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Autore: afep    23/02/2014    3 recensioni
Skyrim, terra di neve e ghiacci, di fieri guerrieri e bardi, teatro dello scontro tra Alduin ed il Dovahkiin e del ritorno dei draghi nei cieli di Tamriel.
Eppure non sono i draghi, il peggior problema di quelle lande, perché Skyrim è scossa sin dalle fondamenta da una guerra civile, un terribile conflitto che scuote gli equilibri di un popolo, distrugge le famiglie e nutre la terra con il sangue dei vinti.
Un conflitto destinato a far cantare le lame degli uomini in battaglia, ed il cui esito designerà il trionfo o l'inevitabile caduta dello Jarl ribelle.
---- sospesa ----
Genere: Avventura, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ulfric Manto della Tempesta
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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La luce che entra dalle ampie finestre ad arco si posa morbidamente sul pavimento della stanza, sui mobili in legno di rosa e sulle suppellettili argentate, disegnando elaborati ricami d’ombre laddove passa attraverso le trine delle tende.
Nella languida penombra una bambina solleva le mani minute e, con estrema cura, sfila le forcine dall’elaborata acconciatura. In piedi davanti ad un’alta specchiera dalla cornice dorata, appoggia i pettini d’argento ed i fermagli di perle sul ripiano della cassettiera alla sua destra, usando un’estrema cura.
Le sue dita agili sciolgono le volute e le trecce create dalla sua balia, liberando una folta capigliatura dai caldi riflessi dorati che le ricade morbidamente fino alla piccola vita, che ancora non ha cominciato ad assottigliarsi.

Soddisfatta ed orgogliosa, scruta la propria immagine nello specchio d’argento lucidato, mettendosi di profilo. Il suo petto continua ad essere piatto e senza alcun accenno di rigonfiamento, ma nel giro di uno o due anni comincerà a crescere, trasformandola in una giovane donna. Quando arriverà quel momento potrà finalmente partecipare alle feste danzanti, ed allora volteggerà nei suoi begli abiti eleganti e si lascerà corteggiare dai giovanotti, ma senza prestare attenzione ad alcuno di loro perché sa che nelle sue condizioni sarebbe sconveniente.
Persa nelle proprie fantasticherie ondeggia lentamente, canticchiando a bocca chiusa un motivetto lento e sognante, immaginando di muoversi nelle grandi sale del palazzo di Daggerfall illuminate a festa da centinaia di candele.
“Lirael?”
La bambina si zittisce all’improvviso, afferrando convulsamente i fermagli e le forcine ed appiattendosi contro il mobile. Trattiene il respiro, sperando di passare inosservata, ma non ha fatto i conti con la cassettiera, che scricchiola non appena lei vi si appoggia. Quasi all’istante, in  un confuso fruscio di gonne un’Altmer dal profilo affilato fa capolino dalla porta, e scrutando nella stanza scorge la piccola intrusa.
“Lirael, cosa ci fai… Oh, per Azura!” Sbotta la donna, non appena scorge i lunghi capelli sciolti della ragazzina.
“Mi spiace, Mira.” Esclama la bimba, ma l’Elfa si rimbocca le maniche con un sospiro esasperato e prende uno sgabello, battendo una mano sulla seduta di raso imbottito.
“Siediti. Quante volte ti ho detto di non scioglierti i capelli?” La rimprovera, mentre la piccola si arrampica sullo sgabello e prende posto. Da una tasca del largo grembiule la donna estrae una spazzola con il manico di madreperla, atteggiando le labbra sottili in una smorfia contrariata. “Le donne sposate portano i capelli raccolti.” Recita, ricordando una delle tante regole che scandiscono la vita della sua minuta protetta.
“Ma io non sono una donna. Sono una bambina!”
“Una bambina disobbediente.” La rimbecca la balia, cominciando a pettinarle la lunga chioma.
La piccola Lirael rimane in silenzio per un attimo, torcendosi le mani in grembo ed accompagnando i colpi di spazzola di Mirala con dei piccoli movimenti del capo.
“Mio zio dice che a Skyrim le donne sposate non sono obbligate a raccogliersi i capelli.” Dichiara, un po’ incerta.
“Quando sarai a Skyrim, seguirai le regole delle corti di Skyrim.” La rimbecca prontamente. “Ma finché resterai a Daggerfall, seguirai le regole di Daggerfall.”
La bimba borbotta qualcosa, contrita, e subito la sua balia la richiama all’ordine.
“Non fare il broncio, Lirael." Sospirando esasperata ripone la spazzola, e con le dita comincia a ravviarle all’indietro le ciocche sulla fronte e sulle tempie. “Devi imparare a comportarti come una signora, tesoro mio.”
“Sì, Mira.” Mormora Lirael, e Mirala si china rapidamente a baciarle la sommità della testa.
“Ecco, questa è la mia bambina.” Dice dolcemente in tono soddisfatto, e Lirael sospira, rassegnata.
Nella sua vita non sono ancora trascorsi undici inverni, eppure il suo destino pare già scritto.
 
 
Con le dita intirizzite sfiorai la superficie ruvida della pergamena, storcendo la bocca. Qualcosa non quadrava.
Appollaiata sul bordo di un sedile di legno, accanto al camino in cui brillavano flebilissime fiamme sul punto di spegnersi, tenevo un vecchio registro polveroso sulle ginocchia osservando nomi e cifre stilati dalla scrittura precisa e regolare di Jorleif.
Mi trovavo, come capitava ormai spesso, nello studiolo del soprintendente. Passavo tanto tempo in  quella stanzetta grigia, spoglia e costantemente fredda, che era divenuta per me un luogo familiare.
All’esterno stava nevicando, ancora e per l’ennesima volta da quando ero arrivata a Windhelm. Pareva che in quella città non esistessero altri colori che il grigio della pietra, il bianco della neve ed il pallore del ghiaccio.
Con un sospiro sollevai gli occhi dal registro e li posai sulle sottili feritoie da cui entravano folate d’aria gelida. Negli angoli, su alti candelabri di ferro, vi erano alcune candele di sego, ma non erano in numero sufficiente a scaldare l’ambiente ed il vento le aveva ormai spente quasi tutte, facendole smoccolare per terra.
Ogni giorno che passava, sentivo sempre più forte la nostalgia per le terre di High Rock. Mi mancavano le sue alte coste rocciose, le distese di prati verdi costellati da mulini, i giardini fioriti della corte in cui ero cresciuta e la sua gente raffinata ed elegante, così diversa dai Nord dai modi bruschi e rozzi che abitavano Windhelm ed il Palazzo dei Re.
Un leggero bussare alla porta mi distrasse dai miei pensieri, riscuotendomi dal torpore dei ricordi.
“Avanti.” Feci, con voce forse un po’ troppo squillante, ed un ragazzo che doveva avere circa uno o due anni meno di me entrò nella stanza, portando tra le braccia un carico di ciocchi di legna.
Mi rivolse solo un lieve inchino con il capo, prima di voltarsi verso il camino e cominciare a riattizzare il fuoco ed alimentarlo con il suo carico. Aveva, come la maggior parte dei Nord, lunghi capelli biondi e dritti, che gli scendevano sulle spalle in ciocce sporche ed arruffate. Era alto e magro, eppure pareva eccezionalmente forte. Mentre lo osservavo armeggiare con l’attizzatoio muscoli e tendini danzavano sotto la pelle delle sue braccia, come se fosse abituato a svolgere lavori di fatica, e le sue larghe mani arrossate dal freddo erano già nodose come quelle di un uomo. Doveva essere probabilmente uno dei giovani taglialegna impiegati da mio marito nei boschi che circondavano Windhelm; avevo trovato i loro nomi nei registri di Jorleif, affiancati ordinatamente alle cifre promesse ad ognuno per il lavoro che svolgevano.
Attesi che il giovane terminasse di ravvivare il fuoco ed uscisse, quindi tornai a rivolgere la mia attenzione alle parole vergate con precisione sulle pagine del libro contabile che tenevo sulle ginocchia.
Da quando avevo assunto il ruolo che il mio rango comportava, soprintendendo all’economia del castello, avevo sempre cercato di essere attenta e corretta, ma quella mattina mi ero imbattuta in un’autentica stranezza.
Tra i molti alloggi che il palazzo metteva a disposizione dei suoi servitori, ve n’era uno occupato da un carrettiere che non lavorava, né aveva mai lavorato, al servizio di mio marito. Normalmente quest’uomo avrebbe dovuto pagare una piccola somma per riscattare le stanze in cui viveva, eppure in quel caso non solo non veniva chiesto un solo Septim, ma spesso gli erano stati fatti dei doni quali vino, vivande, abiti e legna, benché il suo stipendio da carrettiere gli permettesse di comprare tutto ciò di cui aveva bisogno.
Ancora più curioso, il suo nome non era affiancato da alcun patronimico o appellativo familiare.
Avrei tanto voluto chiedere spiegazioni a Jorleif, ma il soprintendente era partito il giorno prima per Castel Amol, la vecchia dimora dei miei avi ormai divenuta una fortezza presidiata dai soldati dell’Eastmarch.
Con un sospiro osservai ancora una volta il nome sulla pergamena, in modo da imprimermelo bene a mente, e mi alzai dalla sedia, abbandonando il piacevole tepore delle fiamme che ora ardevano nel camino.
Lasciai il volume sul ripiano della scrivania, accanto agli abachi, ed uscii dallo studiolo chiudendo la porta dietro di me. Non appena mi vide, Mirala scattò in piedi; si era seduta su un minuscolo sgabello a tre gambe, un semplice panchetto da mungitrice, appena fuori dall’uscio, in modo da non disturbarmi con la sua presenza ed essere nello stesso momento a portata di voce nel caso avessi avuto bisogno di lei.
“Ti serve qualcosa, cara?” Mi chiese infatti la mia balia, stringendo delicatamente in mano il ricamo di pizzo che stava confezionando, e che sarebbe andato ad ornare uno dei miei mantelli.
“No, Mira. Ho solo bisogno di andare a parlare con mio marito.”
A quelle parole Mirala aggrottò la fronte, confusa. Sapeva che il mio sposo sopportava a malapena la mia presenza, ed erano passati solo pochi giorni da quando si era infuriato con me per essere uscita senza scorta. Ma la mia curiosità era grande, ed il desiderio di scoprire qualcosa in più su quel misterioso carrettiere era superiore alla mia prudenza.
Così, seguita prontamente dalla mia balia, attraversai corridoi e scesi scalinate di pietra resa liscia da centinaia di piedi, fino a che non mi ritrovai nella sala del trono.
Mi aspettavo di trovare lì mio marito, intento come suo solito a disquisire su temi bellici con i suoi sottoposti. Invece, ad esclusione di un’anziana servitrice che spazzava in terra, non vidi nessuno.
Il lungo tavolo davanti al trono era come sempre perfettamente apparecchiato con suppellettili d’argento, e la luce delle torce e dei lumi di corno si riflettevano sulle loro superfici lucidate a specchio. In un angolo, la donna continuava a manovrare la ramazza; ad ogni suo movimento sollevava una piccola nuvola di polvere, producendo un rumore raschiante ogni qualvolta che le setole di saggina strusciavano sulla pietra.
Mi fermai in mezzo alla sala, sorpresa di trovarla così vuota, e dopo un primo istante di stupore mossi qualche passo fino allo scranno di mio marito, posto a capotavola. Passai le dita sugli intagli dell’alto schienale, domandandomi dove mai potesse essere, ed in quell’istante percepii un lieve brusio che pareva provenire da una delle stanze adiacenti alla sala del trono.
Ancora un po’ incerta cominciai a muovermi in quella direzione, e dopo pochi passi riconobbi il timbro di voce del mio sposo, anche se ancora non riuscivo a distinguere cosa stesse dicendo.
Dopo essermi lanciata uno sguardo alle spalle per accertarmi che Mirala fosse ancora nei paraggi e che restasse dov’era, mi affrettai a raggiungere la stanza da cui provenivano le voci, conosciuta in tutto il palazzo con il nome di sala tattica nonostante non fosse altro che una ampia anticamera davanti alle scale che conducevano agli appartamenti reali.
Attraversai così l’ultimo tratto del salone principale e passai sotto il lungo passaggio ad arco che si apriva nella parete di pietra, giungendo infine nella sala tattica. Avevo mosso solo qualche passo in quella stanza apparentemente vuota, osservando perplessa il tavolo di solido legno su cui erano stati appoggiati lance, spade, scudi e guanti di maglia, come se fosse il ripiano di un’armeria, quando un ringhio minaccioso mi gelò sul posto.
Da dietro il tavolaccio di legno emerse all’improvviso un gigantesco segugio, dal pelo nero ed ispido e le zanne snudate. Notai la catena che gli cingeva mollemente il collo, quasi invisibile sotto il pelame, ma non ebbi il tempo di chiedermi perché quell’animale che avrebbe dovuto essere relegato in cortile fosse all’interno del palazzo, perché in quel momento cominciò a muoversi lentamente verso di me, tenendosi basso come se intendesse attaccarmi.
“Talos!” Vociò qualcuno nella stanza ed il cane reagì all’istante, abbassando le labbra sulle zanne e riducendo il ringhio ad un brontolio di avvertimento.
“Hai bisogno di qualcosa?” Mi apostrofò la stessa voce, ed allora lanciai una rapida occhiata sopra la mia spalla sinistra, capendo il motivo per cui, entrando, non avevo visto nessuno.
Mio marito sedeva accanto ad un piccolo tavolo rotondo dal ripiano grezzo e rovinato, posto in un angolo. Galmar aveva preso posto su uno sgabello di fronte a lui, ed entrambi brandivano un boccale di peltro.
“Allora?” Mi incalzò il mio sposo. Poi, vedendo che non accennavo a muovermi, ancora troppo spaventata dall’animale che seguitava a brontolarmi contro, schioccò la lingua per richiamarlo. Il segugio mi lanciò un’ultima occhiataccia e trotterellò guardingo verso il suo padrone, accucciandosi accanto alla sua sedia  con aria protettiva.
Titubante mi avvicinai di qualche passo ai due uomini seduti al tavolo, ma mi fermai prontamente non appena sentii Talos emettere un soffocato latrato di avvertimento.
“Devo parlarti riguardo ai registri contabili, Marito.” Dissi incerta, giungendo le mani in grembo e cercando di ignorare l’animale che continuava a guardarmi come se non desiderasse altro che saltarmi alla gola. Dopo la sfuriata di qualche giorno prima, quando mi ero allontanata da palazzo senza scorta, avevo deciso che mi sarei sforzata di rivolgermi al mio sposo in seconda persona, ma ancora mi suonava strano dargli del tu.
Alle mie parole lui mi lanciò un’occhiata infastidita e prese un sorso dal suo boccale, asciugandosi poi barba e baffi sul dorso della mano.
“Va bene, ma fai in fretta. Ho parecchio da fare.” Sbottò, appoggiandosi con un gomito sul tavolo e puntandomi in viso due occhi duri e severi.
“Io…” Cominciai titubante, ma poi decisi di farmi coraggio e ripresi, con più sicurezza. “Stavo controllando i registri, quando mi sono imbattuta in una stranezza. Dal momento che non posso rivolgermi a Jorleif, credevo che tu potessi chiarire i miei dubbi.” Spiegai, cominciando a torcermi le mani. Il modo in cui mi guardava ogni volta che gli rivolgevo la parola mi rendeva nervosa; era come se non aspettasse altro che un mio errore per aggredirmi verbalmente.
“Vai avanti. Non ho tutta la giornata.” Mi disse spazientito, stringendo gli occhi fino a ridurli a due fessure del colore dei ghiacci perenni. Irrequieta mi morsi l’interno della guancia e continuai, cercando di apparire più sicura di quanto non fossi e di non incrociare lo sguardo malevolo del segugio.
“Secondo quanto è stato registrato vi è un uomo, un certo Halfdan, che occupa gli alloggi dei servitori, ma non lavora al nostro servizio.” Gli riferii in fretta. “E spesso si appropria, o gli viene data, parte dei viveri e del legname che servono al castell… oh!”
Alle mie parole mio marito scattò improvvisamente in piedi, fissandomi con uno sguardo così bruciante da farmi arretrare involontariamente di un passo.
“Ulfric.” Lo richiamò Galmar in tono di avvertimento, alzandosi a sua volta con fare circospetto mentre Talos, riprendeva a ringhiare minaccioso.
“Questi non sono affari che ti riguardano.” Tuonò il mio sposo, stringendo i pugni. “So chi vive nel mio castello, e non ho alcun bisogno che tu me lo ricordi.”
La sua reazione così improvvisa ed aggressiva mi ammutolì per un istante, dandogli il tempo di continuare.
“Lascia che sia Jorleif ad occuparsi di queste cose.” Mi disse perentorio.
“Jorleif non è a palazzo…” Cominciai, ma mio marito mi interruppe con uno sbuffo rabbioso, abbassando una mano per affondarla nel vello ispido di Talos per calmarlo.
“Credi che non lo sappia?” Chiese, spazientito. “Sono stato io a mandarlo a Forte Amol. Pensi davvero che possa dimenticarmelo?”
“No, ma…”
“Allora evita di irritarmi parlando a vanvera.”
Con quelle ultime parole tornò a sedersi, tirandosi Talos tra le ginocchia per tenerlo fermo e facendo un brusco cenno a Galmar perché si sedesse a sua volta.
Per anni Mirala mi aveva educata perché sapessi sempre reagire come una vera signora, ma in quel momento mi parve di aver dimenticato ogni suo insegnamento.
Non sapevo come comportarmi, perché nessuno mi aveva mai parlato con durezza ed io ancora non mi ero abituata ai modi di mio marito. Eppure, anche in quell’attimo di confusione, non riuscivo a sopportare che lui potesse avere l’ultima parola, così strinsi i pugni tra le pieghe della veste e levai il mento.
“Io non parlo a vanvera.” Ribattei petulante. “Ero qui solo per avvisarti, ma chiaramente non ti importa che qualcuno possa approfittare delle tue proprietà ed appropriarsi dei tuoi averi.”
L’occhiata che il mio sposo mi rivolse sarebbe bastata da sola a fermare un’armata. Il segugio si agitò sotto la sua presa lasciandosi sfuggire un basso ringhio, e lui serrò le dita sulla catena che cingeva il collo della bestia.
“Se  tenere i conti ti agita tanto,” Mi disse con voce ringhiante. “Allora non dovresti occupartene. Ora va’ nelle cucine e fammi portare un’altra brocca di birra.”
“Non sono una serva.” Sbottai prima di rendermene conto. A quella risposta vidi gli occhi di mio marito ridursi a sottili fessure e compresi di aver parlato troppo, a dispetto di tutti gli insegnamenti della mia balia.
Fu Galmar ad impedire che scoppiasse. Si alzò in piedi con un sospiro più rumoroso di quanto non fosse necessario e batté le mani tra loro, strofinandole con un sorriso soddisfatto come se non fosse accaduto nulla di rilevante.
“Sono lieto che ci abbiate fatto visita, Milady, ma non voglio trattenervi.” Disse il vecchio guerriero con un sorriso bonario, raggiungendomi e prendendomi gentilmente per una spalla. “Vi lascio tornare alle vostre occupazioni.”
Con quelle parole mi pilotò con delicata fermezza verso l’uscio, e quando mi lasciò andare rimase a bloccare il vano della porta con la sua mole, accertandosi che io mi allontanassi.
Mirala, che era rimasta obbedientemente ad attendermi, mi venne subito incontro con gli occhi che lanciavano fiamme. Non doveva esserle piaciuto restare nella sala del trono mentre io parlavo con mio marito, ma non avrebbe mai infranto un mio ordine davanti ad un altro servitore, per non correre il rischio che la mia già debole autorità venisse messa in dubbio.
“Cosa è successo?” Mi chiese a bassa voce, in tono pressante. Probabilmente aveva sentito il grosso segugio ringhiare, o forse la voce tonante del mio sposo.
Cercai di rassicurarla con un sorriso tirato e cominciai ad incamminarmi automaticamente verso le cucine. Avevo ormai oltrepassato il maestoso trono di pietra che torreggiava nella sala quando mi bloccai improvvisamente.
Ero tanto abituata a fare ciò che mi veniva detto da agire senza pensare, ma fortunatamente me ne resi conto in tempo. Avevo detto a mio marito che non ero una serva, dunque non mi sarei comportata come tale.
Mi volsi allora verso la donna che avevo visto spazzare il pavimento al mio arrivo. La individuai nello stesso posto in cui l’avevo intravista la prima volta, intenta a muovere la scopa facendole sfiorare appena terra, in modo da non creare rumore e da poter ascoltare meglio le nostre parole.
La richiamai con il tono più imperioso di cui ero capace, cercando di imitare quello di mio marito, e quella si avvicinò perplessa.
“Signora?” Mi disse, fermandosi a debita distanza e scrutandomi con finta soggezione. In quel castello pareva che nessuno mi prendesse sul serio, nemmeno quando facevo la voce grossa.
“Mio marito ha bisogno di mandare un ordine alle cucine. Vai da lui e fai ciò che ti chiede.”
La donna mi guardò come se le avessi chiesto di pulire le stalle a mani nude, un misto di sconcerto e ribrezzo insieme.
“Io sono una domestica, Signora, non una cameriera.” Mi fece notare in tono pungente, sollevando leggermente la scopa per sottolineare il concetto.
Sapevo che la servitù aveva una sua sorta di scala gerarchica, in cui ognuno aveva un compito ben preciso, ma in quel momento ero tropo irritata per badarvi. Non avrei mandato Mirala nelle cucine né vi sarei andata di persona, ma mi sarei comunque comportata da signora e gli avrei inviato un servitore a cui avrebbe potuto ordinare ciò che preferiva.
“Non ti sto chiedendo di fargli da cameriera. Vai da mio marito, ascolta ciò che chiede e poi riferiscilo alle cuoche. Al resto penseranno loro.” Dissi, infastidita dalle sue rimostranze.
Vidi la donna aprire la bocca per lamentarsi nuovamente, ma quando sollevò gli occhi sulla mia balia la serrò nuovamente e borbottò un assenso, affrettandosi poi verso la sala tattica.
“Devi imparare ad importi, Lirael, o non ti ascolteranno mai.” Mi disse Mirala mentre la domestica si allontanava, volgendo il suo bel profilo affilato verso di me.
“Non voglio che mi odino.”
“Vuoi forse che ti calpestino?” Mi domandò lei con un sopracciglio levato, posandomi una mano sulla guancia. “Sei la loro signora e come tale ti dovrai comportare, mia cara. Rammenti quello che ti ho insegnato, vero?”
“Sì, Mira.” Sospirai, e la mia balia si chinò a posarmi un bacio sulla fronte.
“Ecco, questa è la mia bambina.” Mi disse dolcemente in tono soddisfatto, ed io mi lascia sfuggire un altro sospiro.
Nella mia vita erano ormai trascorse diciotto estati, eppure il mio destino scritto da altri pareva non essere mutato.

 

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Le notizie che giungevano da sud erano sempre peggiori.
Con un grugnito infastidito Ulfric fissò per l’ultima volta il dispaccio portato da un messaggero, la pergamena resa ondulata dall’umidità e spiegazzata per essere stata tanto a lungo sotto una giubba.
Secondo quanto riportato diversi Thalmor avevano varcato il passo dei monti Jerall, la catena montuosa che divideva Skyrim da Cyrodiil, durante l’ultima luna del mese di Stella della Sera.
Avevano alloggiato brevemente a Falkreath, la città più vicina al confine, e Jarl Dengeir si era affrettato ad inviare missive ai sovrani di tutti quei feudi che, come lui, non avevano mai approvato gli accordi di pace tra quegli insulsi Altmer e l’Impero.
Secondo quella lettera rovinata, il gruppo di Thalmor si era poi diretto a Whiterun, uno dei maggiori snodi commerciali della regione; laggiù due di loro avevano preso la strada che portava a Solitude, mentre gli altri avevano ripreso il cammino per raggiungere la sede della loro ambasciata, situata più a nord.
Se i due elfi che si erano staccati dal gruppo erano davvero diretti nella capitale di Skyrim, allora la situazione era peggiore di quanto Ulfric avesse immaginato. Il Re dei Re Istlod avrebbe concesso loro udienza, poiché non c’era altra ragione per cui avessero dovuto raggiungere Solitude, e quei viscidi Orecchie a Punta lo avrebbero convinto della necessità di insediare dei giudici Thalmor in ogni corte della regione.
Nessun adoratore di Talos, nessun vero Nord, sarebbe più stato al sicuro dopo quel passo. Ulfric aveva sempre pensato che concedere loro un’ambasciata a Skyrim fosse un azzardo, pari all’aprire le porte al nemico, ed ora pareva che presto ci sarebbero dovuti pure finire a letto, per usare la stessa metafora.
Accigliato, lo Jarl ripiegò la lettera fino a ridurla ad un piccolo riquadro, che posò sul ripiano della tavola imbandita. Quel giorno era seduto su una delle panche intento a godersi un buon boccale colmo di vino quando il messaggero era arrivato, ed ora che aveva letto le notizie che portava non aveva più alcuna voglia di tornare a bere.
Non aveva mai amato i Thalmor. Loro erano stati la causa di alcuni dei momenti più cupi della sua esistenza, della guerra che aveva decimato la sua gente, persino della messa al bando del suo dio.
Se fosse dipeso da lui nessuno di quegli elfi, men che meno le loro spie travestite da funzionari, avrebbero passato il confine. Avrebbe fatto pattugliare i passi montani, e rimandato indietro le navi che battevano le bandiere del Dominio Aldmeri.
Ma per quanto durante gli anni avesse esposto le proprie idee  nei consigli e nelle riunioni con gli altri Jarl, alla fine era sempre stato Istlod, il Re dei Re, ad avere l’ultima parola.
Ulfric sollevò una mano, grattandosi pensosamente il mento barbuto. Vi erano ben quattro sovrani che condividevano la sua antipatia per gli elfi; se fossero riusciti a fare fronte comune, rifiutandosi di accogliere i Giudici – le spie – Thalmor nelle loro corti, avrebbero potuto mandare un messaggio forte all’Impero ed a tutti i cittadini di Skyrim.
Era possibile sovvertire gli scomodi accordi siglati dietro la promessa di denaro, mettere fine a quella silenziosa invasione di Altmer nella loro bella terra.
Se fossero riusciti a far sollevare buona parte della popolazione, Istlod non avrebbe potuto ignorare la loro voce, a meno che non decidesse di soffocarla nel sangue. Ma tutti sapeva che il vecchio Jarl di Solitude, pur essendo stato un discreto combattente da giovane, non aveva alcuna intenzione di impugnare le armi, per cui quella possibilità era tanto lontana quanto lo erano le lune da Tamriel.
Annuendo soddisfatto tra sé e sé, Ulfric tornò a riprendere il calice di vino che aveva lasciato appoggiato sulla tavola. Avrebbe atteso il mese di Stella del Mattino ed avrebbe celebrato i dovuti riti in onore del dio Talos, quindi si sarebbe diretto a nord, nel feudo di Winterhold, ed avrebbe esposto la sua idea allo Jarl locale. Era sicuro di trovare in lui un solido appoggio, anche in virtù
dei flebili legami famigliari che li univano.
Forse avrebbe dovuto portarsi dietro quella sua piccola moglie, in modo da far sembrare il viaggio una semplice visita di cortesia. Era meglio non dare troppo nell’occhio, almeno fino a che il suo progetto non avesse preso forma.
Doveva ricordarsi di avvisare la giovane Lirael di farsi preparare i bauli dalla sua cameriera, e di procurarsi dei mantelli e degli abiti in grado di tenere lontano il freddo. Quella ragazzina era tanto freddolosa che a volte Ulfric dubitava che avesse davvero sangue Nord nelle vene.
Nel pensare alla moglie, lo Jarl aggrottò di nuovo le sopracciglia. Nell’ultimo mese, da quando l’aveva rimproverata per essere uscita senza scorta, quella ragazzina sembrava aver deciso di rendergli la cose più difficili. Ora ribatteva a qualunque cosa le dicesse, irritandolo più del dovuto e rendendosi a volte quasi insopportabile.
A volte, quando riusciva a mandarlo fuori dai gangheri, gli capitava di maledire la sorte che lo aveva costretto a cercare denaro e ricchezze con un contratto matrimoniale. Si era preparato a dover accogliere nella propria dimora una ragazzetta Bretone, ma non aveva considerato come sarebbe potuta davvero essere Lirael.
Lirael.
Che razza di nome, poi.
Come poteva un uomo chiamare sua figlia Lirael? Una donna aveva bisogno di un nome femminile e forte, qualcosa come Inga, Gudrun o Waltraud, e non di un appellativo ridicolo, che ricordasse una ragazzetta piagnucolosa.
Di certo lui non avrebbe permesso che le sue figlie avessero nomi da damine senza spina dorsale; li avrebbe scelti personalmente, quando sarebbe venuto il momento.
Sempre che la ragazza si fosse decisa a rimanere incinta. Parte fondamentale dei matrimoni combinati, oltre all’unione di due ricchezze, era la procreazione degli eredi, ma nel loro caso sembrava che qualcosa non funzionasse. Andavano a letto insieme ormai da diverso tempo, ed ancora non era riuscito ad ingravidarla.
“Sei pensieroso. Brutto segno.” Esclamò Galmar, comparendo all’improvviso e sedendosi sulla panca al suo fianco. “A cosa pensi?”
“A mettere incinta mia moglie.” Rispose Ulfric distrattamente, ed il vecchio guerriero ridacchiò, battendosi una mano sulla gamba.
“Ah, pensieri felici, allora.” Esclamò con aria di scherno. “Devo lasciarti da solo, o posso restare per farmi almeno una birra?”
Ulfric sollevò sul suo amico uno sguardo irritato e scrollò le spalle. In fondo alla sala del trono una porta si aprì e sua moglie fece capolino, seguita dalla sua cameriera Altmer. Nonostante i loro incontri notturni, quel suo ventre continuava a rimanere perfettamente piatto.
Dannata ragazzina!
“Se continui a ringhiare così, dovremo legarti alla catena di Talos.” Osservò Galmar, prendendo il boccale che una serva gli offriva e ringraziandola facendole l’occhiolino. “Qual è il problema?”
“Non c’è nessun problema.” Sibilò Ulfric a denti stretti, fissando la giovane Lirael veleggiare con le sue belle gonne verso l’ala ovest del palazzo. Quella maledetta Altmer le stava sempre appresso come un cagnolino. Forse non era solo una cameriera. Forse era una spia dei Thalmor.
“Ho trovato un paio di ragazzi che potrebbero tornarci utili.” Riprese Galmar, dopo aver preso tre lunghi sorsi dal suo boccale. “Arcieri. Uno dei due maneggia un arco alto quasi quanto me.”
“Sono bravi?” Accortasi degli sguardi insistenti del marito, Lirael si affrettò a distogliere gli occhi. La sua Elfa invece lo osservò con sufficienza. Forse era quella cagna dalle orecchie a punta ad impedirle di rimanere incinta. Lo sapevano tutti che quelli della sua razza trafficavano con pozioni ed incantesimi.
“Più che bravi. Non sarei venuto a parlartene, altrimenti.” Il vecchio guerriero sollevò una mano, asciugandosi la schiuma della birra da barba e  baffi.
“Li esaminerò più tardi.” Borbottò Ulfric, lo sguardo ancora fisso sull’imboccatura del corridoio in cui erano sparite Lirael e la sua balia. “So che Jorleif è tornato da Forte Amol. Vai a cercarlo e digli che deve scrivere una lettera a Ioreth perché torni a Windhelm.”
“Ioreth?” Gli fece eco Galmar, affatto stupito da quel repentino cambio di argomento. Abbassando lo sguardo sul cuoio che gli copriva l’ampio petto, cominciò a grattare con l’unghia del pollice uno schizzo di fango secco. “Non si trova a Solitude, ora, alle dipendenze della nuora di Istlod?”
“Esattamente.”
A quella conferma il vecchio guerriero ridacchiò e si lasciò sfuggire un rutto senza curarsi di coprirsi la bocca.
“Hai intenzione di infastidire il Re dei Re rubandogli servitori?” Chiese in tono spensierato. “Non credo che la bella Elisif voglia rinunciare a Ioreth.”
“I figli dell’Eastmarch tornano sempre a casa.” Decretò Ulfric con severo cipiglio. “Istlod dovrà rassegnarsi, e quella viziata della moglie di suo figlio può anche andare nell’Oblivion, per quanto mi riguarda.”
Galmar allungò le gambe muscolose, osservando i propri stivali di cuoio e pelliccia sporchi a causa della neve mista a fango che ingombrava il cortile e le strade di Windhelm. Le calzature, rinforzate internamente da piastre di ferro in modo da parare eventuali colpi e legate strettamente con una stringa, lo ricoprivano fino ai polpacci
“Dubito che Ioreth voglia lasciare la corte di Solitude.”
“Lo farà, se sarò io a chiederlo.” Decretò Ulfric, quindi si portò il calice alle labbra e scolò il vino all’interno, facendo infine schioccare le labbra. “Voglio mandare quella lettera prima che faccia buio. Quando Jorleif ha finito digli di venire da me, così che io possa apporre la mia firma ed il mio sigillo.” Detto questo posò le mani sulle ginocchia e si alzò con un grugnito, dirigendosi verso il corridoio imboccato poco prima dalla moglie.
“Come desideri.” Esclamò Galmar, appoggiando un gomito sul tavolo e guardandolo con un sopracciglio levato. “Posso chiederti dove stai andando? Il cortile è dall’altra parte.” Gli fece notare ironicamente, indicando la direzione con un cenno del capo.
“Devo procurarmi un erede.” Borbottò lo Jarl, e con queste ultime parole lasciò la sala del trono.
 
 

******
 

 
I giorni passarono, ed il mese di Stella della Sera lasciò il posto a Stella del Mattino.
Era trascorso diverso tempo da quando avevo raggiunto Windhelm, ma a dispetto di quanto avevo sperato non ero ancora riuscita ad abituarmi a quel clima gelato.
Il ritorno di Jorleif da Castel Amol segnò l’inizio di una fitta corrispondenza tra mio marito ed i feudi confinanti. Non riuscii mai a mettere le mani su una di quelle missive, perché il sovrintendente le costudiva gelosamente in un armadio di cui solo lui ed il suo signore possedevano la chiave.
Avrei tanto voluto avere il tempo necessario per cercare di forzare quell’armadietto. Non avevo le abilità necessarie, e probabilmente il mio tentativo sarebbe andato a vuoto, ma il solo fatto di averci provato avrebbe quantomeno placato la mia curiosità.
Avevo inoltre il sospetto che mio marito avesse ordinato a Jorleif di far sparire ogni documento in cui era nominato Halfdan il Carrettiere. Dopo il ritorno del sovrintendente avevo cercato i registri in modo da chiedergli spiegazioni, ma senza trovarli, e quando avevo nominato quel misterioso uomo mi aveva detto di non averlo mai sentito nominare, nonostante fosse stata la sua mano a vergarne il nome sui libri contabili.
Il nuovo mese portò con sé un’inaspettata novità quando il mio sposo, una mattina, mi chiese di rimanergli al fianco mentre svolgeva il ruolo di giudice davanti alla cittadinanza.
“Devi imparare a conoscere i tuoi cittadini. E loro devono vederti.” Mi aveva detto, mentre dei servitori ponevano a sinistra del suo trono di pietra grigia un piccolo sedile di legno, poco più di uno sgabello dall’alto schienale, ma meravigliosamente intarsiato con motivi tipicamente Nord.
La lunga tavola venne sparecchiata, il pavimento spazzato e cosparso di paglia, ed i segugi di mio marito che erano soliti girovagare per le sale furono cacciati in cortile. Infine vennero aperte le porte, dando inizio a quella mattinata di udienze.
Mi ero aspettata che la gente arrivasse alla spicciolata, ma scoprii che davanti all’entrata del palazzo si era già radunata una nutrita folla, che subito si riversò nella sala del trono come acqua da una cascata, uomini e donne appartenenti ad ogni ceto sociale, dal contadino più umile al nobile Thane.
Entrando portarono con sé la neve e lo sporco delle strade, ed improvvisamente capii il motivo per cui era stata sparsa della paglia sul pavimento.
Mi stupì il numero di Dunmer presenti; si tenevano discosti dagli altri cittadini Nord, a volte lanciando loro occhiate cariche d’astio. Per contro i nativi di Windhelm li osservavano con evidente diffidenza, ed era chiaro che tra le due razze non corresse buon sangue.
Le persone presero posto non appena entrate nella sala del trono, chi inginocchiandosi in terra, chi occupando le panche attorno al tavolo. Ognuno si era portato appresso testimoni per far valere la propria opinione, bambini di ogni età ed, in alcuni casi, persino degli animali da cortile, e tutti parlottavano nel proprio idioma natale, così che nell’ampia sala regnava un forte brusio.
Ascoltai molti diverbi quella mattina, che andavano dall’accusa di furto alla discussione su chi dovesse macellare un certo capo di bestiame nato dall’accoppiamento di bestie con padroni differenti. Ogni volta mio marito ascoltava, aggrottava la fronte e disponeva che la ragione fosse di uno o dell’altro contendente, mentre Jorleif, aiutato da due giovani scrivani, annotava il tutto.
Non sempre mi trovai d’accordo con le sue decisioni, trovando che troppo spesso tendeva a favorire i cittadini Nord a discapito dei Dunmer, ma quel giorno il mio compito non era di decidere, bensì di stare silenziosamente al suo fianco lasciando che i cittadini mi vedessero ed imparassero a riconoscere il mio viso.
Fu una mattinata estenuante, e quando si concluse fui solo grata del permesso di ritirarmi per potermi riposare. Ma avevo appena messo piede nelle stanze reali che alcune donne armate di stoffa e spilli irruppero nella camera che dividevo con mio marito, cianciando di mantelli ed abiti.
Fui così costretta a restare in piedi su un basso sgabello, tremante di freddo nella mia sottile camiciola ricamata, mentre quelle sarte misuravano e appuntavano. Un paio di volte cercai di intavolare una conversazione, nel tentativo di scoprire qualcosa di più sul conto del misterioso carrettiere e su un certo Quartiere Grigio che avevo sentito nominare a più riprese durante la mattinata, ma tutto quello che riuscii ad ottenere furono delle risposte secche e definitive, che mi fecero capire due cose: del primo argomento non potevano parlarne, mentre del secondo preferivano non farlo.
“È stato mio marito, ad ordinarvi di non parlare?” Chiesi loro. Alla mia domanda al più anziana del gruppo sollevò fieramente il capo, fissandomi in viso con due schietti occhi del colore del ghiaccio.
“No, Signora. È stato Lord Ulrich a farlo.” Mi disse con aria solenne, ed io sentii un brivido corrermi lungo la schiena.
Perché nella fredda città di Windhelm, l’ordine di un Re morto condizionava l’esistenza dei vivi.
 
 

******
 

 
Stella del Mattino aveva portato con sé i consueti venti gelidi che spiravano dal Mare dei Fantasmi, smuovendo la neve fresca e facendo vorticare i pallidi e radi fiocchi che scendevano dal cielo.
Accigliato, Ulfric osservò il paesaggio innevato della sua città dall’alto della sua stanza, illuminato dalle ultime stelle che precedevano l’alba. Era ormai giunto il decimo giorno del mese, e da lì a breve lui e la sua scorta avrebbero sellato i cavalli per raggiungere la corte di Winterhold, più a nord, ma il viaggio si sarebbe rivelato difficoltoso se le strade non fossero state sufficientemente sgombre.
Con un grugnito scrollò le possenti spalle, già coperte da una spessa cappa d’orso appuntata con grosse fibule in ferro, ed attraversò la stanza fino al proprio letto, dove ancora giaceva la sua giovane moglie raggomitolata tra le coperte.
“Svegliati.” Le ripeté per l’ennesima volta quella mattina, e la ragazza mugolò qualcosa nel dormiveglia, avvolgendosi ancora più strettamente tra le coltri.
“Maledizione.” Sbottò Ulfric, e con un braccio scostò un lembo delle coperte, scoprendo una spalla nuda della giovane. “Alzati. Oggi non è il giorno adatto per poltrire.” Le ingiunse.
Lirael si rigirò tra le lenzuola, lanciò un’occhiata assonnata verso la finestra e subito spostò su di lui uno sguardo addolorato.
“Non è ancora l’alba.” Disse in tono petulante sporgendo il labbro inferiore e lo Jarl soffocò un ringhio di frustrazione. Ci mancava anche che quella ragazzina si mettesse a fare i capricci.
“Alzati.” Le ripeté perentorio, in tono che non ammetteva repliche. “Ti ricordo che hai dei doveri nei confronti del mio popolo.”
La sua giovane moglie rispose con un pigolio di protesta, che ebbe il solo effetto di irritarlo ancora di più. Con un movimento brusco le strappò di dosso le coperte e la ragazza si affrettò a coprirsi con le braccia, cercando di celare il proprio corpo nudo.
“Oggi celebriamo Talos, per cui mi aspetto che tu faccia ciò che devi e che ti presenti in orario. Alzati e vestiti, o giuro che ti trascinerò fuori da qui così come sei.” Le disse in tono deciso, e la giovane si mise seduta sul letto, tremando visibilmente con le braccia incrociate sul petto.
“Ho bisogno della mia camerier…”
“Posso vestirti anche io, l’importante è che tu ti spicci.” La rimbrottò, e davanti al suo sguardo stralunato continuò. “Se sono in grado di toglierti i vestiti posso anche rimetterteli. Forza, ora. Non amo ripetermi, sappilo.” Avrebbe fatto qualunque cosa, qualunque, purché si sbrigasse.
Con il capo chino per l’imbarazzo la ragazza si alzò dal letto e si rifugiò dietro il paravento, cominciando a trafficare con camiciole e sottane. Prima di seguirla Ulfric fece scorrere i chiavistelli che chiudevano la porta, la aprì e vociò lungo il corridoio, certo che da qualche parte vi fossero dei servitori che avrebbero provveduto a chiamare la balia della giovane.
Come aveva previsto l’Altmer arrivò, impeccabile ed altera come sempre, mentre lui era impegnato ad osservare la giovane in biancheria svolazzante che entrava nell’abito che le aveva scelto.
“Perdonate l’attesa.” Disse al donna, con quel suo marcato accento elfico sporcato dalle inflessioni Bretoni. “Andate pure, Signore. Penserò io ad assistere Lady Lirael.”
“Vestila in fretta.” Le intimò Ulfric lasciandole il posto dietro al paravento. Lanciò un’ultima occhiata alla schiena rivestita di seta della moglie, quindi uscì a gran passi dalla stanza ed si incamminò lungo il corridoio di pietra.
Durante la sua marcia incrociò una gran quantità di servitori, intenti a correre a destra e a manca per terminare le loro incombenze prima dell’inizio delle celebrazioni di Talos. Era maledettamente tardi, e lo Jarl trattenne un brontolio di frustrazione mentre varcava la soglia che dava sulla sala tattica, attraversandola con passo deciso fino all’adiacente sala del trono.
Laggiù trovò riuniti gli uomini della sua guardia personale, capitanati dal cupo e taciturno Asbjorn, ed Yrsarald e Galmar, impegnati a parlottare tra loro a bassa voce; erano tutti tirati a lucido, con capelli e barbe ben pettinati e divise senza l’ombra di fango o sangue. Poco distante vi erano invece i Bretoni di sua moglie riuniti in formazione, in attesa degli ordini del loro piccolo ed energico capitano.
“Ce ne hai messo, di tempo.” Esclamò Galmar non appena lo vide comparire. “Quella ragazzina deve piacerti davvero parecchio, se ti trattiene a letto persino in una giornata come questa.”
“Si è trattenuta lei sola, benché l’avessi avvisata giorni fa.” Brontolò Ulfric raggiungendo il suo vecchio amico ed il giovane capitano delle sue truppe. “Gli Dei soli sanno perché quella donna è sempre così stanca… Yrsarald, hai fatto accendere i fuochi?”
“Sì, Signore.” Rispose l’uomo con voce profonda, sollevando una mano per grattarsi il mento coperto da una corta barba bruna. “La popolazione si è già riunita, e sono tutti ansiosi di cominciare la processione. Temono che l’alba possa arrivare prima di essere riusciti a terminare le celebrazioni.” Le parole morirono sulle labbra dell’uomo, mentre i suoi occhi saettavano oltre le spalle del suo Jarl. Nello stesso momento Galmar piegò il capo in un accenno d’inchino, ed Ulfric comprese all’istante chi fosse sopraggiunto.
La giovane Lirael comparve, come sempre accompagnata da quella sua altezzosa balia Altmer, miracolosamente vestita e pettinata, ben avvolta in un mantello di lana tinto di blu ed ornato da ricami argentei sui bordi.
“Sono pronta, Marito.” Disse la ragazza, leggermente trafelata, non appena giunse abbastanza vicina. Nel vederla, i Bretoni della sua scorta personale si fecero avanti preceduti da Moran, il robusto ometto dall’aspetto coriaceo che li capitanava.
“Milady.” La salutò l’uomo con un inchino, e Lirael gli rispose con un sorriso affettuoso.
Era decisamente graziosa quando sorrideva così, pensò Ulfric mentre le porgeva il braccio per condurla all’esterno. Se solo non fosse stata tanto irritante, la sua compagnia non sarebbe stata affatto spiacevole.
Attraversarono insieme la sala del trono, e quando uscirono dalle porte vennero accolti da una ventata gelida e dalla luce delle torce rette dagli abitanti di Windhelm. Lo Jarl fece scorrere rapidamente lo sguardo sui volti dei suoi cittadini, riuniti davanti all’ingresso del Palazzo dei Re e nella piazza centrale della città, che osservavano la coppia reale con sollievo misto a preoccupazione. Un ritardo nelle celebrazioni avrebbe potuto portare ad accendere il Grande Fuoco dopo l’alba, il che era noto a tutti come un auspicio nefasto per il nuovo anno.
“Mio Jarl.”
Dalla gelida oscurità della notte emerse un’ombra incappucciata, seguita a breve distanza da un’altra figura, leggermente più alta.
“Jora, Lortheim.” Li salutò Ulfric, riconoscendo la sacerdotessa del Tempio di Talos e suo marito, anche lui funzionario presso il Dio. “Spero sia tutto pronto.”
“Lo è, Sire.” Acconsentì Jora, tirando su con il naso. Il gelo di quella mattina era a malapena sopportabile persino per i Nord, ed i radi, sottilissimi fiocchi bianchi simili a pulviscolo non aiutavano di certo a dare una parvenza di calore.
Ulfric espirò lentamente, e la sua vista fu per un attimo ostacolata da una spessa nuvola di vapore fuoriuscita dalle sue narici.
“Bene, dunque. Procedi. Non è il caso di perdere altro tempo.” Le ordinò con voce bassa e ferma. La sacerdotessa annuì, traendo un largo tamburo piatto da sotto il mantello. Suo marito le porse una bacchetta lunga quanto l’avambraccio di un uomo, con cui la donna cominciò a percuotere la pelle tesa dello strumento dando così inizio alle celebrazioni.
Jora batteva un ritmo lento e costante, simile al battito di un cuore, e dopo una decina di colpi si incamminò tra la folla, che si aprì ad ala al suo passaggio. Suo marito la seguiva a ruota, un passo avanti alla coppia reale ed alle loro scorte armate, e subito dietro ai soldati si mise in moto la popolazione, accodandosi con passi dapprima incerti, e poi sempre più decisi.
Non appena si misero in marcia, Lortheim prese a salmodiare con voce stentorea le preghiere a Talos, a cui i presenti rispondevano secondo delle formule ben stabilite durante i secoli. Ulfric le conosceva sin dall’infanzia, e seguendo il sacerdote le mormorava a mezza voce, ignorando le raffiche gelate che gli schiaffeggiavano il volto.
“Dobbiamo affrettare il passo.” Disse piano alla giovane moglie approfittando di una pausa tra un’invocazione e l’altra, mentre a testa alta incedeva lungo la scalinata dissestata che scendeva nella piazza. I due sacerdoti davanti a loro camminavano rapidi, palesemente ansiosi di precedere l’alba.
“Ma se vado più in fretta rischio di scivolare sul ghiaccio.” Protestò la ragazza in tono petulante, strappandogli uno sbuffo esasperato.
Ignorando le sue lamentele serrò il robusto braccio su quello più sottile di Lirael e prese a marciare di buon passo verso le porte della città, seguito dalla sua scorta e dalla folla di Nord muniti di torce.
Con la coda dell’occhio poteva vedere alla propria sinistra le compatte figure dei guerrieri Bretoni procedere nella neve ammucchiata ai lati della piazza, evidentemente nell’intento di mantenere l’andatura senza scivolare sulle lastre di ghiaccio né perdere di vista la loro protetta.
Dietro di sé riusciva a sentire il borbottio di Galmar, intento a raccontare qualcosa ad Yrsarald ed Arnbjorn, il caposcorta, che rispondeva a monosillabi e grugniti. Tutti e tre si erano muniti di torce non appena erano usciti dal palazzo, ed ora le tenevano alte perché la strada davanti allo Jarl fosse ben illuminata.
Quando si avvicinarono alle mura le guardie cittadine, ben avvolte nei mantelli che recavano il vessillo dell’Eastmarch, salutarono il loro Signore chinando il capo e senza indugio spalancarono le porte cigolanti, lasciando che i seguaci di Talos potessero continuare la loro marcia.
Non appena mise piede all’esterno Ulfric trattenne a stento una smorfia soddisfatta nel vedere fuochi brillare lungo tutto il passaggio in pietra che conduceva alla città e sulla strada, ai margini del percorso che avrebbe dovuto seguire per raggiungere il santuario di Talos.
In realtà non si trattava di un santuario vero e proprio, quanto di una statua di ragguardevoli dimensioni posta su un promontorio, rivolta verso la città, ai cui piedi vi era un piccolo altare consacrato al Dio.
Procedendo nella neve, abbastanza alta da farli affondare fin oltre la caviglia ma non tanto da arrestarne il passo, i fedeli di Windhelm giunsero fino ai piedi della piccola altura su cui sorgeva l’effige della divinità, radunandosi davanti ad una catasta di legna, fascine di paglia ed erba secca che era stata posta esattamente al disotto di quella figura di pietra.
I due sacerdoti invece, seguiti da una manciata di soldati scelti e dallo Jarl e la sua sposa, proseguirono il cammino, aggirando il promontorio fino ad uno stretto sentiero che vi si inerpicava, portando alla cima.
Continuando a tenere la giovane moglie sottobraccio, Ulfric cominciò a salire lungo il pendio innevato, seguito a breve distanza dai suoi tre guerrieri più fidati e da Moran, che a differenza degli altri Bretoni sembrava tutto intenzionato a seguire la sua Signora ovunque andasse.
Era certo che da qualche parte ci fosse anche quell’algida Altmer, ma al momento non riusciva a vederla. Di sicuro non poteva essere rimasta laggiù, accanto alla catasta, insieme a quella folla di Nord intenti ad adorare un Dio che la sua razza aveva cercato di cancellare.
Ma quello non era il momento adatto per preoccuparsi di quell’elfa. Jora aveva cominciato a battere un ritmo più rapido, ed allora Ulfric si fece avanti. Tolse dall’altare ai piedi della statua tutte le offerte dell’anno precedente, posandovi poi quelle nuove: un martello da guerra ed una spada in acciaio lucente, perché la città fosse protetta; una pozione del vigore, per garantire forza e nerbo alle genti di quella terra; un libro che raccoglieva le leggende di Skyrim, perché gli abitanti di Windhelm non scordassero le proprie origini; una piccola sacca con alcune monete d’oro, per propiziarsi ricchezza e benessere.
Ognuno di quegli oggetti era stato portato sul luogo al tramonto del giorno prima e posto in terra, accanto all’altare, di modo che Ulfric avesse solo da sollevarli verso la statua e poi posarli sul liscio pianale di pietra grigia.
Terminata la presentazione delle offerte, lo Jarl mise una mano sulla spalla della sua giovanissima sposa.
“Inginocchiati, ora.” Le disse a mezza voce, perché quello era quanto ci si aspettasse da lei ora.
“Nella neve?” Domandò allibita la ragazza, occhieggiando la coltre candida che giaceva ai suoi piedi.
“Non farmelo ripetere.” Le sibilò Ulfric in risposta, e premendo sulla sua spalla la spinse a piegarsi in ginocchio davanti all’altare, mentre lui faceva lo stesso.
La neve scricchiolò sotto il suo peso,  mentre il suo gelo lo raggiungeva attraverso il tessuto dei calzoni. Al suo fianco sentiva la giovane Lirael tremare convulsamente, e per un attimo si chiese perché mai avesse accettato di prendere in moglie una donna il cui sangue non le permetteva di sopportare il freddo. Come avrebbe potuto generare dei veri Figli di Skyrim, se non era nemmeno in grado di far fronte ad un po’ di neve?
Con un sospiro sollevò gli occhi chiari su una tozza spada dalla larga lama intagliata nella pietra, il simbolo di Talos, cuore pulsante dell’altare che rendeva quel promontorio degno di figurare come santuario. Allungata una mano la posò sulla gelida superficie del simulacro, invitando la giovinetta al suo fianco a fare lo stesso.
“Prega.” Le disse, chinando il capo. Jora la sacerdotessa continuava a battere rapidamente sul suo largo tamburo, mentre alle sue spalle i tre guerrieri dell’Eastmarch ed il soldato Bretone tenevano alte le torce. Lame di luce guizzavano sulla neve e si facevano strada tra le ombre che precedevano l’alba, facendo splendere su quella coltre candida una miriade di cristalli di ghiaccio.
Sembravano tutti in attesa di qualcosa. Il popolo attendeva ai piedi del promontorio davanti alla catasta spenta, i due sacerdoti battevano e salmodiavano sempre più rapidamente, e la tensione che aleggiava nell’aria era quasi palpabile.
Lentamente, sotto le dita di Ulfric, la pietra cominciò ad assumere calde sfumature rosate, mentre dalla base del simulacro presero a levarsi delicate scie luminose, che cominciarono ad avvolgersi su sé stesse ed intorno alla tozza spada di roccia. Al suo fianco, la giovane Lirael emise una bassa esclamazione di sorpresa e cercò si allontanarsi.
“No.” Le sibilò lo Jarl. “Resta dove sei e continua a pregare. Talos ci sta ascoltando.”
Titubante, la ragazza fece come le era stato detto, e rimase a fissare allarmata e rapita la calda luce che pulsava dal santuario, sempre più intensa, e che si avvolgeva in spire sempre più ampie ed eleganti mentre Jora batteva un ritmo quasi forsennato sul suo tamburo.
Per un istante Ulfric si ritrovò avvolto in quelle spire luminose, e gli parve che la roccia sotto le sue dita fosse diventata insopportabilmente calda. E poi, rapida come era arrivata, ogni sensazione svanì; la luce venne riassorbita dalle tenebre, la pietra si raffreddò nuovamente, il gelo dell’inverno tornò a mordergli la carne sotto le vesti ed i battiti della sacerdotessa si arrestarono.
Con un grugnito dato dallo sforzo si risollevò, porgendo poi il braccio ad una tremante Lirael perché facesse lo stesso.
“Cosa è accaduto?” Gli chiese la giovane, mentre cercava conforto e calore nel proprio mantello. Aveva un’aria terribilmente infreddolita, ed Ulfric si chiese per un attimo se non era il caso di metterle indosso qualcosa di più pesante, salvo poi ripensarci subito. A breve avrebbero acceso i fuochi, e la ragazza avrebbe potuto scaldarsi tranquillamente davanti ad un braciere.
“Talos ha ascoltato le nostre preghiere e le ha accettate.” Le spiegò. “E per un altro anno l’Eastmarch potrà godere della sua protezione e…” Il resto della sua frase venne inghiottito dal rumoreggiare della folla, che vedendo la luce svanire dalla sommità del promontorio e non udendo più alcun rullo di tamburo, aveva appiccato fuoco alla catasta di legna ed ora urlava festante. Ancora una volta, gli abitanti di Windhelm avevano preceduto l’alba.
“Un’ottima cerimonia, come sempre.” Dichiarò una voce bassa e roca alla sua sinistra, e quando Ulfric si voltò si ritrovò a fissare il viso emaciato di un uomo alto e segaligno, con un ampio cappuccio scuro che gli copriva gran parte del volto. Indossava una semplice tunica da mago che un tempo era stata tinta di nero, ma ora era vecchia, slavata e sdrucita in più punti. Una barba di un bruno grigiastro gli scendeva sul petto, aggrovigliata e sporca, incrostata di qualcosa che alla debole luce delle torce avrebbe potuto passare indistintamente per fango o sangue.
“Wuunferth. Non credevo che fossi nel corteo.” Disse lo Jarl, ricevendo in risposta un grugnito seccato.
“Io sono sempre ovunque, Ulfric. Dovresti saperlo.” L’uomo emise un graffiante rumore di gola e sputò in terra, quindi levò una pallida mano simile ad un artiglio per grattarsi una guancia scavata. “Questa chi è?” Gracchiò, voltando il capo verso Lirael. Da sotto l’orlo rovinato del cappuccio lampeggiarono due occhi acuti, sottolineati da profonde occhiaie scure. La ragazza sobbalzò nel sentirsi apostrofare con tanta asprezza, ed Ulfric sentì due piccole mani stringersi istintivamente attorno al suo braccio.
“Io…” Cominciò la giovane, ma lui subito la interruppe.
“È mia moglie.” Tagliò corto, facendo poi un cenno con il mento verso l’uomo emaciato per presentarlo alla sua piccola sposa. “Wuunferth il Non-Morto. È un guaritore ed il mio mago di corte.”
Nell’udire l’appellativo dello stregone la ragazza si irrigidì e si tirò istintivamente indietro, rischiando di inciampare in un cumulo di neve. Con un sospiro esasperato Ulfric la trattenne, evitandole la caduta.
Aveva visto spesso reazioni simili. Wuunferth era un uomo spettrale e cupo, dalle strane manie, e tanto era bastato a fare di lui un individuo sospetto, un negromante, un uomo che trafficava con la morte; quelle sue stranezze gli avevano fatto guadagnare uno scomodo soprannome, che suscitava diffidenza e timore in quanti non lo conoscevano. Lui stesso, da giovane, aveva cercato di evitarlo per quello stesso motivo. Fino a che, durante la battaglia nel Reach in cui si era distinto come condottiero, lo stregone non gli aveva salvato la vita, curandogli una ferita altrimenti mortale.
A distanza di anni l’unico ricordo di quel fatale squarcio era una brutta cicatrice posta appena sotto il costato, ed una volta divenuto Jarl, Ulfric aveva pensato di ringraziare il mago donandogli un posto a corte. La nuova posizione di prestigio non aveva impedito alla gente di mormorare, ma almeno ora nessuno lo accusava più pubblicamente di negromanzia.
“Guarda un po’ cosa è strisciato fuori dal deretano della notte.” Emergendo dalle ombre con una torcia fiammeggiante in pugno Galmar si affiancò allo stregone, dandogli una vigorosa pacca sulla schiena che, incredibilmente, parve non aver alcun effetto sulla sua figura spigolosa ed emaciata.
“Un giorno o l’altro, stupido horker, manderò una delle mie creature a farti visita.” Gracchiò Wuunferth, fissando il vecchio guerriero con quei suoi pallidi occhi spettrali. Non c’era rabbia nella sua voce ma solo una terribile calma, come se si stesse limitando ad esporre un dato di fatto, ma Galmar non parve colpito; scrollando le enormi spalle si voltò invece verso Ulfric, facendo un gesto verso il grande falò con la mano che reggeva la torcia.
“Ci siamo riusciti anche quest’anno, amico mio.” Disse con un sorriso che brillò per un istante in mezzo alla sua barba grigia. “Quando intendi partire?”
“Selleremo i cavalli al terzo giorno a partire da oggi.” Rispose lo Jarl con sicurezza. “Ora che non dobbiamo più attendere le celebrazioni, possiamo cominciare a pensare alla partenza. Manderò un messo a precederci, per annunciare il nostro arrivo. A tal proposito, Moglie.” Disse, voltandosi verso la giovane Lirael che si era tenuta fuori dal discorso fino a quel momento. “Dì alla tua cameriera di preparare un baule con i tuoi abiti più caldi. Verrai con me a Winterhold.”
“Non posso.”
La risposta della ragazza lo stupì al punto da lasciarlo a bocca aperta per un istante. Se ne accorse solo dopo qualche attimo, ed allora si ricompose e la fissò con sguardo penetrante, stringendo i muscoli della mascella.
“Come sarebbe a dire che non puoi?” La interrogò in tono severo, squadrandola dall’alto in basso. Il vento che spirava dal Mare dei Fantasmi si era fatto più insistente, tanto da morder loro la carne, e sollevata la neve fresca la faceva danzare nell’aria, mescolandola al candido pulviscolo gelato che turbinava scendendo dal cielo. Lirael era terribilmente pallida, con le guance ed il naso arrossati dal freddo, mentre i suoi capelli ed il suo mantello erano costellati dei minuscoli cristalli di ghiaccio sospinti dal vento.
“Non posso viaggiare in questo periodo.” Ripeté la ragazza, arrossendo violentemente.
“Sciocchezze. Verrai con me, e se temi il freddo ti farò fare un nuovo mantello.” Ribatté Ulfric. Era necessario che la giovane lo seguisse, e non avrebbe accettato alcun capriccio.
“Mi dispiace.” Lirael scosse il capo. “Mi spiace, ma non potrò venire con te, Marito.” Ed abbassando lo sguardo si posò le mani sul ventre in un gesto protettivo.
“Che io sia dannato!” Esclamò Galmar sorpreso, ma Ulfric non riuscì ad udirlo.
Tutta la sua attenzione era per la sottile figura davanti a lui, che con gli occhi bassi gli stava dando una delle notizie migliori che potesse desiderare.
A quanto pareva, Talos aveva ascoltato le sue richieste.
E le aveva esaudite.
 
 
 
 
 
  

 
Se sembra che questa storia stia andando a rilento con gli avvenimenti è perché voglio dare il tempo a tutti, anche a chi non ha mai giocato a Skyrim, di assimilare i nomi, l’ambientazione e le dinamiche pseudo-politiche della regione più a nord di Tamriel. Se troverete quindi descrizioni prolisse – soprattutto nella parte dal punto di vista di Ulfric – fate finta di niente, perché mi servono per spiegare le dinamiche che portano alla guerra civile. Il capitolo può essere un pò lungo, ma spero che la divisione in paragrafi vi faciliti un poco la lettura.
Ah, un’ultima cosa: la reazione di Ulfric sulla questione del carrettiere non è affatto spropositata, e più avanti nella storia scoprirete il perché
 
  
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