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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    14/02/2014    2 recensioni
“Che strane trame che intesse il destino, eh? Tu preside di una scuola tutta tua, stimata da tutto il Mondo Magico e io qui, a marcire in questa stupida cella…”
Il “per colpa tua” era sottinteso ma Silente lo colse immediatamente nel tono acido e assolutamente odioso che, lo ricordava bene, Gellert riservava solo a lui.
[Prima classificata al contest "All you need is love... (contest a pacchetti)" indetto da S.Elric_]
[Partecipa al contest "Top of the shots" indetto da Lui_LucyHP]
[Terza classificata al contest "Pacchetti misti!" indetto da Alexalovesmal]
[Quarta classificata al contest "Regalami un'OTP" indetto da _Freya Crescent_]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Nome su forum e su EFP: TheHeartIsALonelyHunter
Titolo: L’errore supremo
Rating: Giallo
Coppia e Tipo di coppia: AlbusxGellert, Slash
Lunghezza storia: 1399 parole
Pacchetto: Aguamenti
Avvertimenti: Missing moments
Note autore: So che non è propriamente amore, anzi, è tutt’altro, ma questo è il modo in cui vedo la GellertxAlbus: un rapporto segnato dall’ossessività, dalla passione, dalla crudeltà di Gellert e dall’ingenuità di Silente, dall’ambiguità del primo sui suoi sentimenti per il secondo.
Albus sente, naturalmente, solo nella sua testa Gellert, ma la storia è aperta a varie interpretazioni: è lo stesso Silente che si rimprovera dei suoi errori identificandoli con Gellert?
È Gellert che da Azkaban, in qualche modo, riesce ancora a rimanere in contatto con lui?
Si può pensare quello che si vuole naturalmente, ma il senso è quello: Gellert rappresenta tutti gli errori che Silente ha fatto, l’errore supremo che è stato quello di innamorarsi del ragazzo sbagliato.
Silente lo ricorda ancora giovane, naturalmente, ma a tratti, quando ha, diciamo “lucidità” riesce a vederlo per quello che è veramente, un po’ ciò che non ha fatto quando era giovane.
È la mia prima AlbusxGellert, e forse Albus può risultare un po’ OOC, ma io penso che spesso anche i più grandi abbiano i loro momenti di debolezza. E Silente ha veramente molti scheletri nell’armadio contro cui combattere.
 
Il viso ormai deteriorato dal passare del tempo, l’inarrestabile scorrere delle ore che segnavano l’inizio di una nuova giornata, il “buon giorno” sussurrato a fior di labbra tra i denti che suonava tanto come una minaccia.
Albus sentiva la sua presenza schiacciante in ogni singolo istante, ogni singolo movimento, in ogni articolazione di quelle ossa ormai troppo scricchiolanti per poter sostenere il peso di tutto ciò che si portava dentro da quando, tanti anni prima, aveva incontrato lui.
Il mago più potente di tutti  tempi (così era definito dall’intera comunità magica quello che tanto tempo prima aveva ucciso la sua stessa sorella) era ormai nulla più se non un vecchio, stupido rimbambito che si teneva a malapena in piedi e che era sostenuto solo dalla consapevolezza, sempre più schiacciante, dell’intera Hogwarts che contava su di lui.
“Che strane trame che intesse il destino, eh? Tu preside di una scuola tutta tua, stimata da tutto il Mondo Magico e io qui, a marcire in questa stupida cella…”
Il “per colpa tua” era sottinteso ma Silente lo colse immediatamente nel tono acido e assolutamente odioso che, lo ricordava bene, Gellert riservava solo a lui.
Si chiese come non avesse fatto a coglierlo in quella voce strascicata e sibilante come quella di un serpente quando, giovincello innocente e inconsapevole, aveva ceduto alla desiderabilità della labbra sbagliate.
Albus richiuse i pugni in uno scatto d’ira. Strano come fosse l’unico che, a distanza di anni e di esperienze, riuscisse a farlo ancora arrabbiare come nessuno c’era mai riuscito.
“Mi spieghi perché diamine non te ne vai?” domandò, la voce impregnata di quello che, ai suoi orecchi, parve inequivocabilmente odio.
Nella testa di Silente il viso di Gellert si distese in un ghigno maligno, i capelli biondi che ancora gli incorniciavano il volto giovane, gli occhi di un azzurro vispo e maligno. Gli occhi che lo avevano portato alla follia.
“Forse c’è una ragione molto semplice, non trovi?” sibilò. La voce era lievemente cadenzata, come se stesse respirando a fatica. La stessa voce che Albus sentiva ogni giorno nelle sue orecchie.
La sua voce.
La voce di chi ormai la sua vita l’ha vissuta.
La voce di un vecchio.
“Ah, sì? Perché non mi spieghi, visto che io proprio non riesco a capire?” chiese Albus, tentando di ricacciare indietro la sua immagine che, prepotente, tornava nella sua testa.
Il viso che aveva acceso le sue fantasie.
Il viso fasullo che, oramai, non c’era più se non nei suoi ricordi sbiaditi.
Doveva smetterla di illudersi, Albus, che fosse ancora lo stesso che era stato tanto tempo prima. Forse parte della cortina di perfezione con cui l’aveva avvolto nella giovinezza era restia a strapparsi, e forse, anzi, sicuramente, quello che rimaneva di quella cortina gli appannava la vista, lo rendeva cieco, come cieco l’aveva reso quando Gellert si era preso, senza ritegno, il suo cuore.
“Non mi stupisco, considerato quanto poco fossi intelligente anche prima che succedesse ciò che è successo”, sibilò il vecchio nella sua testa. Albus lo immaginò digrignare i denti davanti, come faceva ogni qualvolta desiderava schernirlo.
“Forse sono stato poco intelligente io, in fondo” lo sentì dire. Il suo viso si ritirò nell’oscurità della cella e per un istante al preside di Hogwarts (all’uomo che aveva ucciso sua sorella) parve di vedere il viso scheletrico che doveva celarsi dietro le sue fantasie di vecchio rimbambito.
“Forse non sei stato l’alleato più valido, forse avrei dovuto capirlo subito”. Lo immaginò (lo vide) stringersi nelle spalle, con un moto d’impazienza. Ricordava ancora quel movimento in ogni dettaglio, come ricordava ogni singolo movimento che Gellert compiva, tratteggiato nella sua mente come il viso di Ariana: ogni singolo dettaglio era nitido, ogni singola sfumatura dei suoi occhi definita, ogni singolo movimento delle palpebre imparato a memoria in giornate e giornate ad osservarlo col fervore di un ragazzino alla sua prima cotta.
“Ma sembravi così spregiudicato, Albus” sussurrò Gellert, in quella che sembrava più una sicura ammissione che un tentativo di schernirlo, come era suo solito. Albus fu certo che non stava scherzando o che non stava tentando di farlo stare peggio: ogni singola parola che da lì in poi avrebbe detto sarebbe stata vera. Che poi la verità fosse orrenda era un dato di fatto e null’altro.
“Così disposto a passare sopra tutto e tutti, pur di diventare il padrone della morte…”
Un brivido percorse la schiena di Albus, all’udire quella definizione: era passato tanto di quel tempo che non riusciva più neppure a ricordare quanto, precisamente, ma c’erano cose che non avrebbe mai dimenticato. Il viso di Gellert, sopra tutti. La sensazione che aveva provato la prima volta che quel ragazzo gli si era avvicinato, trionfante, un sorriso maligno impresso sul viso e gli aveva spiegato, senza troppi preamboli, quali erano i suoi progetti.
E quel brivido lungo la schiena a quelle tre parole.
Padrone della morte.
“Eri davvero un egoista, al tempo, Albus” commentò Gellert, scuotendo la testa. Il vecchio dovette appoggiarsi per un istante alla porta per non crollare a terra, mentre passato e presente si univano lentamente in un insieme disomogeneo e caotico: lui era l’Albus che era stato, il ragazzino che era corso dietro una fantomatica leggenda, il ragazzino che si era invaghito a tal punto di un amico da non vedere il male che covava in lui, o il rispettabile e conosciuto Albus Silente, preside di Hogwarts, famoso in tutto il Mondo Magico e, soprattutto, stimatissimo per il suo onore immacolato?
“Ipocriti” sibilò Gellert, tornando al tono viscido di un serpente, velenoso, pronto a colpire, pronto a uccidere. “Sai bene quanto me che ciò che scrivono è una menzogna, Albus”.
Come negarlo, in fondo? Come negare ciò che aveva sempre saputo?
“Dimmi, gli hai mai raccontato di Ariana, Albus?” domandò, sporgendosi pericolosamente verso di lui, il viso incorniciato dai boccoli biondi ben in vista, gli occhi color del ghiaccio che lo trafiggevano da parte a parte. “Gli hai mai raccontato di quando l’abbiamo uccisa?”.
Albus richiuse gli occhi, tentando di schiarirsi la mente.
Succedeva tutte le mattine, ogni giorno, senza che potesse farci nulla: lui tornava, lui tornava e gli ricordava ciò che era successo, gli ricordava, crudelmente, chi era stato. Gli ricordava ciò che mai avrebbe voluto ricordare.
Gli ricordava che, in fondo, era solo un assassino.
“Gli hai mai raccontato di noi, Albus?”.
Il preside rimase stupito nel notare, nell’intonazione della voce di quello che una volta era stato molto più di un amico, qualcosa che assomigliava vagamente al dolore. Poteva averlo immaginato, certo. E il suo viso, che ora iniziava lievemente a svanire nell’oscurità della sua mente, nel pozzo dei suoi pensieri, un altro dei tanti che vorticavano nel Pensatoio quando lo usava, non aiutava a decifrare quali fossero le vere emozioni di Gellert.
“No, certo che non gli hai mai detto di noi…” sussurrò quello, i capelli di un biondo sporco che ora divenivano fili bianchi spessi e sottili. “Come avresti potuto? Il più grande mago di tutti i tempi…”
Scosse la testa, o almeno a Albus sembrò che fosse così: non riusciva più nemmeno a distinguerne i tratti, il mento pronunciato, la fronte alta, gli occhi profondi, le guance rosee di giovinezza.
“… E uno dei più grandi Maghi Oscuri di sempre?”
Albus chiuse gli occhi. La sua immagine, seppure svanita lievemente nella nebbia nera dei suoi pensieri era sempre lì, monito eterno della sua colpa.
“Come dicevamo, Albus?”. Un sorriso scaltro increspò per un istante il viso incartapecorito di un vecchio dagli occhi ancora di un azzurro glaciale. “ ‘L’ultimo nemico sconfitto sarà la morte’?”
Poi anche ciò che rimaneva del volto tanto amato svanì, risucchiato via d’improvviso, con la velocità e la potenza di un gorgo che increspa la superficie del mare.
Ma la voce rimase.
Come ogni mattina, come ogni giorno.
“Eravamo davvero così presuntuosi da credere che la morte fosse uno dei tanti nemici da sconfiggere?”. La riconosceva in ogni sfumatura, in ogni accento, in ogni tonalità. Poteva vedere le sue labbra muoversi seguendo il flusso delle parole, se riapriva gli occhi e si concentrava. Poteva vedere, chiaro e nitido, il suo viso che sorrideva scaltro.
Poi, altra foschia.
E solo delle ultime parole.
“Io smetterò di venire quando tu smetterai di chiamarmi, Albus Silente”.
Lo poteva vedere mentre rideva sguaiatamente, di lui, di sé stesso, di loro.
Perché, Gellert lo sapeva quanto Albus lo sapeva, non avrebbe mai smesso di chiamarlo.

IMMAGINE NON MIA!

 
  
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