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Autore: ele_lele    19/02/2014    1 recensioni
Emma ed Evan.
Lei italiana, lui inglese.
Lei aveva sempre sognato di essere una principessa ma non vuole essere salvata. Lui, il signorile e ben educato conte Evan Dalton Deroux, è stato educato a soccorrere donzelle in difficoltà, ma non sa come comportarsi con una ragazza indipendente.
Emma vorrebbe Evan ma lui vorrebbe la principessa.
Si sposano per contratto, ma si sa, la vita gioca strani scherzi…
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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UNMASKED

 
 
 

Aveva sempre amato il sole ma i raggi che filtravano dal vetro lucido della finestra la facevano sentire male. Era stanca e nauseata e voleva solo tornarsene a casa, rifugiarsi tra le braccia di sua mamma e piangere, piangere, piangere. Piangere finché non si fosse addormentata e al mattino tutto sarebbe passato. Come una magia.
La sua fata madrina però doveva essersi persa per strada, perché lei stessa aveva litigato con sua madre che se ne era andata offesa, dichiarandosi contraria a tutta quella scemenza.
Non che Emma fosse d’accordo. Solo, come le ripeteva sempre sua nonna, a volte c’erano dei mali che erano necessari. E lei faceva il possibile per affrontarli a testa alta.
Pessimista di natura, preferiva fasciarsi la testa prima di rompersela, e passava metà del suo tempo ad ipotizzare cosa avrebbe fatto qualora avesse fallito. Un esame, un colloquio di lavoro, una relazione amorosa, un’amicizia.
Ma mai, nella sua vita, aveva immaginato di trovarsi di fronte a una situazione del genere. Non tanto perché chi la stava mettendo con le spalle al muro era suo padre, quanto per l’assurdità della circostanza. Aveva letto libri su libri, visto quasi tutti i cartoni Disney, sognato a occhi aperti di essere una principessa, ma mai, nella sua vita, aveva trovato nei libri o nei cartoni storie di principesse costrette a sposare un principe. E mai era stato menzionato un contratto prematrimoniale. E di certo, per quanto i suoi sogni fossero rosa e pieni di zucchero filato, si era immaginata a dover interpretare la parte della principessina sottomessa. Quella cazzuta sì, forte abbastanza da scegliersi uno sposo. Una Fiona, senza il lato da orchessa. E possibilmente senza Shrek.
Si portò una mano alla tempia, cercando di capire quello che gli adulti si stavano dicendo nello studio di suo padre. Si era estraniata dopo pochi minuti, giusto il tempo di capire che il suo parere non era richiesto e che lei, lì, era la mera merce di scambio.
Il mal di testa le stava aumentando pericolosamente, e cercò a tastoni la confezione dell’aspirina nella borsa. Rigettare bile e succhi gastrici dal nervoso nell’ufficio di suo padre, nel bel mezzo della trattativa del suo matrimonio non era una splendida idea. Sospirò di sollievo sentendo la capsula e, decidendo che poteva aspettare a prenderla fino al limite dell’umana sopportazione, si sforzò di capire di cosa stavano parlando.
«Gratuitamente. Nessun ripensamento» il suo futuro suocero sembrava uno convinto.
Suo padre annuì col capo, sorridendo. «Nessuno. Emma?» si girò verso di lei, interrogativo.
Se avesse assentito, a cosa avrebbe acconsentito? E se avesse espresso un parere negativo, che sarebbe successo? Ovviamente suo padre non si degnò minimamente di aspettare una sua risposta. A sua era solo una facciata da buon padre protettivo. L’esatto opposto di quello che era stato nella realtà.
«Perfetto. Ora, ritorniamo al punto fondamentale. Una transizione di centomila sul mio conto e…»
Centomila. Centomila che? Conchiglie? Baci? Abbracci? Come quelli che lei avrebbe voluto dargli da bambina, ma che suo padre rifiutava perché “le femmine cedono sempre alle smancerie”? Centomila schiaffi morali? Come quelli a cui lui l’aveva sottoposta, non facendola mai sentire all’altezza della situazione? Centomila lacrime? Come quelle che lei aveva versato quando lui se ne era andato di casa per farsi un’altra vita, con un’altra donna e altri figli? Centomila parolacce per suo padre ingoiate, vedendo sua madre chiudersi in se stessa? Centomila cosa, esattamente? La sua vita valeva centomila cosa?
Tutto lì, avrebbe dovuto sposare un perfetto estraneo perché il conto di suo padre, ormai in rosso, fosse rimpolpato? Aveva ragione sua madre quando le aveva detto, sprezzante, per quale motivo lui aveva schioccato le dita e lei fosse corsa da lui, pronta a buttare via la sua vita. Forse aveva ragione anche quando le aveva detto che tanto lui non avrebbe iniziato a considerarla come una figlia neppure dopo il suo sacrificio. Per lui sarebbe sempre stata un errore di percorso. E, ora, una merce di scambio. Da centomila euro.
 
*****
 
Non appena l’incontro finì, si alzò e si diresse fuori, verso il castello sforzesco.
Appena mise piede sull’erba, tirò un sospiro di sollievo. L’orologio stava per battere l’una, ma lei non aveva fame. Le veniva da vomitare all’idea di essere barattata, vendita per saldare un debito di suo padre verso quell’uomo potente e severo. Chissà se il suo futuro sposo era un burattino nelle mani del proprio genitore o aveva effettivamente una sua spina dorsale. Non le piaceva l’idea di sposarsi con un invertebrato. Ora come ora, non le piaceva l’idea di sposarsi punto e basta.
Si tolse le francesine scamosciale e si sedette sull’erba umida. Si sarebbe rovinata il vestito, ma non le importava un fico secco. Era un abito che le aveva comperato la segretaria di suo padre e, anche senza l’ausilio dell’erba, l’avrebbe rovinato lo stesso. Magari con un bel paio di forbici in mano.
«Fai così, di solito?»
Sospirò, senza neppure girarsi verso il ragazzo che si era seduto accanto a lei.
«E tu? Sei solito seguire le persone? Non siamo ancora sposati, sai che potresti essere preso per uno stalker?»
Alzò le spalle, incurante, e continuò a fissare Emma negli occhi, azzurro chiaro contro marrone. Occhi di ghiaccio contro occhi da gatto. Al sole, sua nonna glielo ripeteva sempre, il marrone prendeva il colore dell’ambra, miele fuso su foglie d’autunno.
«Evan?» lui si fece serio. «Perché sei qui?»
«Volevo parlarti. Da solo» aggiunse prima che lei contestasse che poteva farlo anche nello studio di suo padre.
«Volevo sapere cosa ne pensi di… dell’accordo.»
«Oh. Intendi cosa ne penso del fatto che sarò venduta come un cavallo a dei nobili inglesi per la modica cifra di centomila euro?» Dio, avrebbe dovuto rinunciare al sarcasmo, pensò con amarezza. La moglie di un nobile non dovrebbe avere la lingua tagliente. Eppure, solo all’idea di dover interpretare la parte della dolce mogliettina, le si chiudeva lo stomaco.
«Beh, di solito non paghiamo così tanto un cavallo. A meno che non sia uno stallone purosangue…»
Emma sentì la rabbia invaderla. Come si permetteva, quel borioso pallone gonfiato? Poteva anche essere ricco, nobile e oggettivamente piacevole da guardare, ma tutto aveva un limite! Fece per alzarsi, ma la mano di lui si poggiò delicatamente, ma con fermezza, sulla sua spalla, facendo una leggera pressione verso il basso. Il messaggio era chiaro, voleva che rimanesse.
«Mi dispiace, credevo di poter alleggerire la situazione. Non è facile per te ma sappi che non è facile neppure per me.»
Oh.
Effettivamente non ci aveva pensato. Chissà se anche a lui scocciava sposare un’anonima sconosciuta, per giunta non del suo paese, solo perché suo padre aveva deciso così. Chissà se aveva una fidanzata, che un giorno sperava di sposare, da qualche parte del mondo. Magari aveva altri progetti, come viaggiare e godersi la vita prima di prendere in mano l’eredità di famiglia e comportarsi da nobile tutto d’un pezzo.
«Io… già.»
Evan sorrise. Un sorriso triste, di quelli che ti tirano le labbra ma non arrivano al cuore e non fanno brillare gli occhi. Almeno una cosa in comune loro due l’avevano, pensò tristemente Emma. Il modo di sorridere.
«Quindi, torniamo a noi. Che ne pensi dell’accordo?»
Emma alzò un sopracciglio in modo eloquente e lui si affrettò a mettere le mano avanti e, scuotendo la testa, scoppio in una risata.
«Non in quel senso. Intendo dire se ti vanno bene tutte le… circostanze. La somma, il luogo, la data… Volevo sapere se c’è qualcosa che vorresti cambiare.»
«E tu?» Non si fidava di lui. Come poteva? Era un perfetto sconosciuto pronto a comprarla e a cedere i soldi a suo padre. Era il degno figlio del conte Deroux. Degno socio d’affari di suo padre.
«Prima le signore…»
Ora Emma capiva quello che si diceva in giro. Un bel ragazzo, spigliato, affascinante. Le sorrideva sperando di vederla cadere ai suoi piedi. E forse lei l’avrebbe anche fatto, se non ci fosse stato un contratto di centomila euro a ricordarle che era solo una merce di scambio.
«Quant’è l’ammontare del debito di mio padre con il tuo?» chiese invece.
Se lui si sorprese non lo diede a vedere.
Alzò appena l’angolo della bocca, come se fosse genuinamente divertito.
«Ottanta. Centesimo più, centesimo meno.»
«Mila?»
«Mila.»
Aveva voglia di gridare. Aveva voglia di saltare su e battere i piedi a terra e urlare un colossale, epico “porco cazzo”. Ma non era il caso. Non si trovava né nel luogo adatto né con la persona adatta per perdere il controllo e fare una scenata.
«Bene. Voglio che il debito sia saldato ma non voglio che lui riceva i soldi.»
«E come pensi di fare, principessa?»
Perfetto, lui la stava pure sfottendo. Per fortuna non aveva voglia di finire a letto con quel presuntuoso, si disse esse, perché da lì al matrimonio lui doveva solo sperare che un suo tacco non gli finisse accidentalmente tra le ginocchia, sfracassandogli i coglioni. Letteralmente.
«Con un trasferimento diretto da conto corrente a conto corrente. Debito saldato e mio padre non dovrà ricattarmi ancora in futuro facendo leva sul fatto che bisogna essere buoni figli solo perché ha sperperato tutto invece di saldare i debiti. Ha vari appartamenti, varie macchine e una barca: se ci tiene tanto a restare a galla che vendesse qualcosa. Potrebbe iniziare a dire “no” ai nuovi pargoletti, ma sembra che quelli riescano a comandarlo a bacchetta. Quindi, non voglio essere il posto dove attingere denaro come se niente fosse. Saldato il debito lui è fuori.»
Emma non riuscì a capire se Evan la stava guardando spaventato o ammirato. Sembrava trattenere il fiato come uno che sta per scoppiare in una grassa risata ma lei mise su un cipiglio che doveva essere stato abbastanza significativo, tanto che lui si limitò a un semplice «Continua».
«Il resto della cifra, ventimila, li userò per estinguere il mutuo della casa di mia madre. Non mi importa che tipo di contratto hai stipulato con mio padre: recidilo. Io sono il contraente e spetta a me prendere le decisioni.» Prese fiato. Non aveva ancora finito e probabilmente a lui non sarebbe piaciuta quella parte.
«Se tu ti fai un’amante allora posso farmelo anche io. Non azzardarti a rinchiudermi in casa come se fosse una gabbia dorata: te ne pentiresti in un nanosecondo. Io non ho intenzione di fare sesso con te né tantomeno di sfornare un pargolo tutto moccio e strilli acuti. Non fa per me, non ho l’istinto materno. Non voglio sposarmi prima di Natale: siamo in Autunno, santo cielo, dammi tregua. Una cerimonia sobria in primavera andrà più che bene, senza contare che…
«No.»
«No? Che diavolo significa no?»
Evan sospirò. Se fosse andata avanti di quel passo, urlando come un’ossessa, l’avrebbero sentita anche a casa sua, in Inghilterra. E tutto voleva tranne che la futura contessa Deroux fosse preceduta da una cattiva fama. Lui per primo ci avrebbe perso.
«Non ho intenzione di cedere sui soldi, né sulla prigionia in casa. Voglio poter andare dove voglio e quando voglio. E con chi cavolo voglio! E se vuoi figli, arrangiati. Ci sono mille modi di»
«Il “no” era per la cerimonia sobria. Tutto il resto mi va bene. Altre richieste?»
«Oh. Ecco, io… io… mi hai preso alla sprovvista!» si lamentò Emma, incrociando le braccia sotto il seno e mettendo il broncio.
«Desolato di averlo fatto.» si giustificò Evan, stringendosi nelle spalle senza abbandonare il sorriso sghembo.
«Io vorrei poter continuare a studiare. E vorrei lavorare.»
«Non avrai bisogno di lavorare. Sarai mia moglie, perché sbattersi?»
«Perché magari a qualcuno piace!» quando si rese conto di quello che aveva detto, chiuse gli occhi cercando di dominare il calore che sentiva sulle guance e sul collo. Maledizione, sicuramente era arrossita! «E perché non voglio essere la tua mantenuta.»
Lo disse con un tale disprezzo nella voce che Evan non dubitò neppure per un momento che non volesse esserlo.
«E voglio il divorzio.»
Non seppe bene cosa fu a farlo quasi strozzare. Non stava bevendo nulla, quindi poteva essergli andata di traverso solo la saliva. «Che diavolo blateri?» le chiese brusco.
Non s’era mai sentito di un conte, un Deroux per giunta, divorziato.
«Non mi sembrava che anche prima accusassi problemi d’udito. Mi hai sentito bene, voglio poter essere libera di chiedere il divorzio. Tieniti i tuoi soldi e il tuo titolo, io però voglio poter essere libera di cercare qualcuno che mi ami.»
«Assolutamente no. Levatelo dalla testa, non avverrà mai. Puoi condurre le tue ricerche per l’uomo perfetto mentre siamo sposati, di certo io non te lo impedirò. Ma niente scandali, e un divorzio sarebbe uno scandalo.»
«Come potrei trovare un uomo con intenzioni onorevoli se si mette con me mentre sono sposata con un altro? Io voglio potermi costruire una famiglia, avere dei figli, poter…»
«Mi era sembrato di capire che non volessi figli» l’interruppe lui, con la fronte aggrottata e lo sguardo confuso.
«Non con te!»
Emma seppe subito che quello era troppo. Dio, avrebbe voluto poter tornare indietro per rimangiarsi quelle parole che, senza spiegarsi perché, sembravano averlo ferito tanto. Lo vide annuire, mortalmente serio, prima di comunicarle che dopo sette anni sarebbe stata libera. Fece un rapido conto: avrebbe avuto trentun anni. Non sarebbe stata vecchia per mettersi a cercare il grande amore della sua vita, trovarlo, sposarlo e farci un figlio? Tuttavia, tra il mai e una manciata d’anni, sette le sembravano una sciocchezza, così sorrise mesta e lo ringraziò educatamente.
 Evan fece per alzarsi, quando lei parlò nuovamente.
«C’è un’altra cosa». Rimase congelato, in attesa della sua ulteriore richiesta, senza sembrare né scocciato né deluso da tutti quei capricci e quelle ripicche. «Non voglio che ci siano gli amici e i colleghi di mio padre al nostro matrimonio.»
Stavolta il sorriso che le rivolse era davvero triste. «Mi dispiace, Emma, questo non posso farlo. Posso contrattare con mio padre e convincerlo su tutto il resto, ma gli inviti sono già stati spediti. A quanto pare tuo padre era molto sicuro che tu avresti accettato di buon grado il matrimonio e mi avresti sposato. Quello che posso fare è posticipare la data delle nozze, ma non posso rimangiarmi un invito fatto.»
«Perché?» chiese lei arrabbiata. Evan rimase in silenzio, aspettando il seguito del suo sfogo. Non era sciocco né lei era così stupida da non tenere conto l’etichetta. «Sono più di dieci anni che per loro ho smesso di esistere. Non voglio farci le foto al matrimonio, non voglio doverli salutare da perfetta ospite come se mi importasse di loro quando vorrei solo sputargli in un occhio per aver finto che non esistessi. Non voglio i loro regali e non voglio vederli a casa mia per ricordarmi di tutta questa schifezza.» Ormai stava gridando, ma per fortuna era l’una passata e i milanesi erano in pausa pranzo e i pochi turisti al castello sforzesco non sembravano fare caso a un ragazzo biondissimo, intendo ad ascoltare serio le urla di una ragazza scalza e con i capelli scarmigliati. Come se si fosse resa conto solo in quel momento di quello che aveva detto, Emma aggiunse «Intendo il fatto di essere considerata merce di scambio da mio padre, non… tu.»
Altro sorriso triste di Evan.
«Non sei costretta a vederli, se vuoi. Possiamo metterli tutti in un appartamento e quando litigheremo puoi rifugiarti lì e romperli tutti.»
Non se l’aspettava. Non dal compito Evan Dalton Deroux.
Annuì impercettibilmente, mentre lui si alzava e le rivolgeva un sorriso dall’alto in basso. «Sarà il nostro segreto.»
«Alla faccia loro?» chiese timidamente.
«Sì, Emma, alla faccia loro».
Lo vide girarle le spalle e incamminarsi verso l’uscita del parco. Lentamente, come se si stessa assaporando ogni piccolo passo o come se ogni movimento gli costasse troppa fatica.
«Evan?» Lo chiamò quando era già lontano ma non abbastanza da non sentirla.
I capelli biondi brillavano sotto il sole. Da quella distanza non riusciva a vedergli gli occhi, ma non faticava a immaginarli ancora più chiari, come acqua limpida di un ruscello di  montagna.
«Abbiamo un accordo?» gli urlò, e lo vide sorridere.
L’ultima cose che il conte Evan Dalton Deroux le disse, o meglio le urlò, prima di girarsi fu un chiaro, secco «sì».

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non so come mi possa venire in mente di iniziare una nuova storia quando ne ho altre in attesa di una fine o di un aggiornamento. C’è da dire che l’insonnia gioca brutti scherzi. Il personaggio di Evan è venuto a trovarmi ieri pomeriggio, e poco dopo si è delineato anche quello di Emma. La storia ha preso piede poco dopo, tanto che non sono riuscita ad addormentarmi, non prima di essermi alzata ed aver buttato giù la bozza della storia che, questa mattina (complice l’inclemente sveglia che non mi ha lasciato dormire) ha trovato il suo posto su Word.
   
 
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