Mi chiamo Lsyn Amarto, figlia delle Spie.
Il mio primo nome è quasi una burla del mio
Maestro, Amarto Sindjisk, colui che
mi ha allevata.
Lsyn. Un misero liquore di bacche del sottobosco,
l’infernale lsyn che scotta la lingua, nero come l’abisso.
Tipico di lui, accidenti, un elfo così geniale,
così buono, ma così dedito ad
innumerevoli e disastrosi flirt con l’alcol da restarne per sempre
segnato.
Il mio saggio Maestro.
Un tempo ero una delle migliori
servitrici di quello che era il Regno di Normar, ed ora è solo il Regno, semplicemente il
grande Regno.
Concepita, nata, cresciuta ed
allevata Spia, creata per non dire altro che si, mia signora, per tutta la mia schifosamente lunga vita di elfo.
E sì, quanto ci riuscivo bene. Quanto mi piaceva!
Per tutti, io ero Ombra.
Ancora a volte risento questo nome. Ancora fa paura, e
quanti anni sono passati!
Già. È passato molto tempo, ormai. Ora chi
mi incontra tende più a chiamarmi Mostro, allontanandosi con evidente
timore.
No, no, niente paura. Forse mi sono espressa male.
Sono una semplice elfa, cosa c’è di strano in
me? Non ho tre teste, e non sputo fuoco. E non ho nemmeno capelli color
dell’arcobaleno.
Sarei il simbolo della banalità, se non fosse per
un piccolo particolare.
Il frutto di un insignificante errore che ha rovinato per
sempre la mia vita un tempo gloriosa.
Sembrava una missione normale, una delle tante nel mio
lungo servizio di Spia.
Il fratello della nostra Regina, la nostra magnifica
sovrana, possano per sempre gli Dei averla in grazia, era scomparso senza
lasciar traccia.
Di lui non rimaneva altro che una lettera macchiata di
sangue, recapitata due settimane dopo la sua sparizione.
Una lettera in cui implorava aiuto. Una lettera
strappalacrime e tanto misteriosa.
Cosa mai poteva essere successo al Principe del Regno?
Una situazione abbastanza antipatica.
Eravamo entrati allora noi in azione: gli occhi
onniveggenti del Regno, gli infallibili segugi che tutto fiutano.
Io ero stata scelta per la missione, io, perla rara tra le
Spie.
Ero sola.
Non avevo voluto nessun compagno per quest’impresa tutto sommato facile. La mia superbia e la mia indipendenza
erano proverbiali.
Io ero la migliore, e nessun intralcio si crei per Ombra!
Beh. Forse non sono del tutto sincera con me stessa.
Avevo esultato quando ero stata scelta, ma come avrei
esultato per qualsiasi altra missione. Non avevo mai fatto storie per un
po’ di compagnia.
Forse c’era un altro motivo. Ben più
importante della mia tracotanza.
Amavo Chekaril, il giovane Principe: in quel periodo della
mia vita, il mio apogeo, ero bella, fiorente e forte, e la relazione che avevo
intrecciato con lui tempestosa e precaria.
Gli avevo dato persino una figlia, nata più per
casualità che per amore, una bellissima piccola.
Ero ligia alle tradizioni, allora.
L’avevo ceduta alle Spie, e non aveva che qualche
mese!
Chi nasce tra di noi non ha che un destino: essere un
Cane. Non c’è scappatoia che regga. Gli infanti vengono fin dalla
più tenera età allontanati dalle famiglie, e affidati ad un maestro, che li alleva ed allena, dandogli il proprio
nome come cognome, quasi un marchio di appartenenza.
Così era per me, così era stato per lui, e
per altre infinite generazioni di Spie, tornando indietro di secoli e millenni.
Così è stato anche per la mia bambina.
Ma preferisco evitare di indugiare
troppo in certi ricordi, potrebbero farmi perdere.
Dov’ero?
Ah, certo.
Insomma, stavo cercando Chekaril. La pista che stavo
seguendo mi dava quasi la certezza di un rapimento a scopi politici.
Niente di più ovvio.
I miei contatti mi avevano avvertita
del nascondiglio: una grotta in un bosco. Ero dunque lì
per appurare la realtà dei fatti.
Mi avvicinai silenziosa, come solo un’elfa allenata
da secoli sa fare. Mi nascosi tra gli alberi.
Tsk, che idiozia, rapire un Principe
e poi disseminare indizi come novellini! E nessuno era stato capace di
trovarlo!
Spiai, guardai.
Mi venne un colpo al cuore.
Solo, prigioniero di una radura all’imboccatura
della caverna, senza nessuna sentinella o essere a fargli da guardia, legato ed in ginocchio, c’era lui.
Chekaril.
Bisbigliai il suo nome, esterrefatta, e, per la prima ed ultima volta nella mia carriera, commisi
un’imprudenza fatale. Mi precipitai verso di lui, ignorando la stranezza
della cosa.
Un lampo. E fu tutto buio.
Quando mi svegliai, ero bendata da capo a piedi, e il
peggior dolore che avessi mai provato mi ossessionava.
Non appena mi mossi un poco, mi arrivò
all’orecchio una voce gentile, che intimò di fermarmi.
Ero al Lazzaretto da ormai quindici giorni.
Ci volle un altro mese per farmi riprendere.
Ero stata presa dalla tomba per i capelli: una famiglia di
boscaioli mi aveva trovata, ustionata orrendamente, in
una radura, sola, e mi aveva pietosamente aiutata.
Avevo abbracciato la morte.
Di Chekaril nessuna traccia.
La grotta non esisteva. Non era mai esistita.
Quella a cui ero andata incontro
era una sola cosa: una trappola.
Venne il giorno in cui dovettero sbendarmi: nessuno sapeva
cosa avrebbero trovato sotto le bende. Forse sarebbe rimasto qualche segno, mi
dissero.
La prima volta che, tremante, mi vidi allo specchio, quasi
svenni.
Mi era rimasto ben più di qualche segno. Mi sarebbe
rimasto per sempre.
Metà intera del mio corpo era una sola, orrenda
cicatrice.
Nemmeno il viso, il mio bel viso,
era rimasto indenne: da una parte la mia pelle lattea era intatta, liscia come
una buccia di pesca.
Dell’altra si era salvato solo l’occhio,
fortunatamente, che luccicava malevolo come giaietto.
I capelli si erano bruciati, ed
avevano scavato solchi come corde sulla mia nuca.
Ero quasi calva, fatta eccezione per una vaga lanugine che
cominciava a crescere.
Piansi, per la prima volta dopo tantissimo tempo. Mostro.
Mostro. Mostro!
Quel nome cominciò a perseguitarmi.
Di bisbiglio in bisbiglio, di bocca in bocca, Ombra moriva
lentamente, soffocata da un altro fardello.
E da gloriosa Spia, di Lsyn Amarto non rimase altro che
una miserabile cicatrice vivente.
Non accettai, né mai ho realmente accettato, cosa divenni.
Gli specchi diventarono i miei peggiori nemici, gli unici
davanti ai quali tremavo di paura.
No, non volevo essere messa di fronte alla mia miseria, al
mio fallimento.
Cominciai ad indossare quella che
sarebbe divenuta la mia tenuta, immutabile e ammonitrice.
Mi nascosi, nascosi il mio viso
sfigurato sotto una maschera di porcellana, bianca, fatta eccezione per due
linee nere che, come lacrime, mi scendevano dalle fessure per gli occhi, tutto
quello che volevo fare vedere di me.
Quei pozzi, neri, vuoti, bui. Abissi.
Era il deserto, il nulla in cui si era trasformata la mia
anima.
Il niente che io ero.
Celai il mio corpo sotto pesanti abiti neri ed un mantello che lasciava scoperto solo il volto. I
capelli ricrebbero, ricci e scuri come sempre. Ricadevano, come un sipario, ai
lati del mantello.
Non ero più io, né lo sarei più
stata.
Ombra, l’astuta Spia,
l’assassina, sempre vincente e fedele, era
sparita. Al suo posto nacque Mostro, derelitto nulla e buco nero, che mai
più esercitò il proprio mestiere...
Mi chiamò al suo cospetto, chiamò me, Il
Mostro, la spia decaduta ed inutile, ad apparire
davanti a lei, splendente di oro e gioielli.
Ella mi guardò, vide il tetro
fantasma che ero divenuta, e sorrise, piena di veleno, di disprezzo.
Avevo fallito miseramente, ero stata giocata come una
novellina.
Per colpa mia il fratello era ancora prigioniero.
Chekaril, sì, il mio amore.
Dov’era? Come stava? Qualcuno aveva notizie di lui?
“Abbiamo tutti subito una grande perdita,
Lsyn”.
Mi disse, con la sua voce dolce come miele, continuando a
sorridere, come giocandosi di me.
“Ed io non ho perdonato questo tuo enorme
fallimento. Non perdono facilmente. Mio fratello è l’unico capace
di poter preservare il mio sangue e la mia stirpe. Io non posso avere figli:
senza Chekaril, il nostro regno sarebbe preda dei
feroci avvoltoi della successione, e piomberebbe nel caos. E tu cosa fai?
Giochi all’inseguimento? Comprendi al meglio la portata della tua
imprudenza, ora? Ti chiedo ora l’ultimo favore. Vai, e
cercalo, e dopo sarai libera”.
Come mi sentivo umiliata, ma come quelle parole furono per
me campane a festa, gioia e luce in una camera buia!
Sì, avevo ancora una possibilità. La mia
Regina mi aveva fatto un regalo.
Provai un’immensa gratitudine per lei, che aveva
capito l’entità della mia pena.
Cosa potevo fare, se non obbedire?
Non sopportavo più la mia vita inerte,
l’orrore che suscitavo al mio passaggio, i miei incubi, i miei ricordi.
Volevo fuggire, scappare via, volare in alto e ritornare ad essere forte.
Radunai le mie armi e tutto ciò di cui avevo
bisogno, e mi misi in viaggio.
L’ultima missione.
Passarono ore. Giorni, settimane, anni.
Cinquant’anni.
Non sono molti, per un elfo, in realtà. Nella sua
vita non cambia nulla.
E nella mia ci fu spazio solo per
il vagare, il cercare, come un cane rognoso e randagio.
Per cinquant’anni, vagai.
Per cinquant’anni, non conobbi altro che fuggevoli
illusioni, veglie crudeli e cocenti delusioni.
Per cinquant’anni fui la tetra pellegrina,
l’oscura viaggiatrice.
E, per cinquant’anni, non ebbi notizia alcuna di
Chekaril.
Ora voglio raccontarvi una storia.
La storia di come bevvi
l’amaro calice fino alla feccia.
Perché, si,
come ogni viaggio, anche il mio doveva avere un termine.
Me ne sarei
resa presto conto.
Angolo di Akita xD: come vedete, non è affatto
granché .____. conto di
migliorare...o lo spero O.ò I capitoli sono
corti, lo so, ma preferisco così (almeno non ci si ammazza al solo
vedere la lunghezza xD). Beh, in ogni caso, vi
piaccia o meno questa storiella senza pretese,
lasciate una bella recensione? Fa bene alla salute, sapete... Soprattutto a quella dell’autrice. Graaazie
xD
ps: questo prologo è stato corretto e migliorato. Era tempo che
volevo farlo, ma purtroppo non ne ho mai avuto
l’occasione. Provvederò a sistemare anche
gli altri capitoli quando potrò.
Akita