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Autore: FarAway_17    19/02/2014    3 recensioni
"La porta si spalancò d’improvviso facendomi barcollare un po’ all’indietro.
Credevo di essere pronto - lo credevo davvero - ma ritrovarmi Gerard a poco più di mezzo metro da me… beh, non esisteva nulla che avrebbe potuto preparami a questo."
[[Note: la OS è ambientata nei giorni immediatamente successivi all'uscita di Fake Your Death.]]
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: i personaggi qui di seguito presentati non mi appartengono (ahimè) in alcun modo e qualsiasi riferimento a luoghi, persone e cazzate varie, è completamente frutto della mia immaginazione.
Note: La OS è ambientata nei giorni immediatamente successivi all’uscita di Fake Your Death.
 
Chiusi il portatile con un colpo secco. Non ce la facevo più a restarmene lì a fissare lo schermo. Era proprio finita.
Mi alzai in piedi facendo sobbalzare Jamia accoccolata sul divano con Lily e Cherry. «Frank?», mi domandò assonnata, abbassando il volume della tv e ignorando le proteste delle bambine.
Scossi la testa, senza guardarla direttamente e salii le scale fino alla camera da letto. Aprii l’armadio e ne estrassi il cappotto. Sobbalzai percependo il tocco leggero di mia moglie sulla spalla.
«Dove stai andando?».
Sospirai voltandomi nella sua direzione. L’abbracciai forte. «Devo fare una cosa, tesoro. Sai che devo farla», mormorai tra i suoi capelli.
Lei rimase in silenzio con le braccia ancora avvolte intorno a me prima di strofinare il naso sul mio collo. «Torna presto». Poi mi lasciò andare. La seguii con lo sguardo fino a vederla scomparire nella camera di Miles.
Come potevo non amarla?
 
Non avevo preso nulla di più se non il mio telefono, il portafogli e un pacchetto di sigarette. Spensi il cellulare con la mano destra che tremava appena e guardai davanti a me il vialetto che conduceva a casa Way. Era una strana situazione, lo ammetto, ritrovarmi in quel posto dopo tutto quel tempo a mezzanotte passata. Le strade di Los Angeles, anche in quella stagione, sapevano ancora di caldo e eccitazione, proprio come le ricordavo. La casa era immersa nel silenzio, ma la finestra del piano di sotto era illuminata da un tenue bagliore che si accentuava e spegneva ad intermittenza.
Con un ultimo respiro spezzato, mi feci avanti, guardandomi attorno mentre attraversavo il vialetto spoglio e bussavo un paio di volte alla porta in legno massiccio. Nessun rumore proveniva dall’interno. Bussai nuovamente, in modo più deciso. Si udì un tonfo sordo e qualcosa che sembrava essere una bestemmia. Mi portai una mano all’altezza del cuore senza nemmeno rendermene conto.
La porta si spalancò d’improvviso facendomi barcollare un po’ all’indietro. Credevo di essere pronto - lo credevo davvero - ma ritrovarmi Gerard a poco più di mezzo metro da me… beh, non esisteva nulla che avrebbe potuto preparami a questo. Nessuno dei due sapeva cosa di dire. Restammo immobili a guardarci finché non mi resi conto della mia mano ancora posata sul cuore e la tolsi con un gesto secco.
Gerard mi squadrò con quei suoi occhi verdi che risplendevano anche al buio – un po’ come quelli dei gatti. «Cosa ci fai qui, Frank?».
Fu come ricevere un pugno dritto in faccia. Spostai il peso da una gamba all’altra prima di rispondere acidamente: «Nulla di che, Gerard. Passavo da queste parti».
Lui abbassò lo sguardo per un istante prima di aprire del tutto la porta e farmi cenno di entrare.
«Preferisco restare qui», declinai l’offerta sempre più nervoso. Ora l’idea di andare da lui non sembrava più così brillante.
«Forza, ti offro un caffè», ritentò con un finto mezzo sorriso.
«Non voglio nessun cazzo di caffè, ok?», gridai, alzando gli occhi al cielo e pregando fra i denti di ritrovare un minimo di calma.
Il suo volto era imperturbabile. «I vicini ti sentiranno, Frank».
«Ho lasciato mia moglie e i miei figli a casa, sono uscito nel bel mezzo di una tempesta di neve, ho preso un fottuto aereo e mi sono fatto cinque schifosissime ore di volo per venire a bussare alla tua porta e tutto quello che sai dirmi dopo mesi di assoluto silenzio è “i vicini ti sentiranno” ?!», sibilai al limite della sopportazione. «Mi stai prendendo in giro, vero Gee, lo stai facendo!». Sentivo il nodo di rabbia accumulato in un anno, gonfiarsi dentro il mio petto e minacciare di esplodere da un momento all’altro. Avevo finto che non esistesse per così tanto tempo che mi ero quasi dimenticato della sua presenza. Quasi.
La luce delle scale alle sue spalle si accese e Lindsey comparve sul primo gradino. Bandit e i suoi lunghi capelli neri spuntavano dietro le gambe della madre. «Gerard che succede?».
Lui distolse lo sguardo da me per un secondo e lo rivolse alla moglie che scrutava la scena preoccupata. «Niente, stai tranquilla. Esco un attimo, ok?». Lei annuì ancora incerta e prese in braccio Bandit per riportarla al piano di sopra. La luce si spense, facendoci ripiombare nella penombra. Gerard si infilò un paio di scarpe abbandonate nell’ingresso e mi raggiunse, chiudendosi la porta alle spalle. Mi scivolò accanto con la sua solita disinvoltura e restai ad osservarlo un secondo prima di decidermi a seguirlo. Uscimmo in strada e percorremmo a ritroso la via che mi aveva condotto da lui. Ebbi il tempo di fumarmi due sigarette prima di raggiungere un parco giochi per bambini. Gerard scavalcò la recinzione con un balzo agile. Ero quasi sicuro di aver notato un sorrisetto comparire fugacemente sul suo volto alla mia espressione stupita. Scossi la testa e mi arrampicai alla stessa maniera, ripiombando dall’alto lato. Rischiai di prendere una storta, ma mi ripresi velocemente. Gerard era ancora lì a fissarmi e la cosa non faceva che aumentare il mio disagio. Così gli voltai le spalle e mi diressi verso le altalene, lasciandomi cadere sopra con uno sbuffo. Un cigolio basso e persistente mi invase le orecchie impedendomi per un attimo di pensare a lui, che si avvicinava cauto e si appoggiava con naturalezza alla struttura in ferro.
Continuai a dondolarmi sulle gambe mentre estraevo l’ennesima sigaretta dal pacchetto ormai quasi vuoto e l’accendevo schermando la fiamma con una mano.
«Da quando fumi così tanto?», mi domandò in un soffio.
Lo guardai. Improvvisamente la consapevolezza della sua presenza mi era ripiombata addosso come un macigno. Tolsi il filtro dalle labbra per evitare di spezzarlo con i denti. «E tu da quando rompi così tanto i coglioni?». Ero abbastanza fiero della mia risposta. Insomma, non mi aveva fatto apparire debole. Mi aveva lasciato un piccolo vantaggio. Era Gerard quello bravo con le parole, con i discorsi; quello che sapeva sempre ammaliare la gente… non io.
Lui sorrise abbassando la testa sulla punta delle sue scarpe che disegnavano ininterrottamente mezzi cerchi sulla sabbiolina fine che ricopriva il suolo.
«Sei davvero arrabbiato con me», osservò.
Valutai l’opzione di rispondergli che, sì, ero fottutamente arrabbiato con lui, ma la scartai. Per quanto volessi fare lo stronzo, non mi riusciva per nulla bene, quando lui mi stava intorno. Era molto più facile maledirlo a quattro mila chilometri di distanza.
Spensi la sigaretta senza neanche averla finita. Iniziava a darmi la nausea. Mi alzai con cautela e la gettai nel bidone dell’immondizia vicino allo scivolo.
«Frank». Non mi ero reso conto che mi aveva seguito e persi un battito nell’accorgermi di averlo così vicino. «Perché sei qui?». Me lo chiese di nuovo, ma con un’espressione del tutto diversa. Mi mostrò la sua sofferenza, che non era poi tanto diversa dalla mia. Credetti di svenire quando mi sfiorò la mano abbandonata lungo il fianco con la sua. «Se vuoi picchiarmi o insultarmi, non ti fermerò, Frank. Non se questo ti aiuterà a stare meglio», bisbigliò facendo un altro passo verso di me e infilando le dita tra le mie, inermi.
Il suo cellulare squillò e io mi ritrassi velocemente, allontanandomi da lui. Era così difficile stargli lontano da fare male allo stomaco. Lo vidi estrarre il telefono dalla tasca dei jeans, stringere le labbra e ignorare la chiamata.
«Chi era?», non potei fare a meno di chiedere.
Lui mi guardò negli occhi. Ancora quell’espressione corrucciata a deformargli i lineamenti. «Lyn-Z».
«Dovresti richiamarla e dirle che non ti ho ancora ammazzato». Mi sforzai di sorridere, ci provai davvero.
Lui fece lo stesso. «Non ti crederebbe mai capace di farlo… insomma, stiamo parlando di te. Di Frank Iero». Poi quel briciolo di spensieratezza nei suoi occhi si spense nuovamente. Si passò nervosamente una mano tra i capelli e sul volto prima di continuare: «E’ solo… gelosa».
Fu come essere punto da uno sciame di vespe in ogni punto del corpo, tutto in un solo istante. Mi ci volle un attimo per riprendere l’uso della lingua e rispondere un semplice: «Oh».
«Non è stupida, Frank».
Mi morsi un labbro con l’improvvisa voglia di trovarmi ovunque tranne in quel cazzo di parco giochi con Gerard Way. Oh, che idea di merda… proprio una grande idea di merda.
«M-mi dispiace di essere piombato qui così… non voglio crearvi problemi», tentai di scusarmi e di trovare una via di fuga il prima possibile. Iniziava a mancarmi l’aria.
Lui non rispose. Restò semplicemente fermo ad osservarmi. Probabilmente poteva leggere l’agitazione chiaramente dipinta sulla mia faccia. «Mi sento così idiota!», mi lamentai. «Io-», ma lui mi interruppe riallacciando le nostre dita saldamente.
«Shhh», mi intimò appoggiando la fronte contro la mia. Chiusi gli occhi. Forse la sensazione di sollievo immediato che il contatto delle nostre pelli mi donava avrebbe dovuto spaventarmi. Beh, non lo fece.
«Frank…», mormorò. Il suo respiro s’infranse sulla mia guancia e mi face rabbrividire, nonostante stessi sudando dal primo istante in cui l’avevo visto.
«Smettila di ripetere il mio nome, Gee», lo pregai in un pigolio sconnesso. Non riuscivo a pensare a nulla in quel momento. Solamente al fatto che stavamo respirando la stessa aria ed era fantastico.
«Mi sei mancato così tanto». Faceva male sentirselo dire. E non ero in grado di dirglielo che anche a me era mancato, che ci pensavo ogni instante di ogni fottuto giorno, che controllavo sempre il suo profilo Twitter come uno stolker e che chiedevo di lui ad ogni persona che avrebbe potuto darmi notizie. Non importava da quanto fosse finita tra noi, Gerard rimaneva sempre e comunque fondamentale nella mia vita e mi mancava come l’aria.
Deglutii forte e allungai una mano a tentoni aggrappandomi al suo fianco. Mi sentivo come un’adolescente, una ragazzina alla prima cotta.
La sua risatina mi solleticò l’orecchio sinistro. Aprii gli occhi e incontrai quelli di Gerard, vicini, troppo. Ma con Gerard era sempre così: troppo, sia nel bene che nel male. Per lui non esistevano mezze misure.
«E’ davvero la fine, vero?», mi obbligai a domandare con voce spezzata. Lui annuì semplicemente. Sorrideva sereno e continuava a stringermi forte la mano. Non so come ci riuscì, così, senza una parola, ma mi fece sentire un po’ meglio.
Tentai di staccarmi da lui e riprendere il controllo della situazione, ma lui me lo impedì. Finii per cozzare più forte contro il suo petto.
«Gerard». Il suo nome sgorgò dalla mia gola talmente rauco da non appartenermi nemmeno. «Non dobbiamo più vederci», dissi. «Non così».
Gli occhi mi bruciavano, ma sapevo di dover dire quelle parole ad alta voce per far sì che tutti e due le comprendessimo una volta per tutte. Non sapevo da dove avevo attinto il coraggio necessario per pronunciarle, a dire il vero.
Lui sembrava non volermi sentire. Scuoteva la testa ritmicamente, come un automa e dovetti mollare la presa sulla sua maglietta e prendergli la testa fra le mani per costringerlo a guardarmi.
«Gee, ascoltami», lo richiamai, proprio come si fa con un bambino. «E’ ora che andiamo avanti, lo sai. Abbiamo fatto delle scelte, siamo felici… sei felice, vero?», gli chiesi ad un tratto preoccupato della sua possibile risposta. Non ero pronto ad un Gerard distrutto, a doverne raccogliere nuovamente i frammenti da terra e cercare di ricomporli con amore come un intricatissimo puzzle dai colori scuri. Probabilmente non era neanche più compito mio. Dovevo farmi da parte.
«Sì… lo sono». Distolse lo sguardo, mentre una lacrima gli sfuggiva dall’angolo dell’occhio destro.
Lo forzai di nuovo a guardarmi. Gli sorrisi dolcemente, cancellandola con il pollice. «Allora va bene così».
Seguì il movimento della mia mano con il capo, sbattendo le palpebre per cacciare via la sensazione di umidità dalle ciglia.
«Un bacio, solo un bacio, Frankie», bisbigliò protendendosi verso di me con un leggero rossore sulle guance. Le sue labbra, dischiuse, erano di un rosa talmente acceso da ricordare delle fragole mature. «Non ci siamo mai detti davvero addio».
Avevo voglia di morderle. Di mordergli via ogni accenno di sentimento, di straziarlo fuori, dentro, ovunque, purché mi facesse dimenticare che la colpa era sua quanto mia.
«Ti prego», singhiozzò con un filo di voce.
Credevo di volerlo vedere piangere, ma ora che stava succedendo non ne ero più così sicuro.
Richiusi gli occhi e attesi. Attesi che tutto sparisse, di svegliarmi e scoprire che era stato solo un perverso prodotto della mia mente.
Quando sentii delle dita affondarmi sulle spalle e il peso del suo corpo contro le mie labbra, piansi e lui pianse con me. Forse perché in quelle lacrime scorreva anche un po’ di quell’amore che non sarebbe dovuto esistere, di quella rabbia che mi faceva contorcere le viscere e quel dispiacere, amaro e pungente, che mi stava soffocando.
Ci stavamo dicendo addio, addio per sempre, ed era fottutamente reale.
Così mi lasciai andare. Tutti i muscoli del mio corpo si sciolsero. Mi sembrava quasi di fondere, colare giù, verso il suolo. E non mi sarebbe nemmeno dispiaciuto troppo se con me avessi potuto portare Gerard.
Lasciai che le mie mani scivolassero via dai suoi capelli, gli accarezzassero il collo, la schiena e si fermassero sui fianchi magri, stringendoli forte contro i miei. La sua lingua si scontrò con la mia e sospirai frustrato, nel sentirlo gemere piano. Lo spinsi contro la discesa di plastica dello scivolo. Dovevo fagli sentire quanto lo desiderassi, nonostante tutti gli anni che erano passati, come il primo giorno. L’età non mi aveva di certo reso più coscienzioso. La mia testa era pronta a rinunciare a tutto questo, ma il mio cuore non lo era altrettanto.
Gerard abbandonò il capo all’indietro, lasciando scoperto il collo bianco. Una vena blu scura pulsava sotto la mia lingua. Potevo sentirvi dentro i battiti del suo cuore accelerare. Avrei voluto lasciare il segno, un bozzo violaceo che gli ricordasse ancora per un po’ di me, ma sapevo di non poterlo fare. E anche lui ne sembrava consapevole, mentre mi passava i polpastrelli sudati alla base della schiena. Mi mancava la sensazione dannatamente eccitante di percepire le sue unghie graffiarmi l’epidermide.
Mi bloccai. Il fiatone che scuoteva entrambi. Nascosi il viso nell’incavo sotto la sua mandibola e inspirai il più possibile l’odore di Gerard e della mia stessa saliva su di lui. Avrei davvero voluto tenerlo egoisticamente con me fino alla fine dei miei giorni.
Lui si sistemò meglio contro lo scivolo e mi abbracciò, premendomi la guancia liscia contro una tempia. Alcune ciocche dei suoi capelli mi solleticarono la fronte.
«Ti amo, Frank», sospirò alla fine, come se giungere a quella conclusione fosse doloroso, ma anche liberatorio.
Alzai gli occhi nei suoi. «Anche io». E non c’era nessuna bugia in questo. Lo amavo davvero, probabilmente da sempre, solamente non era il modo giusto di amare e lo sapevamo entrambi.
Lo tenni stretto a me ancora per un po’ prima di decidermi a scostarmi. I palmi delle sue mani sfregarono contro il mio maglione talmente lentamente da ricordare il rallenty di un vecchio film da quattro soldi.
«Ciao Gee», mormorai alzando una mano a mo’ di saluto, accennando qualche passo a ritroso.
Feci in tempo a vedere le sue labbra mimare un altro «Ti amo», prima di voltarmi del tutto e lasciarlo finalmente libero.
 
 
Note autore:
Salve a tutti!
Era un po’ che pensavo di scrivere una OS Frerard e dopo aver sentito Fake Your Death, scusatemi, ma proprio non sono riuscita a frenarmi. Tralasciamo la depressione che ne è giunta (credo mi possiate capire…), ho voluto peggiorare il mio stato d’animo scrivendo questa… cosa.
Tra una cosa e l’altra, mancava poco che mi buttassi giù dal letto in preda alla disperazione.
Ma siccome non ve ne fregherà una beneamata mazza delle mie fisime, vi ringrazio di aver letto e spero vi sia piaciuta (purtroppo non so ancora leggere nel pensiero, quindi recensite e fatevi sentire).
Xoxo
FarAway_17
Ps: so che Gerard non è a Los Angeles, ma nella mia testa questo era solo un piiiccolo dettaglio del tutto trascurabile.
  
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