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Autore: EsterElle    14/02/2014    5 recensioni
Nella terra di Cadmow tutto sta per cambiare. L’armonia che vi ha sempre regnato, l’equilibrio voluto da Dira, la perfetta partizione di un potere enorme: ogni cosa è destinata ad essere sconvolta. Sconvolta, per rinascere a nuova vita.
Ambizione, tradimento, menzogne e segreti; un velo cupo si stende sulla storia delle quattro Regioni. A districarsi tra le torbide acque del mare in tempesta sono due ragazzi, destinati ad essere nemici, entrambi simboli del cambiamento.
Come salvarsi dal crollo di una civiltà? Come sanare un mondo destinato alla rovina?
“Noi siamo Guardiani per volere di Dira e Dira ha fatto si che, per millenni, quattro Guardiani proteggessero il suo popolo. Questa è la Grande Magia, questa è la Sua volontà. Chi sei tu per sovvertire le leggi della natura?”
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE PRIMA: L'INIZIO


Capitolo 1 
Imbris


 
Dimitar Pavalon stava giocando in una pozza di fango davanti la porta di casa sua. Suo padre non era andato al lavoro, quel giorno, né i due precedenti, così come i suoi cinque fratelli maggiori;  l’aria nella loro piccola casetta a schiera si era fatta irrespirabile, ormai. Il piccolo Dima, però, era un bambino furbo: aveva scoperto in fretta che, più tempo passava fuori casa, meno schiaffi avrebbe ricevuto da sua madre. Così, erano tre giorni che il bambino raggiungeva i suoi familiari solo per l’ora di cena.
“Odio queste stupide Cerimonie” disse, mentre con un legnetto spingeva la sua piccola barca di carta sull’acqua torbida, sporco di fango fino alle ginocchia. Tirò su col naso e si pulì dal muco colato sul labbro con la manica della camicetta lacera.
Dimitar Pavalon e la sua famiglia erano cittadini della Regione del Nord, ma non avevano niente a che fare con le soffici nevicate e i laghetti ghiacciati dell’interno. Partendo da Nenjaat, la splendida e popolosa capitale, e procedendo verso sud-ovest, dopo dodici, sfiancanti, ore di viaggio, si giungeva alla piccola città di Imbris, assai vicina al confine con la Regione dell’Ovest.
Ad Imbris non c’erano né ghiaccio né neve: ad Imbris a farla da padrona era la pioggia. Un’incessante, gelida, rovinosa pioggia. Una pioggia grigia che popolava il cielo di nuvole scure e le strade sterrate di fango. Ed il fango era il passatempo principale dei bambini come Dima. Castelli di fango, buche nel fango, il mostro di fango, la pista per le biglie nel fango: nessun bambino, in tutta Imbris, poteva vantarsi di avere mani e piedi completamente puliti. E, in verità, nemmeno nessun uomo. La maggior parte di loro, infatti, lavorava nelle miniere di carbone a pochi kilometri dalla città, tra le montagne. I loro scarponi e i loro vestiti portavano una fine polvere nera nelle case, nei letti, sulle loro tavole. Sulle guance dei bambini e delle mogli ogni qual volta si chinavano a baciarli.
Nemmeno l’acqua del pozzo era limpida: si respirava e si assumeva quella polvere sottile ad ogni ora del giorno e della notte.
Ad Imbris quella era la normalità.
Dima stava giocando tranquillo con la sua barchetta quando sua madre uscì come una furia dalla porta di casa. Appena la vide, il bambino scattò in piedi e si guardò intorno, alla ricerca di una via di fuga. Si trovava in una stretta via, circondata da entrambi i lati da casette a schiera: era in trappola.
“Non provare nemmeno a correre via da qualche parte Dimitar Pavalon” abbaiò sua madre, allontanandosi dal volto alcune ciocche dei capelli scarmigliati. Si avvicinò al bambino e, trascinandolo per un braccio, lo portò dentro.
La casa era buia e piena del fumo del tabacco utilizzato da due dei suoi fratelli. L’aria era carica di tensione: gli uomini di casa erano stanchi e nervosi a causa della forzata convivenza e dell’inattività.
Suo padre stava scrupolosamente pulendo e lucidando il suo fucile da caccia, che gli era più caro di almeno tre figli. Koboi e Newpt giocavano rumorosamente a carte, fumando come ciminiere, mentre Terensk grugniva e russava sull’unico divano della stanza. Belt si tagliava le unghie dei piedi sul consunto tappeto appartenuto alla bisnonna. Solo Senio, il più basso e minuto del gruppo, non molto sveglio, era stato arruolato dalla madre e pelava un cumulo di patate con aria afflitta.
 Quei sei grossi uomini, alti, con la barba lunga e puzzolenti di vino e tabacco, sembravano riempire tutta la stanza e il piccolo Dima si sentiva soffocare.
“Prendi questa e vieni con me al fiume” gli ordinò sua madre a voce alta, mettendogli davanti una grossa cesta di vimini piena di vestiti sporchi.
“Ma, mamma…” aveva iniziato a lagnarsi Dima, prima di essere bruscamente interrotto da un sonoro schiaffo sulla guancia.
“Fallo e basta!” sbraitò sua madre e, caricandosi sulla testa un cesto ancora più grosso di quello di Dima, lo precedette fuori.
Il bambino tirò nuovamente su col naso e afferrò il suo fardello. Uscito, si chiuse la porta alle spalle, soffocando il rumore di Koboi e Newpt che davano inizio ad una zuffa e le urla di loro padre, furioso per essere stato distolto dalla sua occupazione.
“Io odio, odio, queste stupide Cerimonie!” urlò a sua volta, mentre si incamminava verso il fiume.
-Quando papà e gli altri sono al lavoro, mamma non è così cattiva con me- pensava, mentre calciava tutti i sassolini che incrociava sulla strada sterrata.
-Ma quello stupido Guardiano doveva morire proprio adesso?-
Il piccolo Dima, però, stava per ricevere una bella sorpresa: giunto al fiume, infatti, il suo umore migliorò di gran lunga.
“Ehi, Dima!” lo salutò da lontano un ragazzino cencioso, immerso nell’acqua fino alla vita.
“Teppe!” urlò lui, correndogli incontro.
Teppedore era il suo migliore amico e il bambino fece un gran sorriso nella sua direzione. Lavare i panni in compagnia di Teppe era tutta un’altra storia!
Anche lui era lì con sua madre e, ben presto, le due donne li misero a strizzare le lenzuola. I bambini, sul prato, inventarono un gioco: ognuno di loro stringeva tra le mani un’estremità del panno zuppo e, correndo in cerchio, dovevano arrotolare quel lungo serpentone. Si scontrarono, risero, caddero, si bagnarono, ben lontani dagli sguardi severi delle loro madri.
Ad un certo punto iniziò a piovigginare, ma gli abitanti di Imbris convivevano da troppe generazioni con la pioggia per farsi spaventare da poche gocce.
Quando il contenuto delle ceste fu ben lavato e strizzato, le donne e i bambini utilizzarono alcuni vecchi fili tesi tra due aceri lì vicino per stendere.
“Resta qui, Dima, finché sarà tutto asciutto. Poi raccogli e torna indietro” gli disse brusca sua madre, prima di avviarsi verso casa, dove l’aspettava il pranzo da preparare.
“Lo stesso vale per te, Teppe” aggiunse l’altra donna.
I bambini, rimasti soli, si stesero supini sull’erba umida, esattamente sotto i panni appena stesi, gocciolanti e profumati. Per un po’ giocarono a chi riusciva a prendere più gocce d’acqua sul palmo di una mano.
“Sai che giorno è oggi?” chiese ad un tratto Teppe all’amico, stufo del loro gioco.
“Si, è martedì”
“Ma no, non intendevo quello! Oggi è il giorno della Cerimonia della Carta”
“Ah, già. Io odio le Cerimonie”
“Tutte?”
“Si”
“Ma se non ne hai mai vista una!”
“E chi se ne importa? Le odio perché fanno chiudere le miniere e Belt, quando è a casa, si diverte a mettermi la testa nella minestra ad ogni pranzo”
“ Beh, a me questa Cerimonia piace”
“Non ci credo”
“Dico davvero!”
“Lo giuri?”
“Si! Giuro sul mio bottone rosso e blu”
“Va bene. Perché ti piace?”
“Perché oggi scelgono il nuovo Guardiano del Nord”
“A me non me ne frega niente dei Guardiani. Tanto non si fanno mai vedere, quaggiù”
“Magari stai parlando con un Guardiano proprio adesso”
“Ma cosa dici! Certo che tu le bugie le sai dire proprio bene”
“Guarda che non è una bugia”
“E secondo te io ci credo? Dici sempre così”
“E invece no. Me l’ha spiegato mia zia Laurine e lei fa l’insegnante, quindi sa un sacco di cose”
“Ma cosa?”
“Mi ha detto che oggi scelgono il Guardiano tra tutti i bambini di dieci anni della Regione del Nord e io ho compiuto dieci anni tre settimane fa”
“Ma è impossibile! Come fanno a conoscere tutti i bambini e scegliere quello giusto? E come fai a capire se sei stato scelto?”
“Non lo so, ma so che è vero”
“Va beh, tanto a me non interessa. Mamma dice che io ho già undici anni”
“Se oggi mi scelgono, ti porto a Nenjaat con me. Staremo insieme al Palazzo e potremmo giocare tutto il tempo”
“Promesso?”
“Promesso. Lo giuro sul mio bottone rosso e blu”
I bambini sputarono sui palmi e si strinsero le mani.
“Dim, per me questa roba è asciutta. Ritiriamo?” propose Teppe, alzandosi.
“Si. Ma facciamo veloce, sono stanco morto” rispose Dima, sbadigliando vistosamente.
Con gesti lenti ma esperti i due piegarono la biancheria lavata e la riposero nelle rispettive ceste. Dima, però, sembrava sempre più provato.
“Ehi, Teppe, io mi siedo un attimo. Mi gira un sacco la testa” disse all’amico.
“Io conosco un trucco infallibile per far passare il mal di testa” disse quello, sedendosi al suo fianco.
“Guarda che a me la testa gira, non fa male” replicò Dima, in preda alla nausea.
“Fidati, me l’ha insegnato zia Laurine” insistette Teppe. “Dai, dammi la mano”
Dima non mosse un dito ma chiuse gli occhi: aveva voglia di vomitare.
Teppe allungò il braccino ossuto e prese tra le sue la mano sporca e callosa dell’amico.
“Guarda” spiegò. “Adesso prendo tra il pollice e l’indice la parte di pelle tra il tuo pollice e il tuo indice e la massaggio, così” disse, mettendosi al lavoro.
Il povero Dima, sempre più bianco, nemmeno sentiva le parole dell’amico.
“Meglio, vero?” chiese Teppe, con un gran sorriso.
Dima mugugnò qualcosa di indistinto e, voltando la testa dall’altra parte, vomitò la sua scarsa colazione.
“Oh, cavolo, Dima!” si allarmò Teppe, alzandosi in piedi vagamente schifato.
“Te l’avevo detto che non funzionava” replicò debolmente il bambino.
Subito fu scosso da un altro conato e, pochi minuti dopo, da un terzo. Vomitò bile per l’ultima volta e poi si stese supino sull’erba, pallido come un fantasma.
“Forza, amico, adesso starai meglio” continuò a ripetere Teppe, non sapendo cos’altro fare.
Quando dal naso del bambino iniziò ad uscire sangue a fiotti, però, Teppe perse completamente il controllo, iniziando a balbettare incoerentemente.
“Cavolo, Dima” piagnucolò, torcendosi le mani.
Corse al cesto della biancheria appena lavata, prese una canottiera e con quella cercò di frenare il flusso di sangue che macchiava la camicia già lurida dell’amico.
“Senti, adesso io vado giù, in città, e porto qui tua madre. Mi senti Dima? Ora vado via, ma torno, torno presto” disse Teppe, sporcando le guance del bambino col sangue della canottiera, mentre cercava contemporaneamente di sollevargli le palpebre e tamponare il naso.
Con le lacrime agli occhi si alzò in piedi e, stringendo ancora tra le mani la canottiera intrisa di sangue, corse come un pazzo giù per la collinetta, lungo la strada sterrata.
Dima rimase lì, immobile, cosciente per metà, steso sotto i fili vuoti della biancheria.
Passò un quarto d’ora e poi mezz’ora. Iniziò a piovere e questa volta non fu la pioggerella sottile della mattina. Dal cielo caddero grosse gocce di pioggia gelida e il bambino, ormai privo di sensi, fu presto circondato da una gigantesca pozza di fango.
Passò un’ora e poi un’altra e la pioggia si trasformò in un violento temporale.
Dima era prigioniero della sua testa; non aveva alcuna coscienza del suo corpo, dei vestiti zuppi e del fango.
Sognava di nuotare in un lago gigantesco, senza confini: una voce, nella sua testa, gli suggeriva la parola “mare”. Sognava di immergere la testa sott’acqua e non aver più bisogno di respirare. Sognava di nuotare tra le profondità di quel “mare” e di scoprire mondi nuovi e meravigliosi. Sognava di risalire in superficie e ridere alla vista del ghiaccio che lo circondava. Sognava di giocare a incidere tutte le parole che conosceva, poche, su quelle lastre spesse e fredde.
Era un davvero un bel sogno e non desiderava affatto svegliarsi. Eppure, qualcosa lo disturbava: ai margini della sua testa sentiva una voce, acuta e cristallina, che rideva gioiosa. Avrebbe tanto voluto scoprire qualcosa in più su quella voce, magari invitarla a giocare con lui, ma ormai sentiva che stava per svegliarsi. Era come se qualcuno lo strattonasse per un braccio e, quando aprì gli occhi, vide il volto di sua madre sopra di lui.
“Si è svegliato, il nostro figlio-di-re” disse, sarcastica.
“Mamma?” la interrogò il bambino, confuso.
Come risposta ricevette due violenti ceffoni sulle guance. Immediatamente i suoi occhi si riempirono di lacrime, per il bruciore e la delusione.
“Dimmi, come diavolo ti è venuto in mente di addormentarti?” stava sbraitando sua madre. “Ti sei addormentato e adesso il bucato è da rifare da capo!” urlò ancora, indicando le ceste piene di panni zuppi e infangati.
“Brutto scansafatiche! Ingrato di un figlio!” continuò, strattonando il bambino per rimetterlo in piedi e sottolineando ogni parola con uno schiaffo.
“Hai anche avuto il coraggio di mandarmi a chiamare da quello screanzato di Teppedore!Voleva che lo venissi a prendere, il signorino. Non le hai le gambe per tornartene da solo, eh, fannullone? Durante il pranzo, per di più! Lo sai come reagisce tuo padre se mi allontano durante il pranzo!”
Sembrava parlasse senza mai tirare fiato, rossa in viso e con gli occhi lucidi per lo sforzo. Dima, ancora provato dal suo malore, non reagì in nessun modo, ma un fiume di lacrime sgorgò senza controllo dai suoi occhi.
“Nemmeno il temporale ti ha fatto tornare! Ho dovuto aspettare che spiovesse e venirti a prendere io stessa!” continuò indignata, alzando le braccia al cielo.
“Ma adesso io e te facciamo i conti. Di quel bugiardo di Teppedore si sta già occupando sua madre; tu aspetta solo che racconti cosa hai combinato a tuo padre” minacciò, afferrandogli una mano e trascinandolo giù per la collina.
A Dima girava la testa e incespicava nei suoi stessi piedi, ma la donna sembrava non notarlo, tanto era presa dalla sua furia.
“Cosa ho fatto io per meritare tutto questo, cosa ? Per Dira, che cosa?” continuò a mormorare tra sé e sé lungo tutta la strada.
Arrivati a casa la madre non mantenne la promessa di riferire l’accaduto al marito. Si limitò a far sedere il bambino al tavolo e sbattergli davanti un avanzo di minestra alle patate, mentre gli uomini di casa si preparavano ad andare in paese. Dima aveva poco appetito, ma si sforzò di non lasciare nemmeno una briciola nel piatto.
Era pomeriggio inoltrato quando sua madre lo obbligò a spostarsi sul panchetto di legno addossato alla parete della casa, fuori, accanto alla porta d’ingresso. La donna lo raggiunse con le braccia cariche degli scarponi da lavoro del padre e dei fratelli. Pieni di fango e polvere, erano ridotti in condizioni pietose. Gli diede anche un catino d’acqua, una spazzola e del lucido.  
“Adesso tu te ne stai qui e pulisci come si deve queste scarpe, chiaro? E se combini qualche altro pasticcio dovrai vedertela direttamente con tuo padre!” minacciò per l’ennesima volta prima di tornare in casa, presa da una delle sue mille faccende.
Il padre ed i fratelli non erano ancora tornati: probabilmente erano andati al mercato in Piazza Rota, per spezzare la monotonia e sbrigare qualche commissione. Così, Dima lavorò tranquillamente per un paio d’ore.
Stava osservando il tramonto, rosso fuoco, mentre lucidava la punta dell’ultimo stivale del mucchio, quando un prurito fortissimo alla spalla destra lo costrinse a contorcersi su se stesso, nel tentativo di raggiungere il punto preciso con la mano. Dima era un esperto di pruriti: vivendo nel fango delle strade di Imbris, rotolandosi nei prati e facendo il bagno nel fiume, non era certo la prima volta che sentiva qualche parte del corpo pizzicare e formicolare. Non si allarmò e, quando capì che non riusciva a raggiungere  la spalla con la mano, iniziò a sfregare la sua piccola schiena sulla parete non intonacata della casa.
“Molto meglio” mormorò, sorridendo tra sé e sé. 
Eppure, in quel prurito c’era qualcosa di strano. Non solo il fastidio non diminuiva man mano che il bambino sfregava il punto dolente sulla superficie ruvida, ma sembrava peggiorare sempre di più. Leggermente allarmato fece scorrere la mano sulla spalla, temendo di raccogliere tracce di sangue: ma, quando la riportò davanti agli occhi, il suo palmo era calloso e sporco come sempre.
“Ahia!” si lagnò Dima, guardandosi intorno in cerca di aiuto. La strada era deserta e buia, e tutti i vicini iniziavano a raccogliersi intorno ai tavoli, per la cena. Se Dima fosse stato un bambino normale, sarebbe subito corso dalla mamma in lacrime, pretendendo una piccola magia che facesse passare il dolore all’istante: ma Dima era un bambino cresciuto nel fango di Imbris e la madri di quella città non facevano nessuna magia. Se avesse osato correre da sua madre avrebbe ricevuto solo altri schiaffi.
“Ahia” piagnucolò di nuovo, un po’ più forte. Quello che era nato come un leggero prurito si era trasformato in un dolore intenso, fatto di tante piccole fitte sulla sua spalla. Dima non sapeva cosa fare, né da chi andare: aveva tanta voglia di urlare ma era terrorizzato all’idea di indispettire sua madre, indaffarata a preparare la cena.
Si contorse sul panchetto ancora per qualche minuto ma, infine, non sopportando più il bruciore, corse in casa, diretto nel suo letto
“Dima! Se hai finito, porta dentro quelle scarpe!” lo rimproverò sua madre quando le passò davanti. Il bambino quasi non la sentì, mentre, con gli pieni di lacrime, si rannicchiava sotto le coperte, dondolandosi leggermente a destra e a sinistra.
La donna, desiderosa di essere ubbidita, decise di non dar tregua al bambino, e quella fu la sua fortuna. Quando vide il più piccolo dei suoi figli gemere rannicchiato sotto le coperte mentre inondava il cuscino di lacrime, qualcosa si mosse dentro di lei. Tutta la furia, tutta la delusione e l’amarezza che provava nei confronti della vita scomparve per un secondo, davanti ad una creatura tanto indifesa. In fondo, non era colpa del bambino se lei era condannata a dividere il resto della sua vita con un bruto e far da serva a un branco di rozzi uomini di miniera.
“Cosa stai facendo?” disse brusca, avvicinandosi al lettino. Da molti anni aveva disimparato ad usare la gentilezza: da troppo tempo la sua voce aveva assunto quella durezza che faceva sembrare ogni parola un rimprovero.
“Niente” mormorò il bambino, voltando il viso dall’altra parte, per proteggerlo dallo schiaffo che, ne era certo, sarebbe presto arrivato.
“Allora perché piagnucoli come uno stupido?” insistette lei, restando ferma al suo posto.
Dima sollevò leggermente il volto e sbirciò sua madre, rigida ai piedi del letto: sembrava arrabbiata, come sempre, ma ancora non si era nemmeno avvicinata per picchiarlo. Si fece coraggio e con un filo di voce disse:
“Mi fa male una spalla”
“Una spalla? Tutte queste storie per un dolorino alla spalla? Sei proprio uno frignone. Fammi vedere!” ordinò, avvicinandosi e girandolo bruscamente sulla pancia. Ora Dima premeva dolorosamente il volto sul cuscino, mentre sua madre sollevava le coperte e la camicetta sporca. La donna iniziò ad esplorargli la schiena con le dita fredde: la pelle era un fiorire di croste e lividi, tutti i segni dei piccoli incidenti che fronteggiava il ragazzo ogni giorno. In alto, però, sulla spalla destra, c’era qualcosa di insolito, qualcosa che la donna non aveva mai visto.
“Aspetta qui” gli ordinò.
Il bambino non avrebbe potuto fare altrimenti: accecato dal dolore, si lamentava piano, soffocando i singhiozzi con la stoffa dura della federa del cuscino. Non si spiegava la fonte di tutto quel bruciore: voleva solo che smettesse immediatamente.
La donna tornò presso il lettino con un panno umido e, poco delicatamente, iniziò a strofinare la porzione di pelle subito sotto la spalla dolorante del ragazzo. Quello proruppe subito in agghiaccianti grida di dolore ma la madre non ci fece caso finché la pelle sotto il panno non fu perfettamente pulita.
Fu allora che trattenne rumorosamente il fiato.
“Per tutti i nomi di Dira” disse in un sussurro, passando con leggerezza le dita sulla pelle arrossata.
Dima continuava a piangere e dimenarsi, senza prestare orecchio alla madre, dimentico della paura che gli aveva suscitato il solo pensiero di farsi toccare da lei.
“Taci, ragazzo!” gli ordinò quella, mentre si passava le mani tra i capelli con aria sconvolta.
“Ti prego, mamma! Mi fa male!” singhiozzò disperatamente.
La donna non poteva sentire il bambino: persa nei suoi pensieri, aveva il volto sconvolto da un profondo turbamento. Sedette sul bordo del letto e tornò ad osservare con attenzione la spalla del figlio: sulla pelle arrossata era ben visibile un piccolo marchio traslucido, di un azzurro chiarissimo, che richiamava la forma di un cristallo di neve. Anzi, riproduceva esattamente il più bel cristallo di neve che lei avesse mai visto, ma solo per metà: era un’immagine incompleta.
“Ma cosa vuol dire?” chiese a se stessa, passandosi una mano sul volto. Un’idea, leggera ed azzardata, stava prendendo forma ai margini della sua mente, ma lei per prima non osava prestarvi fede.
Quando la porta d’ingresso  si spalancò di colpo, andando fragorosamente a sbattere contro il muro, la donna era ancora persa nelle sue supposizioni e sobbalzò leggermente.
“Lorrein, dove diavolo è la cena?” disse una voce aspra e avvinazzata. Gli uomini erano tornati dal paese stanchi ed affamati, e il capo famiglia sembrava stesse per mettere in scena una delle sue peggiori sfuriate.
“Che cos’è tutta questa confusione?” chiese l’ingenuo Senio quando il padre smise di sbraitare, prestando orecchio al pianto disperato del povero Dima.
“Quell’idiota di Dima le ha prese un’altra volta” rise Terensk, sputando un grumo di saliva e tabacco nell’angolo più buio della stanza.
“Lorrein!” urlò con impazienza il marito alla moglie, mentre si lasciava pesantemente cadere sul vecchio divano sfondato.
La donna comparve dalla stanza adiacente, scarmigliata e pallida in volto, accompagnata dalle grida del bambino.
“Hanse, devi venire immediatamente” disse al marito.
“Stupida donna, chi ti fa credere che mi alzerò da questo divano? Pretendo la mia cena, ora!” disse, furioso, senza nemmeno guardare la moglie.
“Ragazzi, almeno uno di voi. Ho bisogno del vostro aiuto” supplicò lei, con un tono talmente nuovo che costrinse tutti i suoi figli ad osservarla meravigliati.
“Smettila di seccarci con i tuoi stupidi problemi di donna e vedi di far tacere il ragazzo. Mi sta perforando i timpani” replicò l’uomo, sfilandosi gli stivali e lanciandoli nel bel mezzo della stanza.
“Sta succedendo qualcosa a Dima, Hanse. Ma non ho la più pallida idea di cosa sia” iniziò a spiegare lei, cercando di sovrastare i singhiozzi del bambino nell’altra stanza, mentre gli altri suoi figli frugavano rumorosamente nella dispensa alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
“Gli passerà. Adesso, però, non spingere la mia pazienza oltre i limiti. Ho fame e voglio mangiare”
“Bene, ti preparerò da mangiare. Poi porterò il ragazzo dal Guaritore Gens” disse lei, coraggiosamente.
“Ma sei impazzita, donna? Il Guaritore Gens? E con quali soldi vorresti pagarlo?”
“Abbiamo dei risparmi”
“Io non lavoro come un mulo giorno e notte per assecondare i capricci di un ragazzino viziato!” sbraitò l’uomo avvicinandosi minacciosamente alla moglie. Tutti, ad Imbris, erano a conoscenza di quanto Hanse Pavalon fosse una testa calda e nessuno, se poteva, osava sfidarlo, men che meno sua moglie. Hanse non era un uomo malvagio: solo, non voleva essere contraddetto, mai.
“Se i tuoi figli sono degli smidollati non è colpa mia. Di certo non alzerò un dito per aiutarli. Se il ragazzo sta male, lascialo urlare per tutta la notte e vedrai che al mattino si sentirà meglio!” continuò, a pochi centimetri dal volto sfatto della donna.
“Stupido, ignorante, presuntuoso di un uomo” urlò lei, più forte del marito e del figlio piangente messi insieme. “Questa potrebbe essere la nostra fortuna e tu la stai buttando via!” continuò. Hanse, però, aveva ascoltato solo in parte: non appena gli insulti erano usciti dalle labbra della donna,  il suo volto si era fatto rosso per la collera e una vena aveva iniziato a pulsargli minacciosamente sulla tempia.
“Cosa hai detto? Come hai osato offendere in questo modo tuo marito, donna?” sibilò afferrando il polso della moglie e torcendolo tanto forte da farla urlare nuovamente.
“Smettila, schifoso ubriacone!” cercò di difendersi lei, dimenandosi con forza.
“Ti insegnerò io cos’è il rispetto per il proprio uomo” disse lui, prima colpirla con forza sulla guancia. Lorrein cadde a terra, impotente davanti alla forza bruta del marito. I suoi cinque, grossi, figli non osarono intervenire in sua difesa; il temperamento burrascoso e violento del padre terrorizzava anche loro.
Fu un ragazzino sporco e lacrimoso a precipitarsi davanti all’uomo. Dima sembrava lo stesso bambino di sempre agli occhi del padre, che non si era mai davvero soffermato ad osservarlo.
“Adesso smettila!” disse il ragazzo, col tono di voce più fermo e gelido che un bambino di undici anni avesse mai avuto.
“Eccolo, il nostro re! Sei venuto a prendere la tua parte?” replicò il padre, beffardo. Sollevò il braccio e stava per abbatterlo sulla guancia umida del bambino quando, improvvisamente, lasciò la mano sospesa a mezz’aria. Dimitar lo stava osservando  con occhi di ghiaccio. Un potente vento gelido si sollevò nella stanza: presto il padre fu gettato a terra, così come i fratelli, mentre una furiosa tempesta di neve imperversava senza pietà nella piccola casa.
Dima stesso si accasciò sul pavimento ricoperto di neve, lasciando che sull’intera stanza piombasse il più gelido degli inverni.




Note
Ciao a tutti! Mi sembra davvero strano parlare con dei possibili, virtuali, lettori!!!
Oggi ho finalmente deciso di pubblicare il primo capitolo di questa storia, che mi ronza nella testa ormai da anni; l'ho riletto, rivisto, modificato, tagliato e allungato almeno un centinaio di volte! Infine ho deciso di accantonare per un momento tutte le critiche che muovevo a me stessa e di ascoltare il parere di chi, questo testo, non l'ha visto nascere e crescere sotto i propri occhi! Per questo motivo sarebbe importantissimo, per me, ricervere qualche vostra recensione, giusto per sapere se sto andando nella direzione giusta!

Grazie,
EsterElle
  
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