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Autore: The_Last_Change    15/02/2014    2 recensioni
Two-Shot dedicata a Stranger in Moscow di Michael Jackson. È stata molto difficile scriverla, anche perché non è facile riuscire ad addentrarsi negli anni del clamore mediatico suscitato dalle accuse di pedofilia mosse contro di lui. Detto questo, ecco uno stralcio del racconto, spero vi piaccia!
"Continuava a guardare la sua guardia del corpo. Le braccia sul petto, la sua ombra da dietro si erigeva imponente sulla porta della sua camera d'albergo. Più grande di lui, più alta. Un altro ostacolo impossibile da valicare, avvolto nella penombra della notte . Chissà cosa a stava pensando, dietro a quegli occhiali da sole e quell'espressione apparentemente insofferente. Magari alla sua famiglia, ai suoi bambini.
Sospirò, rassegnato. Fece spallucce e provò a sorridere. Si sistemò la sciarpa nera, nascose il naso per sfuggire alla morsa del freddo pungente di Mosca e infilò le mani nelle tasche della giacca di velluto. Nonostante la temperatura esterna fosse di poco superiore allo zero, l'albergo sembrava il più inospitale di tutti quelli in cui aveva soggiornato: era privo di emozioni, privo d'amore".
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Michael Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stranger in Moscow - Rincorrere un fantasma venuto da Ovest

"Come ci si sente?

Come ci si sente quando sei solo, solo nel tuo dolore?

Come ci si sente ad essere considerato un pazzo?

Come ci si sente quando  ti accorgi  l'unica cosa che volevi era amare e essere amato?

Come ci si sente?"

- Perché non posso uscire?-

- Ma lo sai Michael, è inutile che te lo dico. Quelli sono in grado di fare qualsiasi cosa-

- Prima di tutto, chiamali come vogliono essere chiamati. Loro sono i miei fans, sono il mio amore e mi aspettano lì. Perché non posso prendermi tutto quell'amore? Cosa c'è di male? E poi non vedi che sta piovendo? Loro sono qua sotto, senza ombrelli. Potrebbero ammalarsi, ma a loro non importa. Sono qui, e vogliono amore. Io ho bisogno del loro amore-

Dopo quella parola, il silenzio. Uno sguardo nero, intenso e pieno di sofferenza, cercò di sfidare un paio di occhi vitrei, fermi e convinti nella loro sicurezza. Un ostacolo troppo difficile da superare, e lo sapeva. Ma non aveva importanza. Nonostante tutto, cercava disperatamente un contatto, un patetico scambio di emozioni. Voleva capire ciò che non poteva comprendere.

Sua madre gli diceva sempre che dietro lo sguardo si nasconde la sofferenza di un essere umano.

Anche la persona più felice nasconde qualcosa dietro l'ombra dei suoi occhi, qualcosa che cerca di dimenticare per paura di incontrare i fantasmi della sua vita. Ecco perché quando parlava con una persona cercava di guardarla sempre negli occhi: per cogliere ogni sua sfaccettatura nei minimi particolari. Eppure, strano a dirsi, era lui che fuggiva dietro la sua timidezza e il suo sorriso dolce per nascondersi, nella speranza di trovare quello che aveva sempre voluto: l'amore. Un diritto sacrosanto per tutti i bambini, tranne che per lui.

No, perché a 5 anni era già Michael Jackson: il ragazzino con la band, quello si esibiva nei club dei neri prima delle spogliarelliste, di sera. Quando i bambini dormivano. Fino a quando non iniziò a registrare album insieme ai suoi fratelli, credeva di essere un bambino anche lui. 

E invece no: lui era un adulto cresciuto troppo in fretta. 

Aveva l'impressione che gli stessero privando l'amore che non aveva potuto godere da piccolo. 

Continuava a guardare la sua guardia del corpo. Le braccia sul petto, la sua ombra da dietro si erigeva imponente sulla porta della sua camera d'albergo. Più grande di lui, più alta. Un altro ostacolo impossibile da valicare, avvolto nella penombra della notte . Chissà cosa a stava pensando, dietro a quegli occhiali da sole e quell'espressione apparentemente insofferente. Magari alla sua famiglia, ai suoi bambini. 

Sospirò, rassegnato. Fece spallucce e provò a sorridere. Si sistemò la sciarpa nera, nascose il naso per sfuggire alla morsa del freddo pungente di Mosca e infilò le mani nelle tasche della giacca di velluto. Nonostante la temperatura esterna fosse di poco superiore allo zero, l'albergo sembrava il più inospitale di tutti quelli in cui aveva soggiornato: era privo di emozioni, privo d'amore. 

E se quel freddo che sentiva era la sua solitudine?

No, non aveva tempo per pensare quanto era solo: lo era e basta. Solo sul palcoscenico poteva sfogarsi con il pubblico, qualora fosse felice o triste. Lì ogni sua emozione sembrava amplificarsi: spesso quando cantava She Is Out Of My Life, si sedeva sul palco, nascondeva il microfono dietro la schiena e piangeva in silenzio, anche se i suoi fan riuscivano a capirlo. Ma loro aspettavano, urlando a gran voce il suo nome. Era impossibile riuscire a nasconderlo, si accorgevano di ogni cosa. 

Diede una pacca sulla spalla della sua guardia del corpo, un gesto che lui interpretò come un invito a spostarsi. Stava per farlo, ma Michael lo fermò. Scosse la testa.

- Brandy, aspetta. Hai ragione- mormorò a voce bassa  -Allora, facciamo così: io resto in camera finché la situazione non migliora, così possiamo andare a quel ricevimento con il presidente. Tu adesso va a dormire, tra un paio di minuti dovrebbe venire Randy. Gestirà lui la situazione-. 

Sembrò sollevato. Sorrise e se ne andò, dopo aver alzato la mano in alto come cenno di ringraziamento. Evidentemente era così contento che non riusciva a trovare le parole: Brandy di solito non parlava mai, se non quando era strettamente necessario. I rimorsi e i rimpianti se li teneva dentro, si consumava nel suo dolore. Teneva alla sua famiglia. In un certo senso, era come lui.

"Il mondo è piccolo: esiste una persona con i tuoi stessi problemi, e spesso è molto più vicina di quanto credi" pensò lui. Gli scappò un altro sorriso, questa volta sincero.

- Salutami Jane appena la chiami, e anche il piccolo, mi raccomando. Non dimenticarti di Dan, ti prego.- disse Michael prima che questi chiudesse la porta dietro le sue spalle. Le sue parole si dissolsero in quel tonfo sordo. Strinse i pugni velocemente, che le vene marcavano come il delta di un fiume in piena: la speranza che Brandy si sarebbe ricordato di quella promessa era scomparsa con lui. Ci teneva, ma si stava solo illudendo di avere ancora degli amici. Ormai dopo quel giorno era rimasto solo come un agnello immolato al volere dei media. Nessuna delle persone vicine a lui poteva considerarsi suo amico. Avrebbe voluto dei veri amici. Non riusciva a fidarsi neanche delle persone che fino a pochi anni fa, lo avevano sostenuto. Era così difficile entrare nei confini di una finta normalità: viveva nelle menzogne degli altri, viveva circondato da un gruppo di persone pronte ad aiutarlo solo per i loro interessi. Perché poi magari avrebbero potuto rilasciare un' intervista con false dichiarazioni sul suo conto solo per guadagnare sulla sua sofferenza. Le braccia tremavano: era consapevole della sua debolezza. Era un essere inutile. Allungò un braccio verso di lui, tentando di catturare la sua attenzione, ma invano.

- Brandy! Prima che loro mi umiliassero in quel modo mi facevi sempre giocare con Dan! Lui diceva che era felice, perché allora hai smesso di portarlo con te?- cercò di trattenere le lacrime, la voce rotta dal pianto -… hai forse paura di me?-.

Nessuna risposta, dopotutto se l'aspettava. Chi avrebbe mai voluto rispondere ad un uomo che è inciampato nel suo glorioso percorso, caduto improvvisamente dalle grazie?

Ora come ora, il corridoio del quarto piano non era mai stato così silenzioso: da quando era arrivato non si poteva dormire in pace nemmeno per un attimo. C'era sempre un viavai affannato di gente che lo chiamava, che agitava confusamente le braccia per richiamare la sua attenzione. Il trambusto generale era uno stress capace di allontanare ogni pensiero, brutto o bello che fosse. Adesso in quel silenzio era solo con le sue paranoie. 

Stava forse diventando pazzo?

Quel pensiero, lo stesso che lo tormentava da giorni era l'unico che adesso lo accompagnava nei suoi passi, mentre la porta si chiudeva violentemente dietro le sue spalle. 

Si lasciò cadere sul letto, distese le braccia per occupare il maggior spazio possibile. Un sospiro a pieni polmoni per trattenere le lacrime. Non stava diventando pazzo. Non stava diventando pazzo. Non stava diventando pazzo.

La sua unica colpa era quella di essere stato gettato nella fossa dei media, senza la speranza di riscattarsi, di rialzarsi dalla sua caduta. Perché dopo che l'avevano etichettato come un pedofilo psicopatico ci credevano tutti, anche chi fino a qualche mese fa era suo amico.

"Perché se esce su un giornale, allora gli altri pensano che sia la verità"  mormorò lui tra sé e sé, senza preoccuparsi che qualcuno lo stesse sentendo.

L'unico rumore in quella stanza era quello del suo respiro, a tratti affannoso. Sembrava quasi che facesse fatica. Scostò dietro l'orecchio un ciuffo nero finito sul suo occhio. Un sospiro, questa volta più lento e controllato.

Il soffitto era d'un bianco pallido che si imbruniva al limitare dei quattro angoli della stanza per l'eccessiva umidità. Era vuoto. 

Allungò la mano verso il comodino e prese il New York Times di oggi, che Randy gli aveva portato questa mattina. Sperava ancora che avessero tolto la sua faccia da quello schifo di giornale. 

Appena se lo portò davanti al viso, vide un titolo che non avrebbe mai voluto vedere. Specie in prima pagina, e in grassetto. Saltava subito all'occhio. Il titolo non era dei migliori: sembrava quasi che in questo periodo i giornali affrontavano sempre e solo quell'argomento per accaparrarsi più lettori.

"Michael Jackson reagisce alle accuse di pedofilia con gli antidolorifici. Il suo dottore: ha solo tre mesi di vita"

Dannazione, tutte balle. Voleva piangere, urlare, voleva gridare a tutto il mondo quanto gli altri fossero ingiusti con lui, eppure non aveva fatto nulla per meritarselo. 

Diede un pugno al comodino di legno con tutta la rabbia che aveva represso in questi mesi, da quando era iniziato il processo più ridicolo di questo mondo. La lampada per un istante barcollò. Stava quasi per cadere, ma il paralume si bloccò tra il muro e il bordo del mobile. Lui non si arrabbiava mai. Fa male arrabbiarsi, si passa dalla parte del torto.

Odiava il dolore della solitudine, cercava di lenirlo in tutti i modi possibili. Più i giorni passavano, più cresceva in lui un fantasma che non l'avrebbe mai lasciato in pace. Barcollò per un istante, ma riuscì a recuperare l'equilibrio tenendo i talloni saldamente piantati a terra. Ormai avevano eretto un muro: da una parte Wacko Jacko, il pazzoide, il personaggio che i mass media avevano creato per screditarlo. L'uomo che gli altri pensavano che lui fosse, l'uomo che non era mai stato.

Ogni tanto quel secondo Michael bussava alla sua porta, e la paura tornava a scorrere nelle vene. Era un personaggio che conviveva in lui, incontrollabile. Pane per i denti dei giornalisti affamati di notizie inesistenti.

Dall'altra parte, il resto del mondo. Era diventato un giocattolo manovrato da altre mani, ma non le sue. E faceva male. 

E il vero Michael Jackson, quello che la gente non ha mai potuto conoscere perché seppellito brutalmente dai giornali era lì, sull'orlo del muro. Era l'ago della bilancia, in bilico tra la pazzia e l'ignoto. Era caduto sui suoi stessi errori, e ancora aspettava il giorno in cui si sarebbe rialzato. Eppure, dentro quel tunnel buio la luce sembrava solo una stupida illusione.

Prese il giornale e lo strappò in due, un urlo soffocato dai singhiozzi fece tremare le finestre da sotto le tende satinate.

Quanti ne avrebbe dovuto distruggere per cancellare dalla mente di ogni singolo individuo quelle menzogne?

Ormai il mondo intero era costruito su un giogo di bugie che fuggiva dalla realtà senza affrontarla. 

Aprì il primo cassetto, la mano tremava in modo convulso, forse per il nervosismo. Le lacrime gli rigavano il viso, scendevano fino ad arrivare sotto al mento. Sembrava quasi bruciassero del dolore che aveva dovuto sopportare, a partire dall'infanzia.

Prese il barattolo di Lorazepam, un sorriso sofferente gli dipinse il volto. Quasi come se fosse sollevato. 

Erano rimaste una dozzina di pasticche: gli sarebbero bastate per quella settimana. Quello era il suo modo di affrontare i fantasmi della vita, nonostante gli altri gli avessero ribadito più volte che era un fuggitivo.

Anche se avessero avuto ragione non avrebbero capito il motivo. 

Stappò il barattolo della sua felicità. Buffo pensare che tutto l'amore di cui aveva bisogno entrava a fatica in quel contenitore di vetro.

E invece era vero.

Il brusio della pioggia sembrava farsi man mano più frequente, crescendo d'intensità. L'infrangersi di ogni singola goccia sui vetri della finestra veniva scandito dal ticchettio dell'orologio a pendolo accanto allo specchio. Erano mesi che non si specchiava, che non incrociava il suo sguardo. Sapeva che avrebbe visto riflesso il suo volto provato; gli occhi spenti, sull'orlo del pianto; il fantasma di se stesso in preda alla disperazione; la sua maschera sorridente, che era riuscito a nasconderlo dalla solitudine della sua vita. 

La cosa più brutta era doversi tenere tutto dentro, abbandonarsi alla fama dimenticandosi tutto.

Mise la mano nel barattolo di vetro con una calma invidiabile, studiata nei minimi particolari.

La battaglia finale per il suo cervello: aveva superato il limite della tolleranza.

Una pillola bianca lo separava dalla felicità, davanti ai suoi occhi la speranza di iniziare una vita senza sentirsi solo.

Adesso o mai più.

 

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