rose e Alaska, i giorni passavano e bene o male, s’assomigliavano un po’ tutti.
 
Alaska salì in soffitta, salutando la nonna con un bacio sulla guancia più affettuoso del solito.
Tirò giù la scaletta che scricchiolava sotto il tuo peso ed entrò nella soffitta. Era una stanza piena di nascondigli che Alaska non aveva mai pensato di cercare ma di cui conosceva comunque l’esistenza.
Era un posto tranquillo, carico di ricordi che non le appartenevano e vecchio di anni migliori dei suoi. C’erano foto in bianco e nero, bauli chiusi con lucchetti, giocattoli rotti da mani piccole ed irascibili, oggetti di valore... ma, sopratutto, lì dentro, in quell’angolo tranquillo, c’erano ricordi.
       Alaska si sedette sul cuscino di fronte alla finestrella rotonda con il vetro scheggiato e rovinato dagli anni ma ancora ben trasparente per poter osservare il panorama;
prati verdi sgargianti, quasi fossero stati colorati a matita, boschi ripassati con i pennarelli e cieli compiuti con tempere azzurre. Alaska amava la soffitta. Le sarebbe piaciuto riordinarla e farsi un letto come quello di Heidi, con il fieno e la paglia, con le lenzuola bianche e con la neve che ti sveglia nelle mattinate invernali. Ad Alaska piaceva la sua vita, a chiunque sarebbe piaciuta d’altronde.
L’unico segreto era quello di non fermarsi a pensare.
       Ogni volta che guardava oltre la finestrella, il battito cardiaco del suo cuore iniziava ad aumentare e i suoi occhi si riempivano di vita. Si dava appuntamento con il tramonto ed era impensabile, per Alaska, mancare ad una tale meraviglia.
Era un panorama che conosceva a memoria ed amava rimanere a fissare il vuoto verde davanti a sé, senza pensare a nulla, per ore. Amava tanto osservare e notare con sollievo che tutto era come lo aveva lasciato la volta precedente, in quel panorama. Amava tanto conoscere e “padroneggiare” qualcosa di così grande perché la faceva sentire sicura e forte.
       Infine, Alaska sapeva tutto quello che doveva sapere quando si sedeva su quel cuscino di fronte alla finestrella rotonda.
Sapeva dove finiva la proprietà di Rose e dove cominciava quella degli Hutcherson.
Sapeva dove la staccionata si era rotta e dove invece era stata riverniciata, ma soltanto a metà perché i soldi per comprare altra vernice non si erano trovati. Sapeva anche dove si stagliavano gli alti alberi che aveva visto così tante volte spogliarsi delle foglie marroni, per poi ritrovarle più verdi che mai qualche mese dopo.
Si sentiva qualcun’altro, seduta su quel cuscino scucito davanti a quella finestrella scheggiata.
 
«Alaska, non abbiamo più nulla da mangiare» dichiarò Rose «vado a fare la spesa.» disse bloccando lo sguardo su Alaska.
Quest’ultima la fissò, ancora immersa a metà nel suo libro, si alzò e la baciò abitualmente sulla guancia dopo averle chiesto se avesse avuto bisogno del suo aiuto, ricevendo come al solito una risposta negativa ed un sorriso grato.
       Quando la donna sparì sotto il pavimento della soffitta, Alaska la sentì scendere le scale per poi aprire e richiudere la porta di casa. Poi, la vide sotto di sé salire in macchina e fare retromarcia. Incontrò il suo sguardo e istintivamente le sorrise. Ma Rose non rispose. Aveva lo sguardo stranamente grave e la bocca leggermente tirata. Siamo di nuovo a secco, pensò Alaska.
Si spaventò quando Gatto le si teletrasportò accanto, fissandola con i suoi grandi occhi verdi. Alaska sorrise, lo accarezzò e riprese a leggere con in sottofondo le fusa di quell’esserino minuto e morbido che era riuscito ad intrufolarsi per l’ennesima volta nella casa Hurst, sfuggendo a Rose.
       Gatto c’era sempre stato per lei. Era inseparabili anche se non stavano spesso insieme. Lui appariva quando lei ne aveva bisogno e si faceva trovare solo quando lo desiderava lui.
Si erano trovati senza volerlo e si erano appartenuti fin dalla prima carezza e dalla prima fusa.
Gatto.
Per il nome, Alaska non aveva mai avuto problemi di fantasia, anzi. Ma aveva deciso esplicitamente di mantenere la purezza di quel felino randagio, dandogli un nome solo per far sì che venga riconosciuto e non per appropriarsene come solitamente si fa.
Ovviamente Gatto non era suo, materialmente lui non sarebbe mai appartenuto a nessuno, ma entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro, anche se in modo molto profondo. Talmente profondo che nemmeno Alaska riusciva a spiegarselo.
 
L’ospite miagolò, mostrando i canini perfettamente appuntini e la lingua uncinata. Si stiracchiò dopo che un’ora era passata dalla sua apparizzione e si fece accarezzare affettuosamente la schiena dalla sua padrona, che era ancora assorta dalla quarta lettura dello stesso libro.
Ad un tratto Alaska alzò lo sguardo. Forse per caso, forse per destino.
Vide Rose rientrare. Due auto che viaggiavano nel senso opposto le si paravano di fronte.
Un sorpasso.
Un frontale.
Lo shock durò a malapena due secondi. Gatto rizzò il pelo anche se dalla finestra non aveva visto nulla; percepì la tensione elettrica nella mano di Alaska.
La reazione di quest’ultima fu al rallentatore.
Si alzò, chiuse gli occhi e quando li riaprì la testa le girava. La fronte era fredda e sudata e le sue mani tremavano.
Il cuore le si fermò per quattro secondi ed un groppo le si bloccò nella gola.
Cercò di parlare, ma si soffocò con la sua stessa saliva.
Si sporse nuovamente alla finestra; le macchine erano ferme, immobili. Come in una delle sue fotografie.
Si appoggiò alla parete ed inspirò. Ebbe l’impressione di esser finita sott’acqua.
Sentì a malapena le grida che emisero i vicini dinanzi a quell’orrore dall’altro lato della finestra. Espirò.
 
fragile
disordinata
psicologicamente instabile
 
Alzò la testa ma non vide il cielo: solo mattoni. Mattoni che la intrappolavano.
Tutto ad un tratto, quella soffitta divenne troppo. Si sentì oppressa ed instabile. Si mosse traballando e tremando.
Cacciò un urlo sordo, di frustrazione: stava impazzendo. Scendendo la scaletta cadde e sbatté pesantamente la testa sul suolo di legno. Rimase immobile altri due secondi, poi si alzò di scatto, perdendo l’equilibrio. Le vertigini stavano avendo la meglio ed il cervello le si stava informicolando.
Gridò ancora e ancora, scacciando i suoi demoni che si stavano impossessando nuovamente di lei.
Riusì finalmente ad uscire e, lasciando la porta spalancata, iniziò a correre. Strizzò numerose volte le palpebre, come per risvegliarsi da un incubo.
Alaska corse molto velocemente, a perdifiato; i polmoni le bruciavano, ma non quanto il cuore. Ansimava ed aveva paura, tanta paura.
I capelli le svolazzavano al vento, rispecchiando la confusione nella sua piccola ed incerottata anima. Perse il conto di tutte le volte che cadde e si rialzò subito dopo. Perse il conto di tutti i conati di vomito che dovette ricacciare giù. Perse il conto delle volte che dovette bloccare un urlo in gola, soffocandosi con la propria aria. Semplicemente, perse il conto. Di tutto e di tutti. Si dimenticò persino del sangue che le colava a fiotti dalle ginocchia sbucciate. E finalmente, quando vide Rose, tirata fuori dalle ormai macerie ch’eran le tre macchine, tutta sudata e sporca ebbe un colpo al cuore. Quando la vide le ci si buttò accanto, spaccandosi totalmente le ginocchia sul duro asfalto nero.
«Alaska...» sospirò Rose.
La ragazza le strinse istintivamente le mani, racchiudendole fra le sue. La voce non le usciva ed era stremata.
Tossì, Rose. Alaska ebbe un altro colpo al cuore... anzi, una fucilata proprio. Strinse le mani e se le portò dolcemente sulle guance, accarezzandole... Approfittando degli ultimi contatti fisici. Alaska sapeva. Sapeva che Rose era debole. Sapeva che ormai era più fragile di lei e che non aveva più le forze per combattere. Lo sapeva, ma non riusciva ad accettarlo.
Rose tirò Alaska verso di sé e le baciò in fronte, passò le dita fra i capelli neri e sussurrò; «Sei forte.»
La sua mano si abbassò regolare, posandosi dolcemente in grembo ad Alaska e chiuse gli occhi. «Ti voglio bene, bimbi miei.» furono le sue ultime parole.
Alaska l’osservò stordita per qualche istante, incantata dal dolore che lei stessa provava in quell’istante.
Le veniva da piangere, ma non le scese neanche una lacrima.

 



 Salve a tutti. Io mi chiamo Francesca, ma il mio "nome d'autrice" (lol) è catniss.
Ed ecco a voi Broken Strings, la prima fanfiction che pubblico ed a cui tengo immensamente.
Forse non mi crederete, ma l'ho dovuta riscrivere ben tre volte a causa della mia costante insoddisfazione e questo è il risultato finale; spero ne sia valsa la pena.
Inoltre spero anche che non ci siano errori di battitura perché non l'ho fatta leggere a nessuno. Ho potuto contare solo su me stessa.

         Beh, che dire? Io spero davvero di ricevere dei consigli costruttivi -sia positivi che negativi- per poter cercare di migliorarmi.
E penso che sia comunque importante sottolineare il fatto che questa fanfiction non sarà un clichè.
Spero vi piaccia.
Al prossimo capitolo!


catniss.


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